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Obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi -  Assoluto e inderogabile

24/10/2004 Obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi -  Assoluto e inderogabile - Giudizio di rinvio va inteso come ulteriore fase del giudizio di merito, vincolata alla sentenza di annullamento nei limiti da questa determinati

Penale - Obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi -  Assoluto e inderogabile - Giudizio di rinvio va inteso come ulteriore fase del giudizio di merito, vincolata alla sentenza di annullamento nei limiti da questa determinati (Cassazione , sez. I penale, sentenza 24.10.2004 n. 40386)

RITENUTO IN FATTO

Il 26 marzo 2002 la quinta Sezione di questa Corte annullava con rinvio la sentenza della Corte d'appello di Venezia in data 21 novembre 2000 - che, in riforma della pronunzia del Tribunale di Padova del 16 marzo 1994, aveva dichiarato Giampaolo F. e Francesco Raimondo D. colpevoli del delitto di falso ideologico - ritenendo illegittima e carente la motivazione del provvedimento nella parte concernente l'attribuibilità soggettiva del reato.

Il 19 novembre 2003 la Corte d'appello di Venezia, in sede di annullamento con rinvio, dichiarava non doversi procedere nei confronti dei due imputati per essere il reato estinto per prescrizione.

La Corte territoriale osservava che:   - unico oggetto di esame era l'episodio di falso di cui al capo b1), posto che la pronuncia di assoluzione del Tribunale di Padova per l'ipotesi di falso contestata al capo b2) non era stata oggetto di appello;

  - il reato di falso sub capo b1) era estinto per prescrizione sin dal luglio 2003, essendo trascorso il termine di quindici anni previsto dagli artt. 157, comma 1, n. 3, e 160, comma 2, e che tale conclusione non mutava per effetto della contestazione dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 2, c.p., in quanto, da un lato, in caso di abuso di ufficio commesso mediante falso ideologico, si è presenza non di un'ipotesi di concorso di reati, bensì del solo reato di falso, e, dall'altro, la citata circostanza aggravante era da ritenere elisa per effetto della concessione delle circostanze generiche equivalenti da parte dei giudici di prima istanza, la cui decisione sul punto non era stata impugnata;

  - non sussistevano i presupposti per una pronunzia di assoluzione nel merito in presenza di un quadro probatorio insufficiente e incerto.

A tale ultimo proposito i giudici testualmente argomentavano: "pur in assenza di prove dirette di concrete attività commissive ed omissive di concorso nel reato da parte dei due imputati e anche prescindendo da affermazioni, pur contenute nella sentenza appellata, di complessiva gestione "politica" della pratica in argomento... D. è stato sicuramente individuato in colui che, presente alla riunione del 6 luglio 1998, ha riferito sul contenuto della stessa fungendo da relatore e F. è colui che, pur assente dalla discussione, era collocato all'apice amministrativo del settore economato-provveditorato da cui la proposta di delibera era uscita confezionata".

Ad avviso della Corte territoriale, quindi, i due imputati avevano posto in essere atti di concorso ex art. 110 c.p. con eventuali altri autori materiali delle false indicazioni contenute nella delibera "per il ruolo effettivamente svolto nella vicenda, per la competenza "binaria" sulla materia, che coinvolgeva i due settori amministrativi di cui essi erano i referenti e secondo un criterio logico-deduttivo e di comune esperienza, per il quale chi si trovi in posizione apicale di un settore o sottosettore amministrativo deve essere non solo a piena conoscenza del contenuto degli atti e dei provvedimenti adottati e/o proposti dal settore stesso, ma avere anche svolto un qualche ruolo attivo, direttivo o, comunque, orientativo nella predisposizione concreta del suo contenuto".

Avverso la citata sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensori di fiducia, i due imputati, i quali lamentano: a) violazione di legge per inosservanza dei principi direttivi fissati dalla precedente pronunzia della Corte di cassazione del 26 marzo 2002 con riferimento all'attribuibilità soggettiva del delitto di falso ideologico; b) violazione di legge, carenza e contraddittorietà della motivazione in ordine all'omessa applicazione della formula assolutoria per non avere commesso il fatto per il delitto di falso ideologico, non potendosi distinguere, ai fini dell'adozione della formula di proscioglimento più favorevole, tra evidenza di assenza di responsabilità e insufficienza e contraddittorietà del quadro probatorio.

OSSERVA IN DIRITTO

Il ricorso è fondato.

1. Relativamente al primo profilo di doglianza, il Collegio osserva che il giudizio di rinvio va inteso come ulteriore fase del giudizio di merito, vincolata alla sentenza di annullamento nei limiti da questa determinati.

Il giudice di rinvio decide con gli stessi poteri che aveva il giudice della sentenza annullata, limitatamente, peraltro, ai punti che hanno formato oggetto dell'annullamento o in connessione essenziale con la parte annullata, e, inoltre, non solo deve uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa, ma non può neppure attrarre al suo potere statuizioni diverse ed autonome rispetto a quelle devolutegli. Il giudizio di rinvio non si identifica, quindi, nella pura e semplice rinnovazione del giudizio conclusosi con la sentenza annullata, ma rappresenta una fase a sé stante, caratterizzata dal condizionamento che scaturisce dalla sentenza della Corte di Cassazione che lo ha disposto (S.U. 11 maggio 1993, ric. Ligresti; S.U. 23 novembre 1990, ric. Agnese).

L'obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi alla pronunzia della Corte per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa deciso è assoluto e inderogabile.

Al riguardo il Collegio osserva che l'organo di legittimità risolve una questione di diritto anche quando giudica sull'adempimento del dovere di motivazione, sicché il giudice di rinvio, pur conservando la libertà di decisione mediante un'autonoma valutazione delle risultanze probatorie relative al punto annullato, è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema implicitamente o esplicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, restando in tal modo vincolato ad una determinata valutazione delle risultanze processuali, ovvero al compimento di una particolare indagine, in precedenza omessa, di determinante rilevanza ai fini delle decisione.

I poteri del giudice di rinvio sono diversi a seconda che l'annullamento sia stato pronunziato per violazione o erronea applicazione della legge penale oppure per mancanza o manifesta illogicità della motivazione.

In questa ultima ipotesi il giudice di rinvio è libero di determinare il proprio apprezzamento di merito mediante autonoma valutazione dei dati probatori e della situazione di fatto concernenti i punti oggetto dell'annullamento, pur essendo tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema esplicitamente o implicitamente enunciato nella sentenza di annullamento. Gli è, quindi, inibito di fondare la nuova decisione sulla base degli stessi argomenti ritenuti viziati dalla pronuncia di annullamento.

Nel caso di specie la Corte territoriale non ha osservato il disposto di cui all'art. 627 c.p.p.

Infatti, in sede di rinvio, ha affrontato in via preliminare il problema dell'intervenuta prescrizione del delitto di falso ideologico e ha esaminato la questione della sua attribuibilità soggettiva a Francesco Raimondo D. e Giampaolo F. solo incidentalmente, per giustificare il diniego di assoluzione nel merito, pure sollecitata dalle difese, adottando, peraltro, le medesime argomentazioni già in precedenza censurate sotto diversi profili da questa Corte.

2. Con riferimento all'ulteriore doglianza difensiva riguardante l'omessa adozione di una formula di proscioglimento ampia nel merito, pur in presenza di un quadro probatorio insufficiente e contraddittorio, e l'erronea declaratoria di estinzione del reato, la Corte osserva quanto segue.

L'art. 530, comma 2, c.p.p., che dà attuazione alla direttiva della legge-delega, relativa all'equiparazione delle ipotesi di insufficienza o contraddittorietà della prova alla mancanza della medesima, ha determinato l'eliminazione dal nostro sistema processuale penale della tradizionale formula dubitativa, con la quale il giudice doveva definire il processo, allorché non risultavano sufficienti prove per condannare (art. 479, comma 3, c.p.p. abrogato).

Viene così fissato, ai fini della decisione, un nuovo parametro valutativo che assimila la certezza che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso alla non scienza totale.

La nuova formulazione normativa appare coerente con il quadro di riferimento delineato dalla Carta fondamentale, laddove fissa la regola di giudizio in forza della quale l'incertezza dei risultati probatori equivale all'impossibilità di superamento di un dato di partenza, di un elemento certo, costituzionalmente garantito, così che tra la colpevolezza e la non colpevolezza non è consentita alcuna via intermedia.

Essa recepisce, inoltre, l'insegnamento della Consulta, che, nella vigenza dell'abrogato codice di rito, aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 3 Cost., l'art. 152, comma 2, c.p.p., nella parte in cui, a differenza degli artt. 387 e 479 c.p.p., non comprendeva tra le ipotesi in cui il giudice, a istruttoria ultimata, deve pronunziare sentenza di proscioglimento nel merito anziché declaratoria di estinzione del reato, oltre a quella in cui sussista la prova positiva dell'innocenza dell'imputato, anche quella in cui manchi del tutto la prova che l'imputato abbia commesso il reato.

La Corte costituzionale aveva al riguardo evidenziato che una differenziazione normativa delle formule di proscioglimento avrebbe comportato una disparità di trattamento rispetto a situazioni sostanzialmente omogenee per equivalenza di risultati negativi tra prova evidente ed assoluta mancanza di prova, sussistendo in entrambi i casi i presupposti per l'assoluzione con formula piena (sentenza Corte costituzionale 5/1975).

Peraltro, già la giurisprudenza formatasi in merito alla disciplina contenuta nel codice abrogato, con orientamento consolidato, aveva ritenuto applicabile l'assoluzione con formula dubitativa non in base ad un mero dubbio soggettivo del giudice, fondato su ipotesi astrattamente configurabili, ma solamente in presenza di una obiettiva incompletezza ed equivocità degli elementi positivi di prova assunti, configurabile anche in presenza di un contrasto dialettico tra elementi positivi e negativi, che, pur non annullando del tutto il valore probatorio dei primi, ne diminuisca il significato e la rilevanza, sì da renderli del pari oggettivamente incompleti ed equivoci al fine di un sicuro giudizio di responsabilità (Cassazione 9 dicembre 1985, ric. Ventra, riv. 172216; Cassazione 15 novembre 1983, ric. Casini, riv. 161709). Aveva, inoltre, sottolineato che, in presenza di elementi contrari all'imputato, ma tali da non ingenerare neppure il dubbio di una sua responsabilità, si versava nella distinta ipotesi di mancanza totale della prova.

Alla luce della mutata disciplina positiva, ai fini dell'affermazione di responsabilità, la condotta ascritta all'imputato deve essere provata per intero e la condanna non può essere basata su un contesto probatorio incompleto, superato dall'assunto che i fatti provati consentono di immaginare con sufficiente approssimazione i fatti non provati.

Naturalmente, la completezza del quadro probatorio può essere raggiunta sia attraverso prove dirette che attraverso prove indirette o logiche e deve riferirsi non ad ogni dettaglio della condotta, ma all'esistenza dei fatti nei loro aspetti essenziali (Cassazione 21 aprile 1997, ric. Angelici, riv. 209112).

L'art. 530, comma 2, c.p.p. equipara le situazioni di dubbio sulla prova (prova insufficiente o contraddittoria) alla mancanza di prove e stabilisce che, in tal caso, la formula di assoluzione deve essere riportata ad una delle quattro previste dall'art. 530, comma 1, c.p.p.

La disposizione in esame stabilisce, poi, un ordine progressivo di cause di proscioglimento che è necessario seguire, in quanto rispecchia un criterio logico-giuridico favorevole all'imputato, sicché l'accertamento sull'insussistenza del fatto o sull'innocenza dell'imputato per non avere costui commesso il fatto prevale sulle successive cause di proscioglimento. Il giudice è, perciò, legato all'applicazione della esatta formula di assoluzione nel rispetto di quella che viene chiamata la gerarchia delle formule, per la quale deve essere innanzitutto valutato se il fatto sussiste nei suoi lineamenti obiettivi. In caso affermativo se l'imputato lo ha commesso con dolo o colpa, stabilendo il necessario nesso di causalità tra la condotta e l'evento; in caso di risposta affermativa anche a questo secondo quesito, per cui il fatto commesso dall'imputato costituisce il reato contestatogli, se il fatto medesimo sia o meno previsto come reato.

3. Deve essere, a questo punto, affrontato il problema del rapporto esistente tra l'art. 530 e l'art. 129 c.p.p. e la questione correlata della traduzione processuale della presunzione costituzionale di non colpevolezza dell'imputato. In questa prospettiva occorre in primo luogo richiamare alcuni significativi parametri di riferimento normativo: a) la presunzione di non colpevolezza sancita dall'art. 27, comma 2, Cost.; b) il diritto di difesa (art. 24 Cost.), che trova la sua piena esplicazione nell'insopprimibile facoltà di far assumere le prove a discarico; c) il principio, fissato dall'art. 2, n. 1, della legge delega per la riforma del c.p.p., di adeguamento del codice di procedura penale alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale (Corte costituzionale, sentenza 41/1975 in tema di legittimità costituzionale di norme emanate in contrasto con i principi e i fini della legge di delegazione); d) la presunzione di innocenza fissata dall'art. 6, n. 2, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo; e) la direttiva contenuta nella parte finale dell'art. 2, n. 11, della medesima legge delega, nella parte in cui configura un obbligo di proscioglimento nel merito, quando ne ricorrono gli estremi, anche in presenza di una causa estintiva del reato.

Dalla interpretazione sistematica di questa articolata trama normativa possono trarsi alcune conseguenze:

a) il concetto di "evidenza", richiamato dall'art. 129, comma 2, c.p.p. non può essere inteso come prova prima facie dell'innocenza dell'imputato, immediatamente rilevabile dalla lettura degli atti, perché l'estraneità dell'imputato al fatto può anche costituire la conclusione logico-giuridica del percorso seguito dal giudice nella valutazione della prova;

b) il richiamo contenuto nell'art. 531, comma 1, c.p.p. all'art. 129, comma 2, c.p.p. come regola di giudizio nella scelta tra le formule di proscioglimento delle sentenze dibattimentali è indicativo della volontà del legislatore di non restringere la possibilità di un proscioglimento ampio nel merito in presenza di un fenomeno estintivo ai soli casi di prova manifesta, tanto più che la disposizione si riferisce ad un dibattimento ormai concluso e, quindi, ad una fase processuale nella quale le esigenze di economia non possono essere più apprezzate in maniera significativa;

c) alla luce dei principi fissati dalla sentenza 5/1975 della Consulta, applicabili nell'interpretazione del vigente art. 129 (sostanzialmente corrispondente all'abrogato art. 152 del previgente codice di rito), la dichiarazione di estinzione del reato è consentita solo allorché sia esclusa la sussistenza delle condizioni richieste dalla citata norma per un'assoluzione piena nel merito (v. in tal senso Sezione quinta, 13170/2002, riv. 221257; v., inoltre, Sezione sesta, 16 aprile 1991, ric. Sciuto; Sezione seconda, 15 ottobre 1992, ric. Tulipani; Sezione prima, 9 maggio 1994, ric. Forneris);

d) in presenza di una prova insufficiente e contraddittoria in merito alla sussistenza del fatto, alla sua attribuibilità all'imputato, alla sua configurabilità come reato, all'imputabilità deve essere adottata la formula ampiamente liberatoria in luogo della pronuncia estintiva del reato; la situazione di dubbio sulla responsabilità dell'imputato è equiparata alla mancanza di prova sulla stessa.

4. Nel caso in esame la Corte territoriale non ha osservato i principi in precedenza illustrati, in quanto, omessa qualsiasi ulteriore, nuova pronunzia sui profili di responsabilità soggettiva, il cui approfondimento era stato espressamente indicato nel provvedimento di annullamento con rinvio da parte di questa Corte, ha adottato la declaratoria di improcedibilità per estinzione del reato, pur in presenza dei presupposti per una pronunzia più favorevole all'imputato, dovendosi equiparare, ai sensi dell'art. 530, comma 2, l'insufficienza e la contraddittorietà degli elementi probatori, quali illustrati nel testo della sentenza impugnata, alla mancanza di prove.

Per queste ragioni la sentenza impugnata deve essere annullata.

Poiché dall'esame degli atti e, in particolare, dal provvedimento impugnato emerge che non residuano ulteriori elementi probatori suscettibili di apprezzamento e di nuova deliberazione da parte della Corte territoriale, l'annullamento deve essere disposto senza rinvio.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, per non avere gli imputati commesso il fatto.

 

Documento pubblicato su ForoEuropeo - il portale del giurista - www.foroeuropeo.it