1.4 determinazione e liquidazione del compenso tra l'avvocato ed il cliente in presenza di un accordo
Sulla scia dell’art. 9, l. 27/2012, in punto di determinazione del compenso, il legislatore ha ribadito con l’art. 13 della l. 247/2012, che il compenso spettante al professionista è pattuito di regola per iscritto, all’atto del conferimento dell’incarico professionale.
In tal modo, il legislatore ha consigliato al professionista sia la forma che il momento della determinazione del compenso, per tutelare nel miglior modo possibile il rapporto professionale ed evitare ab origine l’insorgenza di questioni controverse ed il ricorso alla determinazione giudiziale dei compensi (comma 2 art. 13).
Si consideri comunque che la forma scritta rivestita dalla pattuizione sul compenso tra avvocato e cliente integra un vero e proprio onere imposto alle parti dal comma 3 art. 2233 c.c.
Altro elemento innovativo introdotto dall’art. 13 per il professionista è l’obbligo, soltanto su esplicita richiesta, di comunicare in forma scritta a colui che conferisce l’incarico professionale la misura del costo della prestazione, prevedibile al momento del conferimento dell’incarico, distinguendo fra oneri, spese, anche forfetarie, e compenso professionale (seconda parte comma 5 art. 13).
Tale onere si aggiunge agli altri obblighi informativi che il comma 5 impone all’Avvocato, nel rispetto del principio di trasparenza: si tratta dell’obbligo di rendere noto al cliente il livello della complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell’incarico.
Tale disposizione richiama il disposto con l’art. 9 comma 4 l.27/2012 che impone a tutti i professionisti che, in ogni caso, la misura del compenso sia previamente resa nota al cliente con un preventivo di massima ma stabilendo per l’avvocato che detto obbligo è previsto soltanto quando richiesto dal cliente.
Specificando il contenuto della pattuizione tra cliente ed avvocato, il comma 3, art. 13 l. 247/2013, ispirato al principio di libertà quale massima espressione dell’autonomia negoziale che connota la stipula di un contratto d’opera professionale per la regolamentazione del rapporto avvocato, prevede specificatamente le seguenti tipologie di accordi:
1. accordi a tempo;
2. accordi in misura forfetaria;
3. accordi per convenzione avente ad oggetto uno o più affari;
4.accordi in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività;
5. accordi a percentuale sul valore dell’affare;
6. accordi a percentuale su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione.
Con riferimento alle tipologie sub 5 e 6 è necessario evidenziare che il comma 4, dell’art. 13 della citata legge, ribadisce il divieto del patto di quota lite, ma, ad avviso del sottoscritto, non nella vecchia formulazione del 2233 c.c. ante Bersani, ma come conferma e specificazione di quanto già previsto dall’art. 1261 c.c. anche per altri soggetti.
La formulazione dell’art. 2233 ante Bersani era la seguente: Gli avvocati e i patrocinatori non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, sotto pena di nullità e dei danni.
La formulazione attuale invece, dopo aver previsto la possibilità di stabilire un compenso a percentuale, stabilisce: “4. Sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa.
Detto comma 4 è però preceduto dall’ultimo capoverso del comma 3 dove è prevista la possibilità di determinazione il compenso a percentuale sul valore dell’affare o di determinazione a percentuale su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale.
Tali disposizioni sono apparse ictu oculi foriera di numerosi dubbi interpretativi di non poco momento. Non è mancato infatti chi, in sede di prima lettura della novella, ha ritenuto che il comma 4 così come formulato determina le reviviscenza del divieto del patto di quota lite come previsto e regolamentato prima del decreto Bersani.
Onde sciogliere tali dubbi interpretativi, pare opportuno anzitutto ripercorrere le tappe evolutive della controversa fattispecie del patto di quota lite e poi inserire la nuova disposizione nella cornice della novella 247/2013.
Occorre chiedersi come in questo contesto normativo vada inserito il comma 4, art. 13 l. 247/2013, il quale, come anticipato, vieta i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa.
Se è vero che il patto di quota lite è la pattuizione con cui avvocato e cliente convengono che, quale compenso per l’opera prestata, venga riconosciuta dal cliente all’avvocato una percentuale del bene controverso o del valore dello stesso e, posto che il comma 3 art. 13 della novella ammette espressamente la pattuizione a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene il destinatario della prestazione, fermo restando l’onere della forma scritta ex art. 2233 comma 3 c.c., il patto vietato dal comma 4 in considerazione non è il patto di quota lite, ma un patto che determini il compenso pro quota con specifico riferimento al bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa.
In altri termini, rimangono validi i patti sui compensi parametrati ai risultati conseguiti, aventi ad oggetto, non una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa, ma una percentuale del valore del bene controverso o del bene stesso. Si comprende, dunque, come diverso sia l’oggetto tra il patto vietato ex art. 13 comma 4 l. 247/2013 e il patto di quota lite inteso come sopra.
Ciò risulta espressamente confermato dal comma 3, art. 13 che tra i possibili contenuti della pattuizione tra cliente e avvocato fa rientrare anche la percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene il destinatario della prestazione.
Alla luce di una lettura interpretativa sistematica dell’intera novella, una tale previsione sarebbe del tutto incoerente nonché inutile se il comma successivo della novella vietasse tout court il patto di quota lite, quale pattuizione con cui avvocato e cliente convengono che, quale compenso per l’opera prestata, venga riconosciuta dal cliente all’avvocato una percentuale del bene controverso o del valore dello stesso.
Sembra potersi per contro ragionevolmente concludere nel senso che il comma 4 art. 13 l. 247/2013 si limiti a ribadire il divieto di cui all’art. 1261 c.c.
Ne deriva, quindi che in base alla normativa vigente, anche a seguito della novella dell’ordinamento forense, continuano ad esistere due tipi di patti di quota lite:
il primo, pienamente legittimo, con il quale si stabilisce un compenso correlato al risultato pratico dell'attività svolta e, comunque, in ragione di una percentuale sul valore dei beni o degli interessi litigiosi (tale patto deve essere redatto per iscritto pena nullità ex art. 2233 comma 3 c.c.);
il secondo, nullo, nella misura in cui realizzi, in via diretta o indiretta, la cessione del credito o del bene litigioso, contravvenendo, dunque, al divieto posto dall'art. 1261 c.c.
Le diverse tipologie di accordi indicate nel citato articolo 13 consentono di predeterminare una serie di contratti d’opera tipo da predisporre e sottoscrivere. (vedi altro paragrafo)
******************