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Esecuzione lavori sulla strada pubblica - Presunzione di responsabilita' ex articolo 2050 del cc

Risarcimento del danno - Esecuzione lavori sulla strada pubblica - Presunzione di responsabilita' ex articolo 2050 del cc

Risarcimento del danno - Esecuzione lavori sulla strada pubblica - Presunzione di responsabilità ex articolo 2050 del cc (Corte di cassazione,- Sentenza 5 febbraio-13 maggio 2003 n. 7298)

Svolgimento del processo

Con atto notificato l'8/10/1990, Xxxxxxxxxxxxx, premesso che l'1/6/1989 alcuni operai della Bxxxxxxxxx s.p.a. stavano eseguendo dei lavori sul marciapiedi antistante la sua autorimessa, sita in Milano viale S. Gimignano, per rinnovarne il manto di asfalto; che gli operatori non avevano apposto alcun cartello di pericolo né avevano creato alcun varco per i pedoni; che esso attore mentre tentava di accedere alla propria autorimessa, cercando di evitare la parte di marciapiede appena asfaltata, era caduto nell'asfalto bollente, riportando ustioni alle mani; che dal fatto, oltre ad un periodo di inabilità temporanea, gli erano residuati postumi permanenti; conveniva davanti al tribunale di Milano la Bxxxxxxx, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni
Si costituiva la convenuta, che resisteva alla domanda.
Il Tribunale di Milano, con sentenza depositata il 5/6/1995, rigettava la domanda.
Proponeva appello l'attore.
Si costituiva e resisteva la convenuta.
La corte di appello di Milano, con sentenza depositata il 23/7/1999 rigettava l'appello.
Riteneva la corte di merito che, poiché il Axxxxxx era a conoscenza della messa in opera dell'asfalto, rimaneva superato l'obbligo per l'esecutore di informare i potenziali danneggiati con cartelli o segnali; che nella situazione concreta non era predisponibile altra misura a norma dell'art. 2050 c.c.; che il teste Cxxxxx aveva riferito che non potevano apporsi in loco barriere, birilli o tavole, perché ciò avrebbe intralciato i lavori; che, poiché una parte del marciapiedi era transitabile e poteva raggiungersi l'autorimessa, il Axxxxx ben poteva passare attraverso questo varco, mentre egli tentò di saltare la parte asfaltata, con un comportamento incauto che interruppe il nesso causale tra l'attività dell'impresa e l'evento, che quindi era da ascriversi esclusivamente all'appellante.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'attore.
Resiste con controricorso la convenuta, che ha presentato memoria.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta il vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia.
Assume il ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che la consapevolezza dell'appellante della pericolosità dei lavori in atto potesse costituire prova liberatoria per l'esecutore degli stessi, a norma dell'art. 2050 c.c.
Ritiene inoltre il ricorrente che la sentenza impugnata non motiva per quale ragione le opportune cautele preventive non fossero possibili nella fattispecie, in quanto il solo fatto che le stesse potessero intralciare i lavori non dava luogo ad un'impossibilità tecnica, ma solo ad un aggravio di costi per dilatazione dei tempi di esecuzione.
Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 2050 c.c.
Assume il ricorrente che, allorché non siano state adottate tutte le necessarie cautele, idonee ad evitare il danno, e, quindi sia riconosciuto un nesso di derivazione causale tra questa mancanza di misure protettive e l'evento dannoso, non può essere ascritto a colpa generica del danneggiato il fatto che egli non abbia provveduto con personali cautele e risorse a questa mancanza dell'esercente l'attività pericolosa, in quanto la norma non pone alcun onere a carico dei soggetti estranei alla gestione dell'impresa pericolosa.
Ritiene questa Corte che i suddetti motivi, essendo strettamente connessi, vadano esaminati congiuntamente.

Essi vanno accolti.

Osserva preliminarmente questa corte che a norma dell'art. 2050 c.c. «chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un'attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno».
Consentendo la norma una prova «liberatoria» consistente nella dimostrazione di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, è discusso se ci si trovi in presenza di una responsabilità comunque fondata su di una colpa, presunta ma rilevante, pur se di tenuissima entità, ovvero di una responsabilità oggettiva, anche in considerazione del fatto che soggettivamente (soprattutto se si tratta di imprenditore) il responsabile può non aver colpa alcuna nella mancata predisposizione di tutte le misure.

La stessa giurisprudenza di legittimità a volte propende per un'ipotesi di responsabilità costruita sulla presunzione di colpa (Cassazione n. 1425/1983; Cassazione 21/6/1984, n. 3678) altre volte fa riferimento ad una presunzione di responsabilità (Cassazione 4/6/1998, n. 4777; Cass. 19/1/1995, n. 567), sembrando, quindi, propendere per l'ipotesi della responsabilità oggettiva.

Il problema non è solo teorico, ma si riverbera sul contenuto e sui limiti della prova «liberatoria».
Secondo la relazione al codice (e la dottrina che ritiene sussistere un'ipotesi solo di presunzione di colpa) la deroga al principio di responsabilità per colpa (art. 2043 c.c.) si limita all'inversione dell'onere probatorio ed alla sufficienza di un grado lievissimo di colpa, minore di quello richiesto dall'art. 2043 c.c. L'orientamento contrario ritiene che, pur versandosi in ipotesi di responsabilità oggettiva, trattasi di una figura particolare più limitata di quella che ha per limite il caso fortuito.
Come è stato efficacemente segnalato, l'art. 2050 costituisce in effetti il maggior ostacolo all'individuazione di un principio generale di responsabilità oggettiva dell'impresa nel sistema del codice civile. Proprio nell'ipotesi che più, infatti, sembra implicare l'esigenza di svincolare la responsabilità dalla colpa, la previsione legale consente l'esonero attraverso una formula che non sembra riconducibile alla categoria della responsabilità oggettiva in senso proprio.
Sembra in realtà che la norma, pur costituendo un'ipotesi di responsabilità per colpa, nell'ambito di questa categoria si ponga ai limiti ultimi e più prossimi a quella della responsabilità oggettiva, comportando, come è stato rilevato, un ampliamento del contenuto del dovere di diligenza con riferimento alla natura dell'attività dannosa.
Sotto questo profilo la formulazione normativa appare in sintonia con la nozione moderna di colpa, per il preminente significato oggettivo.
Chi pone in essere un'attività pericolosa deve organizzarla preventivamente secondo modalità idonee ad evitare che la pericolosità si traduca in danno.
La verifica della congruità a tal fine delle misure adottate, sulla base delle risorse offerte dalla tecnologia esistente ed in relazione alle condizioni concrete, costituisce il contenuto del giudizio da operare ai fini della sufficienza degli elementi addotti dal convenuto per l'esonero della responsabilità.
Che poi nella pratica tale esonero molto spesso finisca per aversi solo se dalla prova addotta possano ricavarsi elementi presuntivi circa l'identificazione di una causa non imputabile che abbia reso oggettivamente impossibile l'adempimento dell'ampio dovere di diligenza previsto dall'art. 2050 c.c. e che, quindi, in concreto, la differenza con il limite del fortuito si attenui sensibilmente, ciò non esclude che la responsabilità in questione sia pur sempre fondata su una presunzione di colpa, ma anzi conferma che essa è posta ai limiti estremi di detta categoria, prossima alla responsabilità oggettiva, ma, estranea alla stessa.
D'altra parte l'obiettivazione del parametro della diligenza nei termini suddetti (che è evidentemente profilo diverso tanto dalla rilevanza dell'intensità della colpa, quanto dall'oggettivazione della responsabilità) assume nell'art. 2050 c.c. la massima intensità anche nel senso che il soggetto chiamato a rispondere, nell'ipotesi che l'attività assuma forma di impresa, è colui che ha il controllo dell'attività al momento del danno, sul solo presupposto dell'oggettiva mancanza delle misure protettive idonee, non essendogli sufficiente per ottenere l'esonero, la prova di essere personalmente incolpevole. Ma tale esito discende dal fatto che la valutazione richiesta dalla norma concerne l'attività nella sua interezza ed oggettività e non il comportamento personale dell'imprenditore. Né ciò risulta cantraddittorio, una volta abbandonata l'idea che la responsabilità per colpa implichi un giudizio di riprovevolezza o sia finalizzata alla punizione del colpevole.
Sulla base di queste premesse si possono trarre alcune conseguenze.
Anzitutto, come correttamente rilevato dalla stessa sentenza impugnata, la sola «informazione» della pericolosità dell'attività - da parte del soggetto esercente - nei confronti dei potenziali soggetti «danneggiandi» non esaurisce di per sé l'adozione delle misure idonee ad evitare il danno.
Se così fosse, la sola presenza di questa «informazione» finirebbe sempre per scaricare sul comportamento (commissivo od omissivo) del danneggiato, per il solo fatto di essere stato «avvertito», una capacità eziologica del danno, per giunta esclusiva, con un ampliamento non previsto dall'art. 1227, c. 1, c.c. (nel combinato disposto con l'art. 2056) che richiede, invece un comportamento colposo del danneggiato nella produzione dell'evento.
Se la sola informazione fosse sufficiente ad esentare da responsabilità l'esercente, di essa sarebbe equipollente anche la conoscenza che il soggetto danneggiato avesse per scienza diretta della pericolosità dell'attività.
Inoltre la norma in questione richiede che l'esercente l'attività pericolosa, per andare esente da responsabilità, deve provare di aver posto in essere «tutte le misure idonee ad evitare il danno».
Come sopra si è rilevato, dette misure devono essere tutte quelle offerte dalla tecnologia esistente ed organizzate precedentemente, secondo modalità in astratto idonee ad evitare il danno: quindi da una parte esse non si esauriscono in solo quelle previste eventualmente dalla normativa primaria o secondaria, ove il caso concreto e la tecnologia esistente ne renda possibili di più efficaci, e dall'altra il silenzio della normativa sul punto non esenta dalla presunzione di colpa l'esercente l'attività pericolosa.
Sebbene il giudizio sull'idoneità delle misure vada necessariamente effettuato ex ante, in esso va tenuto conto anche delle prevedibili imprudenze o negligenze del soggetto danneggiato.
Pertanto la presunzione di colpa, contemplata dalla norma dall'art. 2050 c.c. per le attività pericolose, può essere vinta solo con una prova particolarmente rigorosa, essendo posto a carico dell'esercente l'attività pericolosa l'onere di dimostrare l'adozione di tutte le misure idonee ad evitare il danno: quindi non basta la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune prudenza, ma occorre quella positiva di aver impiegato ogni cura o misura atta ad impedire l'evento dannoso, di guisa che anche il fatto del danneggiato o del terzo può produrre effetti liberatori solo se per la sua incidenza e rilevanza sia tale da escludere, in modo certo, il nesso causale tra attività pericolosa e l'evento e non già quando costituisce elemento concorrente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne abbia reso possibile l'insorgenza a causa dell'inidoneità delle misure preventive adottate (cfr. Cass. civ., 21 novembre 1984, n. 5960; Cass. 29 aprile 1991, n. 4710; Cass.4 giugno 1998, n. 5484).
Stante la suddetta presunzione di colpa a carico del danneggiante, il danneggiato ha il solo onere di provare l'esistenza del nesso causale tra l'attività pericolosa ed il danno subito; incombe invece sull'esercente l'attività pericolosa l'onere di provare di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire il danno (Cass. 4 dicembre 1998, n. 12307).
L'attività di esecuzione di lavori sulla pubblica strada è da considerare pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c., costituendo i lavori stessi fonte di pericolo per gli utenti (ed in questi sensi l'hanno valutata i giudici di merito, cui compete il giudizio sulla pericolosità dell'attività, ove essa non sia già qualificata tale dalla legge).
Ne consegue che l'esercente l'attività in questione è assoggettato alla presunzione di responsabilità di cui alla predetta norma codicistica in relazione ai danni subiti dagli utenti della strada a causa e nello svolgimento dell'attività, presunzione che lo stesso può vincere fornendo la dimostrazione di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.
Nella scelta di tali misure, egli dispone di un certo margine di discrezionalità, da esercitare facendo uso della normale prudenza e tenendo conto dello sviluppo della tecnica e delle condizioni pratiche in cui si svolge l'attività.
Siffatta facoltà di scelta, non investe però quelle misure preventive che già la legge impone di adottare, ma è relativa solo alle misure aggiuntive, che la situazione del caso concreto e/o i progressi della tecnica consigliano.
Pertanto deve ritenersi non superata la presunzione di responsabilità da parte dell'esercente l'attività pericolosa che abbia adottato misure diverse da quelle prescritte da norme legislative (o regolamentari), senza che vi sia alcuna possibilità, in tal caso, di valutarne l'idoneità (cfr. Cass. 2/3/2001 n. 3022).
Va, tal fine, osservato che a norma dell'art. 2 del d.p.r. 15/6/1959, n. 393, vigente all'epoca dei fatti in questione, il marciapiedi costituiva «parte della strada, rialzata o altrimenti delimitata, riservata ai pedoni» e che, a norma dell'art. 8 lett. b) dello stesso d.p.r., i lavori effettuati sulla strada (e quindi anche su quella parte costituita dal marciapiedi) dovevano essere delimitati con appositi ripari ben visibili.
Ne consegue che nella fattispecie la sentenza impugnata è errata allorché ha ritenuto che l'attore non ha indicato quale altra misura avrebbe potuto porre in essere il convenuto per evitare il danno (essendo detti lavori conosciuti dal danneggiato).
Infatti da una parte già la stessa disposizione normativa suddetta individuava dette misure nell'apposizione di ripari ben visibili e dall'altra la prova della mancanza di altre misure idonee ad evitare il danno doveva essere fornita dalla convenuta.
Né l'assunto della sentenza impugnata, secondo cui nella fattispecie non era predisponibile da parte della convenuta alcuna misura risulta motivato.
È vero che l'accertamento relativo alla idoneità ed alla necessità delle cautele prescritte dall'art. 2050 c.c. (al pari di quello concernente il rapporto eziologico e la natura della attività) integra un'indagine di fatto riservata al giudice del merito il cui apprezzamento si sottrae al sindacato di questa corte se fondato su argomentazioni immuni da vizi logici ed errori di diritto, ma ciò solo per le misure che non siano specificamente previste dalla legge, poiché in questa ipotesi il relativo giudizio è già stato espresso dal legislatore.
Nella fattispecie non risulta motivato sulla base di quale elemento probatorio la corte di merito abbia ritenuto che nessuna misura fosse predisponibile.
0ve, invece, si dovesse ritenere che la corte di merito abbia motivato implicitamente tale suo ultimo assunto sulla base della riportata deposizione del teste (C), secondo cui non potevano apporsi barriere, birilli o tavole protettive dei lavori di apposizione dell'asfalto, poiché «ciò avrebbe intralciato i lavori», a parte l'evidente illogicità di tale assunto, perché non si intende dalla sentenza impugnata la peculiarità di questo cantiere di lavoro rispetto agli altri che compiono eguali attività di apposizione di asfalto sulle strade, con apposizione delle prescritte misure protettive, in ogni caso, detta motivazione sarebbe anzitutto errata in diritto.
Infatti da una parte va osservato che la suddetta normativa di cui all'art. 2 lett. b) del cod. della strada all'epoca vigente non prevedeva eccezioni all'apposizione di prescritti «ripari» e dall'altra la sentenza impugnata assimila erratamente l'impossibilità oggettiva, sotto il profilo tecnico, di ogni misura idonea ad evitare il danno, con la difficoltà economica o esecutiva di dette misure di prevenzione, quale l'intralcio da esse costituito all'esecuzione dei lavori.
Ciò infatti, non risolvendosi in un'impossibilità oggettiva di misure di prevenzione del danno, ma in un aggravio di tempi e di costi dei lavori, non comporta il superamento della presunzione di colpa di cui all'art. 2050 c.c.

La corte di merito avrebbe dovuto, quindi, valutare, a norma dell'art. 2050 c.c., se fossero state poste in opera le misure previste dalla normativa vigente (ripari) e le altre eventuali previste dalla tecnica, idonee astrattamente e preventivamente ad evitare l'evento dannoso, e poi avrebbe dovuto valutare se il convenuto aveva fornito la prova positiva della predisposizione di tutte dette misure protettive.

Nell'ipotesi di insussistenza di una o alcune di dette misure idonee ad evitare il danno, il fatto del danneggiato poteva produrre effetti liberatori solo se per la sua incidenza e rilevanza fosse stato tale da escludere, in modo certo, il nesso causale tra attività pericolosa e l'evento e non già quando avesse costituito solo un elemento concorrente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne avesse reso possibile l'insorgenza a causa dell'inidoneità delle misure preventive adottate, da valutarsi, quindi a norma dell'art. 1227, c. 1 c.c.

La disposizione normativa di cui all'art. 2050 c.c. presume quindi la colpa dell'esercente attività pericolosa per danni cagionati a terzi, ritenendolo autore dell'ingenerata situazione di pericolo causativa dell'evento, mentre la responsabilità rimane esclusa dal fatto del danneggiato, secondo i principi che regolano la materia, solo quando, essendo l'attività pericolosa circondata dalle doverose cautele finalizzate ad evitare danni a terzi, questo comportamento del danneggiato si connoti come imprevedibile ed inevitabile, al momento della predisposizione delle misure cautelative, e tale da costituire una causa sopravvenuta da sola efficiente nella produzione dell'evento ed idonea a recidere ogni nesso di causalità con l'attività pericolosa, che assume il ruolo di mera occasione rispetto all'altrui imprudenza e negligenza.

Non avendo la sentenza impugnata fatto corretta applicazione dei suddetti motivi di diritto, la stessa va cassata con rinvio ad altra sezione della corte di appello di Milano che si uniformerà agli stessi e provvederà anche sulle spese di questa sentenza di Cassazione.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso. Cassa l'impugnata sentenza e rinvia.