condominio manuale giuridico
IL MANUALE DELL’AMMINISTRATORE CONDOMINIALE a cura di Adriana Nicoletti
1.Condominio e comunione
Rif.: artt. 1100 e ss. e 1117 e ss. c.c.
Il codice civile disciplina il condominio nel libro III (della proprietà), il cui titolo VII è dedicato alla comunione in generale (capo I) ed al condominio negli edifici in particolare (capo II).
Le disposizioni codicistiche, tanto nella formulazione originaria quanto in quella risultante dalle modifiche introdotte con la L. 220/2012, non contengono una definizione di condominio.
Tuttavia, mutuando la nozione di condominio dalla corrente giurisprudenza, si può affermare che questo costituisce una comunione sui generis, che viene ad esistenza ogni qualvolta nell’ambito di un medesimo edificio o complesso edilizio coesistono due o più unità immobiliari di proprietà esclusiva appartenenti a soggetti diversi con beni, opere o impianti di proprietà comune, asserviti alle predette unità immobiliari da una relazione di accessorietà strutturale o funzionale (Cass. 2955/68; Cass. 5315/84).
Con il verificarsi della prima vendita sorge, de iure, una nuova situazione giuridica il cui oggetto è costituito, da un lato, dalle singole proprietà esclusive e, dall’altro lato, da una serie di beni, necessari e/o accessori ovvero complementari, posti al servizio delle prime. In relazione alle parti comuni, inoltre, i condomini acquisiscono una contitolarità nei diritti, che si esprime in relazione alle rispettive quote di proprietà loro assegnate nelle tabelle millesimali.
La Corte di Cassazione, tracciando la distinzione tra condominio e comunione, ha chiarito che “si verte in tema di comunione, quando, su un bene determinato, spettano congiuntamente pro indiviso a più persone il diritto di proprietà od altro diritto reale, mentre si verte in tema di condominio, quando la comunione di più persone su talune parti dell'edificio coesiste con la proprietà esclusiva dei vari appartamenti “(Cass. 2233/69).
I tratti distintivi tra comunione e condominio sono molteplici ma in questa sede è sufficiente evidenziare ancora che:
-la comunione ordinaria può cessare in qualunque momento per iniziativa del singolo compartecipe, mentre quella inerente al condominio è permanente e forzosa,
-le quote dei partecipanti alla comunione si presumono uguali, mentre quelle dei condomini dipendono dal rapporto tra le porzioni di proprietà esclusiva.
Ciò nondimeno le norme sulla comunione in generale trovano applicazione residuale anche nel condominio -per quanto non è espressamente previsto dalla relativa disciplina- giusto il rinvio contenuto nell’art. 1139 c.c.
La costituzione del condominio avviene di diritto, anche senza formale atto costitutivo, “con la costruzione su suolo comune, o con il frazionamento da parte dell’unico proprietario o da parte dei comproprietari pro indiviso, di un edificio i cui piani o porzioni di piano siano attribuiti a due o più soggetti in proprietà esclusiva” (Cass. 4769/1978), ferma restando la comunione pro indiviso sui beni collegati alla predetta proprietà esclusiva da una relazione di accessorietà strutturale o funzionale.
Per il sorgere del condominio non sono necessarie delibere assembleari, né regolamenti condominiali, né tabelle millesimali, né la nomina dell’amministratore (Cass. 6073/78; Cass. 510/82 e Cass. 1224/2012).
Il condominio nasce, pertanto, nel momento in cui la proprietà di una unità immobiliare, facente parte di un edificio (o di un complesso) di maggiore consistenza, diventa di proprietà di un soggetto diverso dal proprietario originario dell’intero e contestualmente si crea la comunione pro indiviso sulle parti comuni (Cass. 19829/2004).
Il chè può verificarsi nelle maniere più disparate: ad esempio per effetto di una donazione, di una divisione, per accettazione dell’eredità etc.. Ma il caso più frequente è, appunto, quello della vendita, ad opera dell’originario unico proprietario, della prima tra le porzioni che compongono l’edificio che rimanga dotato di beni comuni.
Allo scopo è sufficiente una scrittura privata ancorché non autenticata, mentre la trascrizione rileva solo ai fini dell’opponibilità a terzi (Cass. 299/74).
Il condominio nasce anche quando viene costruito un edificio suddiviso in distinte unità immobiliari di cui siano proprietari soggetti diversi (almeno due) che nel contempo rimangano proprietari pro indiviso delle parti comuni. Per la genesi del condominio non è necessario il rilascio del certificato di abitabilità (Cass. 510/1982).
La natura giuridica del condominio è stata lungamente dibattuta in dottrina e giurisprudenza. In questa sede è sufficiente ricordare che la giurisprudenza prevalente individua nel condominio un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, (da ultimo anche Cass. 12911/2012), il quale opera in rappresentanza e nell’interesse comune dei partecipanti, limitatamente all’amministrazione ed al buon uso della cosa comune, senza interferire nei diritti autonomi di ciascun condomino (Cass. 7891/2000).
Il condominio, in quanto ente di gestione non ha una sede in senso tecnico e, ove non abbia designato nell’ambito dell’edificio un luogo espressamente destinato e di fatto utilizzato per l’organizzazione e lo svolgimento della gestione condominiale, ha il domicilio coincidente con quello privato dell’amministratore che lo rappresenta (Cass. 16141/2005).
Con la riforma nulla è mutato a livello definitorio.
Tuttavia si deve precisare che l’art. 1117 c.c., che enumera le parti comuni dell’edificio in condominio, nel testo preesistente alla riforma, le definiva di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piano.
Detta locuzione è stata ora sostituita con quella, maggiormente adeguata, di proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio.
Si è così definitivamente fugato il dubbio che solo l’edificio suddiviso per piani orizzontali integrasse un condominio e, quindi, che l’immobile suddiviso per linee verticali (ad esempio quello costituito da due porzioni divise da un muro verticale che si erge dalle fondamenta al tetto) sfuggisse alla disciplina condominiale.
La giurisprudenza aveva del resto da tempo chiarito che il condominio si può atteggiare dal punto di vista architettonico nelle maniere più disparate e può consistere in un edificio diviso per linee verticali (Cass. 2987/1984) ed anche in più edifici strutturalmente autonomi, purché di appartenenza a soggetti diversi che utilizzino opere o servizi comuni posti in relazione di accessorietà strutturale o funzionale (Cass. 5315/84 nonché Cass. 8066/2005 per l’ipotesi di ville a schiera).
2.
Rif.: art. 1117 - bis. c.c.
E’ definito condominio minimo quello composto da due soli partecipanti. La giurisprudenza si è espressa in maniera oscillante circa l’applicabilità alla predetta fattispecie delle singole norme dettate in materia di condominio (in particolare quelle attinenti l’assemblea) piuttosto che di quelle che disciplinano la comunione.
Poiché nel condominio di due soli condomini non può formarsi una maggioranza (almeno per teste), in passato si ritenevano generalmente applicabili gli articoli 1105 e 1106 c.c. che disciplinano l’amministrazione della comunione, escludendo il ricorso all’art. 1136 c.c. che regola l’assemblea condominiale (Cass. 5914/93).
Le Sezioni Unite, tuttavia, hanno sancito l’applicabilità al condominio minimo dell’intera disciplina condominiale (Cass. S.U. 2046/2006).
Cosa è cambiato: E’ stata espressamente sancita l’applicabilità della disciplina del condominio in tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici siano dotati di parti comuni ai sensi dell'art. 1117 c.c..
La giurisprudenza ha chiarito che per super condominio deve intendersi la fattispecie legale che si riferisce ad una pluralità di edifici, costituiti o meno in distinti condominii, ma compresi in una più ampia organizzazione condominiale, legati tra loro dall'esistenza di taluni beni, impianti e servizi comuni in rapporto di accessorietà con i fabbricati (Cass. 19799/2014).
A tal fine è sufficiente che i singoli edifici, abbiano, materialmente, in comune alcuni impianti o servizi, ricompresi nell'ambito di applicazione dell'art.1117 c.c. (Cass. 23851/2010).
La giurisprudenza non era univoca circa la disciplina applicabile al super condominio (vedasi infra il relativo capitolo).
Il neo introdotto art. 1117 – bis c.c. ha ora eliminato ogni residuo dubbio circa la disciplina applicabile ai due citati istituti.
Infatti la nuova disposizione prevede espressamente che le disposizioni sul condominio si applicano, in quanto compatibili, in tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell'art. 1117.
Per completezza dobbiamo aggiungere che il condominio parziale è fattispecie che si configura per la semplificazione dei rapporti di gestione interni alla collettività condominiale (Cass. 2363/2012) quando alcuni beni o impianti comuni, per obbiettive caratteristiche strutturali e funzionali, sono destinati a servire solo parte del condominio di modo tale da eliminare il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini su detti beni o impianti (Cass. 23851/2010). Conseguentemente, obbligati a contribuire alle relative spese sono esclusivamente i condomini che ne sono contitolari e ne traggono utilità.
E solo essi hanno diritto di voto nelle decisioni relative.
Il condominio parziale rileva solo nell’ambito interno e non si atteggia autonomamente nei rapporti con i terzi.
Ad esempio configura condominio parziale quello relativo ad una delle palazzine che costituiscono il condominio.
Solo i proprietari della palazzina voteranno i lavori di manutenzione straordinaria e solo essi si faranno carico dei relativi oneri ma sarà l’amministratore dell’intero condominio a curare i rapporti con l’appaltatore e i terzi in genere.
Restano comunque punto di riferimento necessario le norme di un regolamento contrattuale di condominio che dispongano in modo specifico sulle situazioni di parzialità dei beni.
3. Scioglimento del condominio
Lo scioglimento del condominio è possibile quando un edificio od un gruppo di edifici, che appartengano per piani o porzioni di piano a proprietari diversi, possano essere divisi in edifici autonomi talché i comproprietari di ciascuna parte si possano costituire in condominio separato (art. 61, comma 1, disp.att. c.c.).
Con lo scioglimento possono restare in comune tra gli originali condomini alcune delle cose comuni di cui all’art. 1117 c.c., alle quali si continuano ad applicare le norme sul condominio e non quelle sulla comunione (art. 62, comma 1, disp.att. c.c.).
Lo scioglimento è deliberato dalla maggioranza prevista dall’art. 1136, comma 2, c. c.. Se, invece, per ottenere la separazione sia necessario modificare «lo stato delle cose» oppure eseguire «opere per la sistemazione diversa dei locali o delle dipendenze tra i condomini» occorre la maggioranza prevista dall’art. 1136, 5° comma c.c.
La delibera deve essere trascritta nei registri immobiliari.
Lo scioglimento può essere anche disposto dal giudice su domanda di almeno un terzo dei comproprietari di quella parte di edificio che si intende separare (art. 61 cit. comma 2). Secondo la giurisprudenza il terzo deve essere inteso con riferimento al numero dei comproprietari della parte da separare e non alle quote da ciascuno di essi rappresentate (Cass. 3971974)
4. La riforma: le novità in sintesi
Le modifiche introdotte dalla riforma del condominio degli edifici adeguano l’originaria disciplina del codice civile alla mutata realtà socio-economica.
La diffusione di ricchezza connessa con lo sviluppo economico ha consentito ad un numero sempre crescente di persone di acquistare la propria abitazione, costituita, nella maggior parte dei casi, da unità immobiliari ubicate in edifici in condominio.
La progressiva urbanizzazione ha determinato l’aumento della richiesta di servizi pubblici e privati con conseguente necessità di migliore pianificazione urbanistica ed ambientale, controllo dell’inquinamento e risparmio energetico.
L’edificazione di intere aree è stata, quindi, sottoposta a preventivi vincoli ed impegni di realizzazione di opere necessarie all’erogazione di servizi, ivi compresi quelli pubblici.
Le modifiche contenute nella legge 220 del 2012 hanno ampliato l’elenco delle opere, installazioni e manufatti destinati all’uso comune contemplando, ora, in modo specifico anche i “sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione” per il “condizionamento dell’aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo”.
La nuova formulazione ribadisce che la comunione dei relativi collegamenti si estende “fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini” e prosegue precisando che in caso di impianti unitari la comunione si estende “fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche”.
Il testo originario dell’art.1117 del codice civile definiva i locali “di proprietà esclusiva”. L’attuale formulazione preferisce la formula “locali di proprietà individuale”, rendendo con ciò manifesto un mutamento di prospettiva, ovvero considerando il diritto del proprietario nel suo aspetto positivo (uso della cosa) piuttosto che in quello negativo (potere di escludere gli altri).
Si è già osservato che le modifiche adeguano l’originaria disciplina alle mutate necessità socio-economiche.
La normativa introdotta per regolare particolari situazioni o settori aveva già dettato regole speciali per i condomini.
L’art.2 della legge 9.1.1989 n. 13 disciplina l’eliminazione delle barriere architettoniche per i portatori di handicap, prevedendo le maggioranze necessarie ad adottare le relative deliberazioni (ora disciplinate dal nuovo testo dell’art.1120 c.c.) e una forma di autotutela, che consente agli interessati di provvedere a proprie spese, in caso di rifiuto e di inerzia, all’installazione di servoscala o strutture mobili e facilmente rimovibili così come all’ampliamento delle porte per favorire l’accesso agli edifici, agli ascensori ed alle rampe dei garage.
L’art. 26 della legge 9.1.91 n. 10 disciplina le deliberazioni volte al contenimento energetico ed all’uso di fonti rinnovabili di energia, ora espressamente previste e regolate dal nuovo testo dell’art.1120 c.c. così come le deliberazioni relative all’installazione di impianti centralizzati per ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino alla diramazione delle singole utenze, ad esclusione degli impianti che non comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri condomini di farne uso secondo il loro diritto (materia già disciplinata dall’art. 2 bis del decreto legge 23.1.2001 n.5 convertito in legge 20.3.2001 n.66) .
E’ ora ammessa la modifica della destinazione d’uso delle parti comuni, nel rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche, per soddisfare l’interesse condominiale, con divieto di recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o di alterarne il decoro architettonico.
La deliberazione relativa richiede voti favorevoli che rappresentino i quattro quinti dei partecipanti ed i quattro quinti del valore dell’edificio (art. 1117-ter).
Rimane fermo il principio di indivisibilità delle parti comuni e si ammette la divisione che non renda più incomodo l’uso a ciascun condomino, con il consenso di tutti i partecipanti al condominio.
I diritti dei partecipanti sulle parti comuni vengono meglio precisati, salvo che il titolo non disponga diversamente:
- il diritto di ciascuno è proporzionale al valore dell’unità che gli appartiene;
- il diritto non è rinunciabile;
- non ci si può sottrarre all’obbligo di contribuire alle spese di conservazione, neanche modificando la destinazione d’uso della propria unità, salve le leggi speciali.
E’ prevista ora la possibilità di distacco dall’impianto centralizzato di riscaldamento, se dall’intervento non derivino notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. In ogni caso si resta tenuti a concorrere alle spese per la manutenzione straordinaria, conservazione e messa a norma dell’impianto.
- il condomino è obbligato a dare preventiva comunicazione all’amministratore, che ne riferisce all’assemblea, delle opere che intende realizzare nella sua proprietà o su quanto destinato al suo uso esclusivo e non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni ovvero determinino pregiudizio alla stabilità, sicurezza e decoro architettonico dell’edificio.
- sulle parti comuni è consentita l’installazione di impianti non centralizzati di ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, così come l’installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili; deve essere consentito l’accesso alle proprietà individuali, ove necessario per la progettazione e per l’esecuzione delle relative opere.
I rapporti tra condomini continuano ad essere regolati da un regolamento di condominio, contrattuale od assembleare ed obbligatorio quando i condomini siano più di dieci, che non può vietare il possesso o la detenzione di animali domestici.
Il regolamento di condominio deve essere approvato dall’assemblea con i voti favorevoli che rappresentino la maggioranza degli intervenuti all’assemblea e almeno la metà del valore dell’edificio e può essere impugnato entro trenta giorni.
L’entità degli impegni economici necessari per assicurare i servizi e gestire e manutenere la proprietà comune ha indotto il legislatore a regolare in modo più preciso gli obblighi contabili, necessari sia a ripartire le spese tra i partecipanti, sia a consentire a ciascuno di conoscere la situazione esistente, prevedendo che l’amministratore sia fornito di particolari requisiti.
In particolare, oltre ad godere dei diritti politici, non aver subito condanne per particolari reati, non essere interdetto od inabilitato, l’amministratore non deve risultare dall’elenco dei protesti cambiari, deve aver conseguito il diploma di scuola secondaria di secondo grado e aver frequentato un corso di formazione iniziale e, successivamente, periodica, in materia di amministrazione condominiale.
D’altro canto, per coadiuvare e controllare l’amministratore è stata prevista la possibilità di nominare un consiglio di condominio con funzioni consultive e di controllo.
Il rendiconto deve ora esporre le entrate e le uscite e ogni altro dato relativo alla situazione patrimoniale (fondi disponibili ed eventuali riserve) in modo da consentire l’immediata verifica.
Pertanto, esso si compone di un registro di contabilità, di un riepilogo finanziario e di una nota esplicativa della gestione, con l’indicazione dei rapporti in corso e delle questioni pendenti.
I documenti dell’amministrazione condominiale devono essere conservati per dieci anni ed i condomini possono prenderne visione ed estrarne copia a loro spese, così come l’assemblea, in qualunque momento, può far verificare la contabilità da un revisore.
Per l’esecuzione di opere di manutenzione straordinaria e di innovazione deve essere costituito un fondo speciale pari all’ammontare dei lavori, considerato che i terzi hanno diritto di agire nei confronti dei condomini in regola con i pagamenti (ma solo dopo l’escussione degli altri condomini).
L’amministratore è ora tenuto a comunicare i nomi dei condomini morosi ai creditori che lo interpellino e, senza bisogno di autorizzazione, può chiedere ingiunzione nei confronti dei condomini morosi.
In caso di mora superiore al semestre il condominio moroso può essere sospeso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato.
“Chi cede diritti su unità immobiliari” resta obbligato per i contributi maturati fino al momento in cui è trasmessa all’amministratore copia del titolo; i contributi costituiscono credito prededucibile e sarà onere delle esecuzioni individuali e concorsuali comunicare al più presto il trasferimento della proprietà all’amministratore.
La complessità della gestione richiede ora che l’amministratore conservi un registro di anagrafe condominiale con i dati dei partecipanti, comunicati dagli interessati o da lui acquisiti d’ufficio a loro spese, un registro di nomina e revoca dell’amministratore, oltre al registro dei verbali delle assemblee ed a quello di contabilità in cui annotare le entrate e le uscite entro trenta giorni.
L’amministratore deve conservare, inoltre, tutta la documentazione relativa allo stato tecnico-amministrativo dell’edificio e del condominio, fornendo al condomino che ne faccia richiesta l’attestazione dello stato dei pagamenti e delle liti in corso.
In relazione al contenzioso, fermo restando che l’amministratore rappresenta il condominio nei limiti delle proprie attribuzioni (art.1130 c.c.), si prevede ora possa essere convenuto in giudizio il solo amministratore per la revisione dei valori proporzionali espressi dalle tabelle millesimali, con evidente semplificazione e celerità processuale e risparmio di costi.
In relazione a tale ultima modifica è stato adeguato anche l’art. 23 c.p.c. che affida le controversie tra condomini e tra condomini e condominio al giudice del luogo ove si trovano i beni comuni o la maggior parte di essi.
Infine, tra le modifiche alle norme di attuazione del codice civile sono state specificate le modalità regolatrici della mediazione in materia di condominio.
Tutti questi argomenti saranno approfonditi nel corso dell’esposizione, anche con opportuni riferimenti giurisprudenziali.
Premessa
Come si è accennato, si può parlare di condominio quando, in un medesimo edificio o complesso immobiliare (condominio orizzontale e super condominio), vengano a coesistere distinte unità immobiliari di proprietà esclusiva unitamente a parti di edificio che, per ubicazione e struttura funzionale, rimangono in comunione in quanto destinate a soddisfare i bisogni generali dei condomini.
Il singolo condomino, pertanto, è proprietario esclusivo del suo appartamento e al contempo comproprietario, pro indiviso, di alcune parti di edificio in virtù di una comunione forzosa sulle stesse.
A differenza della comunione ordinaria, pertanto, dove ciascun comproprietario può in ogni momento chiedere lo scioglimento della situazione comune, nel condominio i partecipanti non possono, di norma, chiedere la divisione delle parti comuni, a meno che la divisione non possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino e sempre con il consenso unanime dei partecipanti.
La distinzione tra i due tipi di comunione, ordinaria e forzosa, non è di poco conto se si considera che, in virtù del nuovo ambito di applicabilità delle disposizioni di cui all’articolo 1117 e ss. del codice civile anche al c.d. condominio orizzontale, le norme sul condominio potranno applicarsi a quei complessi residenziali (es. ville a schiera) in cui sia riscontrabile un rapporto di pertinenzialità e di accessorietà tra le parti comuni e ciascuna villa; viceversa, laddove manchi tale rapporto, si parlerà di comunione generale per le parti che sono comuni a tutti i proprietari delle ville, e di comunione parziale tra le ville bi o plurifamiliari.
Il tutto con evidenti differenze in ordine al regime giuridico anche in tema di modifiche alla cosa comune.
1. Le parti comuni dell’edificio necessarie all’uso comune
Rif.: art. 1117 c.c.
Cosa è cambiato: mantenuta inalterata la tripartizione originaria (parti necessarie dell’edificio, locali per i servizi comuni ed opere, installazioni e manufatti destinati all’uso comune), sulla scorta dei consolidati orientamenti giurisprudenziali, sono stati aggiunti, per ciascuna delle tre categorie, alcuni elementi nell’elenco delle parti comuni.
L’elenco non ha carattere tassativo ed esaustivo, in quanto i beni non specificamente indicati potrebbero essere riconducibili, per effetto della loro funzionalità, nell’ambito condominiale (Cass. 248/1975).
Rif: art. 1117, c.c. n. 1
Suolo e sottosuolo: il legislatore comprende fra le parti comuni il solo suolo su cui sorge l’edificio, quale porzione di terreno in cui sono infisse le fondazioni e sulla quale poggia l’edificio, omettendo di inserire nella categoria il sottosuolo.
La giurisprudenza, tuttavia, ha affermato che il sottosuolo su cui sorge l'edificio condominiale, ancorché non menzionato espressamente dall'art. 1117 c.c., in mancanza di un titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini, rientra tra i beni di proprietà comune, tenuto anche conto della funzione di sostegno che esso svolge per la stabilità del fabbricato; il singolo condomino non può, pertanto, senza il consenso degli altri condomini, procedere a scavi del sottosuolo al fine di ricavarne nuovi locali o di ingrandire quelli esistenti, giacché, con l'attrarre la cosa comune nell'orbita della sua disponibilità esclusiva, viene a ledere il diritto di proprietà degli altri condomini sul bene comune (Cass. 17141/2006). In tale ipotesi il comportamento del singolo integra gli estremi di uno spoglio cui può conseguire azione di reintegrazione in favore del condominio (Cass. 6154/2016).
Fondazioni: non sono costituite solo dalle porzioni dei muri maestri poste al di sotto dell’area su cui sorge l’edificio ma comprendono anche tutte le opere poste nel sottosuolo, in quanto destinate ad elevare e reggere l’intero stabile (scavi, opere di consolidamento e sostegno, ecc.).
Intercapedini (spazi esistenti tra il piano di posa delle fondazioni e la superficie del piano terra e finalizzati all’aereazione e coibentazione del fabbricato), terrapieni e vespai (altro sistema di isolamento del fabbricato) rientrano nella più ampia nozione di fondamenta.
Muri maestri: sono quei muri, interni come esterni dell’edificio, con funzione di sostegno dello stesso. Nella nozione del termine fanno parte, per giurisprudenza, prima, per legge, ora per effetto della novella del 2012, tutti quegli elementi che rappresentano l’ossatura dell’edificio in cemento armato quali pilastri, travi portanti ed architravi, nonché i pannelli esterni di riempimento fra i pilastri in quanto facenti parti della struttura e della linea architettonica dell’edificio.
La giurisprudenza ha chiarito che i muri perimetrali, genericamente definiti quali muri che “delimitano la superficie coperta e determinano la consistenza volumetrica dell’edificio unitariamente considerato, proteggendolo dagli agenti termici e atmosferici, e ne delimitano la sagoma architettonica, - sono da considerarsi comuni a tutti i condomini anche nelle parti che si trovano in corrispondenza dei piani di proprietà singola ed esclusiva e quando sono collocati in posizione, avanzata o arretrata, non coincidente con il perimetro esterno dei muri perimetrali esistenti in corrispondenza degli altri piani, come normalmente si verifica per i piani attici” (Cass. 4978/2007).
La comunione pro indiviso dei muri consente il loro uso da parte di ogni singolo condomino, il quale, ai sensi dell’art. 1102 c.c. ne può trarre benefici in proprio favore, anche apportandovi modificazioni che gli garantiscano una utilità aggiuntiva rispetto agli altri comproprietari, a condizione che:
1) non venga limitato il diritto all’uso del muro da parte degli altri condomini i quali non devono neppure essere concretamente danneggiati;
2) non ne venga alterata la normale destinazione;
3) tali modificazioni non pregiudichino il decoro architettonico dell’edificio” (cfr. Cass. 1708/1998; Cass. 4314/2002).
A titolo meramente esemplificativo il condomino potrà sostituire un tratto di muro con porte scorrevoli (giurisprudenza costante); apporre targhe; appoggiare tende da sole; installare tubature per lo scarico di acque o per il passaggio del gas; aprire – quando si tratti di un esercizio commerciale – anche bacheche per l’esposizione della merce e così via.
Il tutto nel pieno rispetto, sempre, del regolamento di condominio.
Costituisce, invece, per la giurisprudenza, uso illegittimo del muro perimetrale l'apertura, da parte di un condomino, di un varco che consenta la comunicazione tra il proprio appartamento ed altra unità immobiliare attigua, sempre di sua proprietà, ma ricompresa in un diverso edificio condominiale, in quanto esso varco si traduce nella creazione di una servitù a carico del fabbricato (Cass. 3265/2005).
Facciate: il legislatore della riforma ha, per la prima volta, espressamente incluso tra le parti necessarie all’uso comune le facciate, rappresentate appunto dall’involucro esterno dell’edificio e costituite dai muri perimetrali.
Sulle facciate dell’edificio si trovano i balconi che, secondo il costante orientamento della Corte di Cassazione, sono considerati elementi accidentali del fabbricato e, in quanto privi di funzione portante e non di uso comune, sono oggetto di godimento esclusivo del proprietario dell’appartamento dal quale si accede.
La giurisprudenza ha, infatti, precisato che “in tema di condominio negli edifici e con riferimento ai rapporti tra la generalità dei condomini, i balconi aggettanti, costituendo un "prolungamento" della corrispondente unità immobiliare, appartengono in via esclusiva al proprietario di questa, dovendosi considerare beni comuni a tutti soltanto i rivestimenti e gli elementi decorativi della parte frontale e di quella inferiore, quando si inseriscono nel prospetto dell'edificio e contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole”.
In applicazione dell'enunciato principio, quindi, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito, la quale aveva ritenuto appartenenti al condominio, con le dovute conseguenze sulla ripartizione delle relative spese, alcune fioriere in cemento armato poste all'esterno delle ringhiere delimitanti i balconi con funzione di parapetto, senza che le stesse rivelassero un qualche pregio artistico, né costituissero parte integrante della struttura dello stabile (Cass. 6624/2012).
Tetti e lastrici solari: nel concetto di tetto (rappresentato da uno o più piani inclinati e/o convergenti) rientrano tutte le opere volte a dare copertura alla costruzione - comprese le strutture di sostegno quali solette, travatura, rivestimento esterno e vari accessori tipo lucernari, abbaini comuni - svolgenti una funzione di protezione comune e destinate a preservare l’interno dell’edificio nella sua parte superiore. Il lastrico solare è costituito, invece, da una superficie piana, che interessa la sommità dello stabile, totalmente o parzialmente (in questo caso vi potrebbe essere una copertura mista), e che esercita anche la funzione di piano di calpestio.
Il lastrico solare può essere rappresentato anche da una terrazza a livello di proprietà esclusiva o condominiale.
Merita attenzione l’uso che i condomini possono fare di tali strutture che, in quanto parti comuni, possono essere utilizzate da tutti i condomini nel rispetto della loro destinazione e senza ledere il pari diritto degli altri partecipanti al condominio (art. 1102 c.c.).
Ciò significa che non si potrà procedere con la trasformazione parziale o totale del tetto in terrazza di pertinenza di una determinata unità immobiliare perché si andrebbe così a sottrarre il bene all’uso comune consistente nella copertura del fabbricato (ex multis, Cass. 2500/2013), con palese violazione dei limiti dettati dall’art. 1102 cit.
Scale, portoni di ingresso, vestiboli, anditi e portici: le scale sono le strutture che consentono l’accesso ai diversi piani dell’edificio e, in quanto tali, sono necessariamente beni comuni a tutti i condomini, senza distinzione tra i proprietari dei piani superiori e del piano terra. Del pari, sono sottoposti al medesimo regime anche i pianerottoli che possono essere utilizzati dal singolo condomino solo nel rispetto dell’art. 1102, con esclusione di qualsivoglia incorporazione degli stessi nelle proprietà esclusive, salvo sempre il titolo contrario.
Cortili: tecnicamente, per giurisprudenza costante, sono definiti quali “area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare aria e luce agli ambienti circostanti" e, ex lege, sono annoverati fra le parti comuni del condominio, salvo che sia inidoneo all’uso comune nel qual caso viene meno la presunzione di comproprietà.
Secondo recente giurisprudenza, invece, il giardino “adiacente l'edificio condominiale, se non è occupato e circoscritto dalle fondamenta e dai muri perimetrali, né destinato al servizio delle unità che vi si affacciano, non costituisce il "suolo su cui sorge l'edificio", né, rispettivamente, un "cortile", sicché la sua natura comune non può essere presunta a norma dell'art. 1117, n. 1, c.c., ma deve risultare da un apposito titolo” (Cass. 11444/2015).
Sarà, dunque, un giardino privato quello di cui solo un condomino o un gruppo di condomini abbia la disponibilità esclusiva, sarà comune quello che costituisce pertinenza dell’edificio (Cass. 7889/2000, che aveva sostanzialmente equiparato i giardini ai cortili, superando così la mancanza dei primi nell’elenco di cui all’articolo 1117).
L’uso del giardino, inoltre, al pari di quello di altre parti comuni, deve essere garantito ad ogni condomino, al quale è permesso anche di farne un utilizzo particolare, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di usufruirne e goderne in pari misura.
2. Aree destinate a parcheggio e locali comuni
Rif: art. 1117, c.c. n. 2
Aree destinate a parcheggio: queste sono ora state esplicitamente annoverate nell’elenco di cui all’articolo 1117 sulla scia di un acceso dibattito giurisprudenziale e dottrinale: dibattito che, in un primo momento, ha visto affermarsi la tesi dell’inesistenza di un collegamento permanente tra le unità immobiliari e le aree destinate a parcheggio suscettibili quindi, di trasferimento separato, fermo il rispetto della destinazione d’uso.
Successivamente la giurisprudenza veniva a dichiarare la nullità delle clausole con cui, all’atto di cessione delle unità immobiliari, si escludeva il trasferimento dei diritti relativi all’area di parcheggio, con automatico trasferimento di tali diritti in capo agli acquirenti delle unità immobiliari, dietro pagamento di un corrispettivo (Cass. S.U. 6602/84).
A seguire, in conseguenza dell’introduzione dell’articolo 26 della legge 20 febbraio 1985 n. 47 – che qualificava come pertinenza lo spazio destinato a parcheggio, richiamando l’articolo 818, co. 2, c.c. che consente gli atti di disposizione aventi ad oggetto unicamente le pertinenze - la dottrina è intervenuta cercando di ribaltare il precedente orientamento giurisprudenziale, rendendo così necessario un nuovo intervento della Suprema Corte che, con la sentenza del 18 luglio 1989, n. 3363, a Sezioni Unite, affermava la natura di pertinenze inscindibili delle aree destinate a parcheggio.
Nel frattempo con la legge Tognoli (legge n. 122/89) il legislatore ha, tra l’altro, introdotto la possibilità di realizzare nel sottosuolo o al piano terreno, ed anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti, parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari sancendo la nullità degli atti di cessione di tali parcheggi separatamente dalle unità immobiliari di cui costituiscono pertinenza.
La legge ha subito, nel corso del tempo, numerose modifiche ed il divieto di cessione, oggi, è soggetto ad alcune eccezioni.
Il legislatore è intervenuto nuovamente nel 2005, con la legge n. 246, eliminando il vincolo pertinenziale e rendendo liberamente trasferibile la piena proprietà delle aree destinate a parcheggio a soggetto diverso da quello dell’unità immobiliare.
La giurisprudenza chiarisce però che la nuova normativa si applica solo per costruzioni non ancora realizzate o qualora non siano ancora state stipulate le vendite delle singole unità immobiliari (Cass. 4264/2006).
La Suprema Corte, poi, con la sentenza 21003 /08 ha così specificato il complesso quadro della situazione: “in tema di spazi destinati a parcheggi privati, in complessi condominiali di nuova costruzione, il susseguirsi d'interventi legislativi incidenti sulla limitazione dell'autonomia privata in ordine alle dimensioni minime di tali spazi e al regime di circolazione, ha determinato l'esistenza di tre diverse tipologie di parcheggio, assoggettate a regimi giuridici differenziati tra di loro :
a) i parcheggi soggetti ad un vincolo pubblicistico di destinazione, produttivo di un diritto reale d'uso in favore dei condomini e di un vincolo pertinenziale "ex lege" che non ne esclude l'alienabilità separatamente dall'unità immobiliare, disciplinati dall'articolo 18 della legge n. 765 del 1967 (articolo 41 sexies della legge n. 1150 del 1942);
b) i parcheggi soggetti al vincolo pubblicistico d'inscindibilità con l'unità immobiliare, introdotti dall'articolo 2 della legge n. 122 del 1989, assoggettati ad un regime di circolazione controllata e di utilizzazione vincolata e, conseguentemente non trasferibili autonomamente;
c) i parcheggi non rientranti nelle due specie sopra illustrate, perchè realizzati in eccedenza rispetto agli spazi minimi inderogabilmente richiesti dalla disciplina normativa pubblicistica, ad utilizzazione e a circolazione libera;
d) i parcheggi disciplinati dall'articolo 12, nono comma, della lege n. 246 del 2005 di definitiva liberalizzazione del regime di circolazione e trasferimento delle aree destinate a parcheggio ma con esclusivo riferimento al futuro, ovvero alle costruzioni non ancora realizzate e a quelle per le quali non sia ancora intervenuta la stipulazione delle vendite delle singole unità immobiliari, al momento della sua entrata in vigore”.
Per completare il quadro giurisprudenziale si richiamano ulteriori due decisioni della Corte Suprema ovvero:
“In tema di aree destinate a parcheggio, la norma dell'art. 41-sexies della legge 17 agosto 1942, n. 1150, introdotta dall'art. 18 della legge 6 agosto 1967, n. 765, si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, la destinazione obbligatoria di appositi spazi a parcheggi in misura proporzionale alla cubatura totale dell'edificio, determinando, mediante tale vincolo di carattere pubblicistico, un diritto reale d'uso sugli spazi predetti a favore di tutti i condomini dell'edificio, senza imporre all'originario costruttore alcun obbligo di cessione in proprietà degli spazi in questione. Pertanto, ove l'azione per il riconoscimento del diritto reale d'uso sia stata proposta da uno solo dei condomini, il giudice di merito può individuare un preciso spazio fisico per la sosta dei veicoli di proprietà del condomino istante, senza che di tale decisione possa dolersi il costruttore del complesso immobiliare, il quale potrebbe astrattamente usucapire la rimanente parte dell'area vincolata” (Cass. 1214/2012) e
“In tema di regolamentazione legale delle aree destinate a parcheggio, l'art.12, nono comma, della legge 28 novembre 2005, n. 246, che ha modificato l'art. 41 sexies della legge 17 agosto 1942, n. 1150, ed in base al quale gli spazi per parcheggio possono essere trasferiti in modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari, non ha effetto retroattivo, né natura imperativa; ne consegue che la disciplina anteriore, di cui al citato art. 41 sexies delle legge n. 1150 del 1942, con cui si attribuisce al soggetto che abita stabilmente l'unità immobiliare sita nell'edificio un diritto reale d'uso sullo spazio destinato a parcheggio interno, che non ecceda il limite ivi prescritto, trova applicazione nei casi in cui, al momento dell'entrata in vigore della nuova disciplina, risultino già stipulati gli atti di vendita delle singole unità immobiliari” (Cass., ord. 9090/2012).
Quanto alla possibilità per il condominio di realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell’edificio, il nuovo secondo comma dell’articolo 1120 codice civile stabilisce che è sufficiente la maggioranza degli intervenuti all’assemblea, che rappresenti almeno la metà del valore dell’edificio.
Per un esempio in tema di uso alternato di parcheggi, qualora questi siano presenti in numero non sufficiente per tutti i condomini, e sul potere regolamentare dell’assemblea, cfr. Cass.12485/2012.
Locali per i servizi comuni: ci si riferisce a quei locali che vengono destinati al soddisfacimento di uno specifico interesse collettivo dei condomini (ad es. alloggio del portiere – che ora comprende esplicitamente la portineria -, lavanderia, stenditoi, ...).
Il nuovo testo dell’art. 1117 è più ampio e, per alcuni aspetti, più generico rispetto alla precedente versione. Il termine di “locali per i servizi comuni” dovrebbe racchiudere tutte le installazioni poste a servizio dei condomini, là dove il legislatore del ’42 aveva fatto riferimento solo ai locali utilizzati per il riscaldamento centralizzato.
Per il resto la nuova disposizione riproduce la passata versione, con la sola differenza che ora tra i locali comuni sono stati indicati espressamente l’alloggio del portiere ed i
Sottotetti, rappresentati dallo spazio compreso tra la copertura del fabbricato ed il solaio che copre l’ultimo piano dell’edificio e per il quale la giurisprudenza aveva costantemente affermato la sua condominialità quando, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, può potenzialmente ed oggettivamente essere destinato all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune senza che sia necessario che i condomini ne usufruiscano già in concreto (Cass., ord., 17249/2011).
Tale orientamento è stato recepito nella legge di riforma del condominio anche se, nel caso in cui il sottotetto assolva unicamente alla funzione di isolare e proteggere il sottostante appartamento dal caldo, dal freddo e dall’umidità, costituendo una sorta di camera d’aria e non, per la sua struttura e dimensioni, un vano autonomo, il sottotetto può sempre essere considerato pertinenza di detto immobile.
3. Opere, impianti e manufatti destinati all’uso comune
Opere, impianti, manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune. L’elencazione, che si riferisce ad opere che consentono l’erogazione di servizi collettivi ai condomini, è stata notevolmente ampliata.
La lista comprende gli ascensori, i pozzi e le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, ivi compresi i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, ad eccezione di quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche.
Alcune brevi precisazioni in merito:
- l’ascensore si presume di comproprietà anche dei titolari delle unità poste al piano terreno e dei proprietari dei box interrati: presunzione tuttavia non operativa se l’ascensore viene installato in un momento successivo alla costituzione del condominio e solo da alcuni condomini.
- per quanto concerne il rapporto tra ascensore e locali che abbiano accesso diretto dalla strada occorre fare riferimento al regolamento condominiale di natura contrattuale dal quale potrà emergere la titolarità del bene.
- i montacarichi sono assimilati agli ascensori.
4. Presunzione di comunione
Tutti i beni elencati nell’art. 1117 si possono considerare comuni in base ad una “presunzione” legale determinata da un duplice criterio di collegamento: strutturale, che concerne le parti essenziali e indispensabili per l’esistenza stessa di un edificio in condominio e, come tali, non suscettibili di separazione materiale o funzionale (ad esempio: il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, ...) e strumentale e/o funzionale, per tutti quei beni che possono essere separati dal condominio ed essere destinati ad una utilizzazione non condominiale (ad esempio: i locali comuni).
Il tutto salvo che il contrario non risulti dal titolo.
Nella specie si parla di presunzione iuris tantum, che continua ad operare fino a quando non emerga una attestazione che, in maniera inequivocabile, disponga diversamente.
In argomento la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “per l'esclusione della presunzione di proprietà comune, di cui al citato arte. 1117 c.c., non è necessario che il contrario risulti in modo espresso dal titolo, essendo sufficiente che da questo emergano elementi univoci che siano in contrasto con la reale esistenza di un diritto di comunione, dovendo la citata presunzione fondarsi sempre su elementi obiettivi che rivelino l'attitudine funzionale del bene al servizio o al godimento collettivo, con la conseguenza che, quando il bene, per le sue obiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all'uso o al godimento di una sola parte dell'immobile, la quale formi oggetto di un autonomo diritto di proprietà, ovvero risulti comunque essere stato a suo tempo destinato dall'originario proprietario dell'intero immobile ad un uso esclusivo, in guisa da rilevare - in base ad elementi obiettivamente rilevabili, secondo l'incensurabile apprezzamento dei giudici di merito - che si tratta di un bene avente una propria autonomia e indipendenza, non legato da una destinazione di servizio rispetto all'edificio condominiale, viene meno il presupposto per l'operatività della detta presunzione” (Cass. 8119/2004).
Tale situazione si verifica nel momento in cui nasce di diritto il condominio (Cass. 26766/2014).
Rientra nella nozione di titolo, ai sensi dell’art. 1117, il regolamento condominiale allegato agli atti di acquisto delle singole unità immobiliari o in essi richiamato (Cass. 1070/1968), ovvero un successivo atto modificativo approvato dall’unanimità dei condomini. Non costituiscono titolo contrario nè il regolamento redatto dal costruttore dopo la vendita degli immobili, né l’atto di frazionamento/accatastamento dell’edificio e la relativa trascrizione ad opera del venditore costruttore, in quanto mero atto di parte, inidoneo a sottrarre il bene alla comunione condominiale (Cass. 11195/2010) ed avente solo valore indiziario (Cass.9523/2014).
Per vincere tale presunzione il soggetto che rivendichi la proprietà esclusiva di un bene, altrimenti condominiale, ha l’onere di fornire la prova di tale diritto (Cass. 2175/2009).
Qualora al momento della costituzione del condominio, che coincide con il primo atto di vendita, il costruttore/venditore dell’edificio voglia riservarsi la proprietà di parti che sarebbero altrimenti condominiali, ha l’onere di farlo nel primo contratto di trasferimento (Cass. 11812/2011).
In merito alla presunzione iuris tantum di condominialità di beni comuni, laddove vi siano elementi di accessorietà e di collegamento funzionale con i beni esclusivi, si è più volte espressa anche la giurisprudenza.
Si veda, ad esempio, quanto affermato dalla Suprema Corte la quale ha affermato che “affinché possa operare, ai sensi dell'art. 1117 c.c., il cosiddetto diritto di condominio, è necessario che sussista una relazione di accessorietà fra i beni, gli impianti o i servizi comuni e l'edificio in comunione, nonché un collegamento funzionale fra primi e le unità immobiliari di proprietà esclusiva. Pertanto, qualora, per le sue caratteristiche funzionali e strutturali, il bene serva al godimento delle parti singole dell'edificio comune, si presume - indipendentemente dal fatto che la cosa sia, o possa essere, utilizzata da tutti i condomini o soltanto da alcuni di essi - la contitolarità necessaria di tutti i condomini su di esso. Detta presunzione può essere vinta da un titolo contrario, la cui esistenza deve essere dedotta e dimostrata dal condomino che vanti la proprietà esclusiva del bene, potendosi a tal fine utilizzare il titolo - salvo che si tratti di acquisto a titolo originario - solo se da esso si desumano elementi tali da escludere in maniera inequivocabile la comunione” (Cass. 27145/2007).
Più di recente, infine, la Suprema Corte ha ribadito che, in mancanza di espressa indicazione nel rogito, non è possibile superare la presunzione normativa sull’utilizzo delle parti comuni dell’edificio, anche quando queste servano da accesso a parti di proprietà esclusiva (Cass. 2412/2012).
Merita, inoltre, segnalare che, con esclusione dei beni che per la loro natura o per l’utilizzo al quale sono destinati sono necessariamente al servizio di tutti i condomini (muri maestri, copertura del fabbricato, canna fumaria, ...), può operare l’istituto dell’usucapione del bene condominiale, qualora venga dimostrato il possesso esclusivo della cosa comune sorretto dalla intenzione di possedere in via esclusiva (sul punto, cfr. Cass. 13893/2012).
5. Ulteriore ambito di applicazione: il supercondominio (rinvio) ed il condominio parziale
Le norme sul condominio si applicano, per quanto espressamente attinente al presente capitolo, anche al super condominio.
Uniformandosi all’orientamento della giurisprudenza favorevole ad una interpretazione estensiva dell’art. 1117 c.c., la riforma ha visto l’introduzione dell’articolo 1117 bis, con il quale l’applicazione della disciplina condominiale è stata estesa alle strutture condominiali complesse, quali i complessi residenziali che si sviluppano non più solo in senso verticale, ma anche orizzontale o costituiti da edifici separati e aventi parti essenziali in comune.
Ne deriva che la presunzione di comunione stabilita dall’art. 1117 dovrà essere applicata anche alle parti comuni di edifici limitrofi ed autonomi destinate, in maniera permanente, alla conservazione o all’uso di questi stessi edifici.
Si segnala sin d’ora che per la nascita di una struttura definita super condominio non è necessaria la manifestazione di volontà dell’originario costruttore, né quella di tutti i proprietari delle unità immobiliari di ciascun condominio, essendo sufficiente che i singoli edifici abbiano in comune alcuni impianti o alcuni servizi elencati dall’articolo 1117 codice civile.
Per una analisi più completa al riguardo, si rinvia infra, al capitolo sul super condominio.
Un cenno a parte merita il c.d. “condominio parziale”, che si verifica quando gli impianti e i servizi comuni non sono destinati all’utilizzo di tutti, ma soltanto di un gruppo di condomini.
In questi casi, cui è estesa l’applicazione della disciplina condominiale, è stabilito che per le decisioni inerenti tali parti comuni dovrà essere riconosciuto il diritto di partecipare alla discussione e alla votazione soltanto ai diretti interessati cui spetta sostenere le relative spese, escludendo gli altri condòmini che, non vantando alcun diritto sulle cose, non hanno nessun obbligo di contribuirvi.
CAPITOLO TERZO
LA DISCIPLINA DELLE PARTI COMUNI
1. Modifica e tutela della destinazione d’uso
Cosa è cambiato: sono state introdotte nuove norme a tutela dell’interesse condominiale ed aventi ad oggetto, da un lato, la possibilità di modificare le destinazioni d’uso, fatta salva la stabilità, la sicurezza ed il decoro architettonico dell’edificio e, dall’altro, di salvaguardare le destinazioni dei beni comuni in essere a fronte di attività che su di esse incidano in modo negativo.
Le norme in commento concedono ai condomini possibilità di non poco conto.
L’articolo 1117 - ter c.c. prevede, infatti, che “per soddisfare esigenze di interesse condominiale, l’assemblea, con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio, e i quattro quinti del valore dell’edificio, può modificare la destinazione d’uso delle parti comuni”.
Si tratta di una maggioranza deliberativa del tutto anomala, che si pone a metà strada tra quella prevista per le innovazioni disciplinate dall’art. 1120 c.c. ed il consenso unanime, che dovrebbe essere necessario allorché la destinazione e la natura originaria del bene fossero del tutto alterate.
Particolari formalità sono previste per la convocazione dell’assemblea, nonché, come si è detto, per le maggioranze richieste per l’approvazione di simili modifiche (si veda in prosieguo l’apposito capitolo).
La ratio della norma è quella di garantire l’interesse condominiale al miglior utilizzo del bene comune, creando un argine al comportamento, irragionevolmente ostruzionistico, che una esigua minoranza di condomini potrebbe porre in atto.
È tuttavia, e giustamente, previsto un limite alla possibilità di simili modifiche, con riguardo alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, e con la salvaguardia del decoro architettonico del medesimo (art. 1117 ter, ultimo comma).
Di quest’ultima nozione il legislatore non fornisce tuttavia una definizione, e la lacuna del codice è stata colmata da dottrina e giurisprudenza.
Per decoro architettonico “deve intendersi l’estetica del fabbricato data dall’insieme delle linee e delle strutture che connotano lo stabile stesso e gli imprimono una determinata, armonica fisionomia e una specifica identità” (così Cass. 851/2007).
Peraltro, non è sempre facile stabilire se una modifica costituisca una innovazione (art. 1120 C.c., su cui infra) oppure una variazione della destinazione d’uso, distinzione tuttavia indispensabile perché da ogni configurazione dipenderà la fissazione dei quorum necessari per decidere.
La giurisprudenza, invero, considera innovazioni le variazioni materiali della cosa comune che importino un’alterazione dell’entità sostanziale, ma non gli interventi diretti a potenziare o rendere più comodo il godimento della cosa comune che, di fatto, ne lascino immutata la consistenza e la destinazione.
Un particolare procedimento è poi previsto a tutela della destinazione d’uso del bene comune.
L’art. 1117 quater, infatti, prevede che “in caso di attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d’uso delle parti comuni” non solo l’amministratore, ma anche i singoli condomini possono diffidare l’esecutore e chiedere la convocazione dell’assemblea per far cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie.
Viene, pertanto, consentita una maggior tutela all’interesse condominiale, anche in caso di inerzia da parte dell’amministratore.
2. Diritti dei partecipanti sulle cose comuni e distacco dall’impianto centralizzato
La norma nella nuova versione ha ribadito che il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni, salvo un titolo contrario, è fondato sul principio della proporzionalità correlata al valore dell’unità immobiliare che gli appartiene, poiché esiste un collegamento inscindibile tra le parti comuni e le parti esclusive, che non può essere sciolto dalla mera volontà del singolo condomino.
Nella legislazione previgente detto rapporto si riferiva al valore del piano o porzione di piano.
Pur con tale modifica, tuttavia, rimane invariato il principio secondo il quale per determinare tale valore occorre ovviamente fare riferimento alle tabelle millesimali.
La riforma conferma il divieto di rinuncia alla cosa comune – che ricomprende anche l’impossibilità di rinuncia all’uso – con conseguente divieto per il condomino di sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni. Il principio non è di poco conto considerato che è stato più volte messo in discussione da chi, per motivi meramente soggettivi e, proprio per questo, non rilevanti, utilizzi per un tempo limitato il proprio appartamento pretendendo per ciò stesso una riduzione nel pagamento degli oneri condominiali.
La nuova norma fa in ogni caso salva la possibilità, per il condomino, di rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, nel rispetto però di alcune condizioni di cui si darà atto nel paragrafo successivo.
Connesso al principio di irrinunciabilità, è quello di indivisibilità dei beni comuni cui si riferisce l’art. 1119 c.c.. Si tratta di una indivisibilità relativa e non assoluta, che trova il proprio limite nel disagio che, in caso di divisione della cosa comune, potrebbero subire gli altri condomini, i quali non possono vedere pregiudicato o reso più incomodo il proprio uso. L’ articolo 1119, nella sua nuova formulazione, prevede ora espressamente per la divisione dei beni comuni il consenso di tutti i partecipanti al condominio.
Una eccezione al principio della indivisibilità è costituita dal distacco dall’impianto di riscaldamento/ condizionamento
Per la prima volta il legislatore ha espressamente sancito il diritto del condomino di rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o condizionamento a due condizioni:
- dal distacco non devono derivare notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini;
- il rinunziante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma.
La nuova disciplina ha sostanzialmente recepito il costante orientamento giurisprudenziale in merito alla legittimità del distacco in presenza delle due condizioni richiamate affermando, in particolare, da un lato, che le spese di conservazione dell’impianto rappresentano obbligazioni propter rem, ben differenti da quelle di gestione del servizio e, dall’altro, che è irrilevante – in senso impediente – la disposizione eventualmente contraria contenuta in un regolamento di condominio, anche se contrattuale, essendo esso un contratto atipico meritevole di tutela solo in presenza di un interesse generale dell’ordinamento (da ultimo Cass. 19893/2011).
Sempre la Suprema Corte ha, ancora, ritenuto che ai fini dell’accertamento dello squilibrio termico vanno escluse quelle variazioni di temperatura (in diminuzione) che potrebbero, comunque, verificarsi nelle unità immobiliari prossime all’appartamento distaccato, quale effetto del non uso dell’impianto del proprietario che, per sua scelta, decidesse di chiudere i radiatori (Cass. 11857/2011).
Da ultimo, se dal distacco dovesse derivare un aggravio di spesa a carico dei condomini rimasti collegati all’impianto centralizzato, coloro che si sono staccati dovrebbero farsi carico delle spese in eccesso.
3. L’uso delle parti comuni
Non si può trattare compiutamente il tema dei beni comuni senza richiamare l’art. 1102 c.c. (norma relativa alla comunione, pacificamente applicabile anche al condominio degli edifici, in virtù dell’espresso richiamo di cui all’art. 1139 c.c.), che consente ad ogni condomino di servirsi della cosa comune purché non ne sia alterata la destinazione e non sia impedito agli altri condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto.
La nozione di pari uso non va intesa nel senso di uso identico o contemporaneo, perché l’identità nello spazio e nel tempo potrebbe portare un ingiustificato divieto per ogni condomino di fare un uso particolare o un uso a proprio esclusivo vantaggio (giur. costante).
L’impiego della cosa comune può aver luogo non solo secondo la destinazione usuale della cosa stessa, ma anche in modo particolare e diverso da quello praticato dagli altri condomini, purché tale utilizzazione rientri fra le normali destinazioni del bene e non alteri il rapporto di equilibrio tra le utilizzazioni concorrenti, attuali e potenziali di tutti i condomini.
La destinazione è quella che risulta dal titolo o dall’uso costante della cosa e non sussiste ove la cosa sia usata in modo differente dalla sua finalità, se questa non resta impedita.
Limiti ulteriori e più severi all’uso individuale del bene comune possono essere fissati sia dal regolamento condominiale, sia dall’assemblea con delibera approvata con maggioranza semplice. Tuttavia, se dalla modifica di una clausola d’uso consegua un pregiudizio ai diritti che ciascun condomino ha sul bene comune, così come configurati nel regolamento, la delibera dovrà essere approvata da tutti i condomini (Cass. Sez. Un. 943/1999, n. 943, cui si è uniformata tutta la giurisprudenza successiva).
Fermi restando i limiti imposti dall’art. 1102, l’uso del bene comune non deve pregiudicare la stabilità, la sicurezza ed il decoro architettonico del fabbricato, né arrecare danno alle singole proprietà esclusive.
Tale diritto si estende anche ai conduttori (Cass. 4195/1984) ai quali è consentito trarre dalla cosa locata tutte le utilità inerenti al suo normale godimento, con esclusione di quelle che siano state espressamente vietate nel contratto, ovvero che siano in netto contrasto con i diritti del locatore o di terzi.
Ne consegue che se il conduttore, da un lato, può utilizzare le parti comuni dell’edificio ove è situato l’immobile locatogli, per altro verso deve esercitare il suo diritto entro determinati limiti che, quanto a contenuto e modalità, non possono superare quelli riservati al proprietario (Cass. 3874/1997). Ad esempio il conduttore – al pari del locatore – potrà apporre sul muro perimetrale un’insegna luminosa, poiché tale intervento è funzionale al miglior godimento dell’oggetto primario della locazione (Cass. 1046/1998).
Per effetto di tale equiparazione di posizioni il condominio può sempre agire nei confronti del conduttore che abbia violato sia la disciplina codicistica, sia le norme regolamentari che fissino divieti o restrizioni all’utilizzo dei beni comuni, spettando all’ente stesso l’onere di provare che la clausola limitativa è operativa o, in altri termini, che è opponibile al condomino locatore (giurisprudenza costante).
Nell’esercizio del diritto sancito dall’art. 1102 il condomino può, a proprie spese, anche modificare le parti comuni se ciò si renda necessario per il loro miglior godimento. Si deve trattare di «modificazioni» non di rilevante entità e tali da non rendere la cosa comune un quid novi che porterebbe ad una sua trasformazione o alterazione (Cass. 2500/2013).
L’assemblea può disciplinare l’uso dei beni comuni limitandone il godimento da parte dei condomini a condizione che ciò abbia come unico fine la realizzazione di un interesse comune. La relativa delibera, pertanto, non incorre nell’ipotesi di nullità assoluta a meno che il godimento diretto del bene, anche da parte di un solo condomino, sia del tutto escluso.
Caso classico di tale situazione si verifica quando i beni, per dimensioni e struttura, non possono essere utilizzati contemporaneamente da tutti i partecipanti al condominio e si debba ricorrere all’«uso turnario»: unico strumento che consente a tutti di godere, con modalità concordate, del bene comune (ipotesi di adozione della c.d. turnazione relativa ad una proprietà comune per l’utilizzo di posti macchina sistemati in autorimesse o anche in cortili comuni: Cass. 12873/2005).
Per l’uso indiretto della cosa comune, ad esempio attraverso la locazione, occorre il parere favorevole della maggioranza dei condomini, incidendo lo stesso sul diritto reale che ogni condomino vanta sull’intero bene indiviso.
Detto uso può anche essere disposto dall’autorità giudiziaria quando l’uso promiscuo non sia possibile o ragionevole, sempreché il bene comune non consenta una divisione, sia pure approssimativa, del godimento. Proprio l’indivisibilità costituisce, infatti, il presupposto per l’insorgenza del potere assembleare per decidere sull’uso indiretto del bene comune.
4. La disciplina delle innovazioni di cui all’art. 1120 c.c.
Innovazioni in generale
Permane la differenza tra innovazioni consentite, perché volte a migliorare e rendere più comodo l’uso delle cose comuni, ed innovazioni vietate, se recano pregiudizio alla stabilità o sicurezza del fabbricato ovvero se alterano il decoro architettonico dello stesso o ne rendono alcune parti inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.
“Il decoro architettonico, inteso dalla consolidata giurisprudenza quale estetica data dall’insieme delle linee e delle strutture ornamentali che costituiscono la nota dominante dell’edificio imprimendo allo stesso una sua armoniosa fisionomia, va valutato, ai sensi dell’art. 1120, co. 2, c.c., con riferimento al fabbricato condominiale nella sua totalità, potendo anche interessare singoli punti del fabbricato (purché l’immutazione di essi sia suscettibile di riflettersi sull’intero stabile) e non rispetto all’impatto ambientale circostante” (Cass. 1286/2010).
Resta, altresì, inalterata la nozione di innovazione che emerge dalla giurisprudenza costante: non qualunque mutamento o modificazione della cosa comune, ma soltanto la modificazione che ne alteri l’entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria (tra le altre, Cass. 945/13).
Neppure mutato, per effetto della legge n. 220/2012, è il quorum deliberativo necessario per l’approvazione delle innovazioni che resta fissato nella maggioranza degli intervenuti all’assemblea ed almeno due terzi dei valori millesimali (art. 1136, co. 5, c.c.).
Cosa è cambiato rispetto alla vecchia disciplina:
- la tipologia delle innovazioni che sono state specificamente indicate nel comma 2 dell’art. 1120 c.c.;
- l’abbassamento dei rispettivi quorum deliberativi “nel rispetto delle normative di settore”;
- l’introduzione di un nuovo meccanismo di convocazione dell’assemblea, quando a richiederlo sia anche un solo condomino interessato all’adozione di una delibera che abbia per oggetto uno degli interventi indicati nel comma 2 dell’art. 1120.
Innovazioni di interesse sociale
La riforma del condominio ha introdotto una nuova disciplina riguardante alcuni tipi di innovazioni di interesse ‘sociale’, che possono essere approvate con una maggioranza inferiore rispetto a quella prescritta dal primo comma dell’articolo 1120 codice civile per le innovazioni in generale, ovvero con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell’edificio (art. 1136, co. 2, c.c.).
Queste le categorie di interventi innovativi disciplinati dal legislatore:
- opere ed interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti;
- opere ed interventi previsti per eliminare le barriere architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici e per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell'edificio, nonché per la produzione di energia mediante l'utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea superficie comune;
- installazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione degli impianti che non comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri condomini di farne uso secondo il loro diritto
Per quanto concerne il superamento e l’abbattimento delle barriere architettoniche negli edifici privati la normativa di riferimento è la legge 9 gennaio 1989, n. 13 (successivamente modificata ed integrata dalla legge. n. 62/1989 e dall’art.78 del T.U. Edilizia n. 380/2001)
Con il termine “barriera architettonica” si intendono tutti quegli ostacoli: che rappresentano una fonte di disagio per la mobilità di chiunque, con particolare riferimento ai soggetti con capacità motoria ridotta o impedita in forma permanente o temporanea; che limitano o impediscono la comoda e sicura utilizzazione di parti o componenti dell’edificio e che rappresentano un impedimento per l’orientamento e la riconoscibilità dei luoghi.
Gli interventi atti ad eliminare le barriere architettoniche sono, in ogni caso soggetti, al divieto sancito dall’ultimo comma dell’art. 1120 c.c. (Cass. 12930/2012).
La giurisprudenza costante ritiene che il superamento delle barriere, tramite l’installazione di un ascensore, configura un intervento idoneo a garantire l’accesso all’edificio non solo di condomini anziani e disabili, ma anche a tutti i soggetti portatori di handicap che abbiano motivi per accedere allo stabile (Cass. 18334/2012).
In merito alle innovazioni finalizzate a realizzare il contenimento del consumo energetico e la produzione di energia mediante fonti rinnovabili si evidenzia che nel panorama legislativo la prima volta che si è aperta la strada verso nuove soluzioni tendenti a favorire il risparmio energetico risale agli anni ’90.
La gestione del riscaldamento negli edifici in condominio, infatti, è disciplinata dalla Legge 9 gennaio 1991 n.10, che prevedeva, tra l’altro, un sistema di ‘contabilizzazione differenziata dei consumi di calore’, in base al quale i complessi condominiali, dotati di impianto di riscaldamento centralizzato, potevano ed ora dovranno ripartire le spese di riscaldamento in funzione dell’effettivo consumo individuale di ciascun condomino.
Entro il 31 dicembre 2016 tutti i condomini hanno l’obbligo di installare i sistemi di contabilizzazione del calore, unico sistema che, al di là degli impianti di riscaldamento autonomi, consente una gestione indipendente del servizio.
Le spese per tali interventi sono detraibili dalla dichiarazione dei redditi.
Prima della riforma, le innovazioni relative all’adozione di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e quelle riguardanti il riparto delle spese in base al consumo individuale, venivano approvate dall’assemblea di condominio a maggioranza, ai sensi dell’articolo 26 comma 5 della suddetta legge.
Detta norma è stata modificata in seguito alla riforma, in quanto il nuovo testo dell’articolo 1120, al secondo comma, prevede che per le innovazioni in oggetto l’assemblea di condominio delibera, come per le altre innovazioni di interesse sociale, con la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio.
Poiché il comma 5 dell’articolo 26 Legge 10/91 prevede che, a seguito dell’adozione del sistema di termoregolazione, la spesa debba essere ripartita necessariamente in base agli effettivi consumi registrati, sarebbe nulla un’eventuale clausola, contenuta nel regolamento contrattuale o in quello approvato dall’assemblea, che prevedesse una ripartizione delle spese del riscaldamento in base ad un criterio diverso.
Gli ulteriori interventi previsti dalla legge n. 10 finalizzati al risparmi energetico riguardavano la coibentazione degli edifici esistenti e l’installazione di nuovi generatori di calore, di impianti per l’utilizzo di fonti rinnovabili di energia e di apparecchiature per la trasformazione di impianti centralizzati di riscaldamento in impianti autonomi.
L’articolo 27 legge 23 luglio 2009, n. 99 aveva modificato l’articolo 26 della suddetta legge, stabilendo la necessità, per l’adozione delle innovazioni concernenti gli interventi in oggetto, della maggioranza semplice delle quote millesimali del condominio rappresentate dagli intervenuti in assemblea.
L’articolo 9 del D.P.R. n. 59/2009, infine, ha stabilito che per gli edifici esistenti con un numero di unità abitative superiori a quattro sia preferibile mantenere gli impianti centralizzati piuttosto che effettuare interventi volti alla loro trasformazione in autonomi per singola unità abitativa.
Per quanto riguarda, invece, il possibile passaggio al sistema contabilizzato, previsto dalla stessa norma, si può dire che tale possibilità sia stata superata dall’entrata in vigore della contabilizzazione obbligatoria.
La disciplina riguardante l’installazione di antenne satellitari all’interno dei condomini è dettata dall’art. 3, co. 13 della legge 31 luglio 1997 n. 249, a norma del quale, a decorrere dal 1° gennaio 1998, gli immobili composti da più unità abitative di nuova costruzione o quelli soggetti a ristrutturazione generale si dovevano avvalere di antenne collettive per la ricezione delle trasmissioni radiotelevisive satellitari, e possono installare o utilizzare reti via cavo per collegare le singole unità abitative alle antenne stesse.
Quindi il legislatore, per favorire lo sviluppo e la diffusione di nuove tecnologie, con l’art. 2 bis della legge 20 marzo 2001, n. 66 stabiliva, per tipi di intereventi classificati come “innovazioni necessarie”, una maggioranza deliberativa speciale, pari ad un numero di voti che rappresentasse il terzo dei partecipanti al condominio ed almeno un terzo del valore dell’edificio.
La norma aveva destato non poche perplessità, sia in relazione alla introduzione di una nuova categoria di innovazioni (“necessarie”), sia in considerazione di un evidente problema di convivenza delle stesse con le innovazioni disciplinate dall’art. 1121 c.c. La questione, comunque, è stata superata dalla riforma del 2012.
Sono espressamente escluse, dal novero delle opere che necessitano l’approvazione da parte dell’assemblea, quelle riguardanti impianti che non comportino modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune, e di impedire altresì agli altri condomini di farne uso secondo il loro diritto.
Con riguardo alla costruzione di parcheggi condominiali, la legge n. 122/1989 (legge Tognoli) ha previsto la possibilità per i condomini di realizzare nel sottosuolo o nei locali posti al piano terreno del condominio, o nel sottosuolo di aree di pertinenza esterne all’edificio, parcheggi destinati a pertinenze delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti.
La legge fa comunque salvi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica e ambientale, e subordina la costruzione dei parcheggi alla richiesta dei permessi necessari.
L’unico limite è costituito dalla circostanza che l’intervento in oggetto non deve essere lesivo dei diritti anche di un solo condominio.
Da ultimo va ricordato che, secondo il dettato del terzo comma dell’art. 1120 c.c., le innovazioni di c.d. “interesse sociale” a momenti esaminate richiedono una particolare procedura di convocazione dell’assemblea e di approvazione.
L’amministratore, infatti, è tenuto a convocare l’assemblea entro trenta giorni dal momento in cui gli sia pervenuta domanda anche a cura di un solo condomino che sia interessato all’intervento.
Trattasi di una novità assoluta, poiché di norma l’amministratore ha l’obbligo di convocare la riunione straordinaria solo quando la richiesta pervenga da almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell’edificio (art. 66, co. 1, disp.att.c.c.).
La richiesta dovrà contenere, in modo dettagliato, l’indicazione specifica e le modalità di esecuzione dell’intervento. In caso contrario sarà cura dell’amministratore invitare il condomino/i ad integrare la domanda.
5. Innovazioni gravose o voluttuarie
Con riferimento alla disciplina precedente non vi sono state modifiche.
La norma, infatti, prevede la possibilità di introdurre innovazioni gravose, per spesa, o voluttuarie, per finalità, in relazione alle particolari condizioni dell’edificio, quando si tratti di opere e manufatti suscettibili di utilizzazione separata (co.1).
Dalla spesa sono esonerati i condomini che non intendono trarne vantaggio.
I contributi si riferiscono sia alle spese di installazione, sia a quelle di gestione, sia a quelle di manutenzione ordinaria e straordinaria.
La gravosità della spesa deve avere un carattere oggettivo e non deve essere riferito alla situazione patrimoniale del singolo condomino.
Il termine “voluttuario” è sinonimo di intervento scarsamente utile o del tutto inutile.
Il dissenso del condomino deve essere manifestato chiaramente in assemblea.
Resta fermo il diritto, per i dissenzienti, eredi o aventi causa, di parte in qualunque momento ai vantaggi dell’innovazione contribuendo alle spese di esecuzione e manutenzione dell’opera (co. 3).
Per stabilire a quanto ammonta la somma dovuta si dovrà tenere conto del complesso delle spese sostenute nel periodo intercorrente tra l’esecuzione dell’innovazione ed il momento della partecipazione, ragguagliate al valore attuale della moneta, tenendo altresì conto del deprezzamento subito dal bene a seguito dell’uso continuato. Diversamente si verificherebbe un arricchimento in danno dei condomini che avevano assunto l’iniziativa (Cass. 8749/1993).
Da ultimo, se l’utilizzazione separata non fosse possibile, l’innovazione non è consentita a meno che la maggioranza dei condomini che l’hanno deliberata o accettata intenda sopportarne integralmente la spesa (co. 2).
6. Uso della proprietà esclusiva
L’art. 1122 c.c. pone precisi limiti all’uso della proprietà esclusiva al fine di preservare i beni comuni da eventuali effetti negativi quando gli interventi, pur se effettuati in zone di pertinenza individuale, abbiano una ricaduta sulle parti condominiali.
La norma è stata modificata rispetto al passato non tanto nella rubrica, quanto nella sostanza.
L’articolo 1122 c. c., infatti, nella sua formulazione originaria conteneva il divieto, rivolto al singolo condomino, di eseguire sul piano o sulla porzione di piano di sua proprietà, opere che potessero recare danno alle parti comuni dell’edificio.
I margini di azione per il condomino sono ora più specifici, poiché si riferiscono al danno in senso lato, al quale si accosta il pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio.
Sebbene la rubrica dell’articolo previgente si riferisse ad ‘opere sulle parti dell’edificio di proprietà comune’, la giurisprudenza – già in passato - aveva chiarito che la norma disciplinava in realtà le opere effettuate dal condominio nell’ambito della proprietà esclusiva con rilevanza sulle parti comuni dell’edificio (tra le altre, Cass. 2743/05)
Il danno non viene meno solo perché l’opera sia stata assentita dalla pubblica autorità, in considerazione dei diversi piani sui quali operano il profilo civilistico e quello amministrativo.
Malgrado l’ampliamento del dato testuale dell’art. 1122 la norma non comporta, per i condomini, limitazioni maggiori rispetto a quelle previste dai precedenti artt. 1102 e 1120 c.c.
Il secondo comma del nuovo articolo 1122, infine, ha introdotto una rilevante novità: l’obbligo del condomino, in ogni caso, di comunicare all’amministratore, in via preventiva, notizia dei futuri lavori e, da parte di questo, l’incombente di riferirne all’assemblea.
7. La sopraelevazione: contenuto e diritto
Titolari del diritto di sopraelevazione sono – se diversamente non sia disposto dal titolo (atto di compravendita, regolamento di condominio precostituito e trascritto) – il proprietario dell’ultimo piano dell’edificio e/o del lastrico solare o terrazzo di copertura (comma 1).
L’esercizio di tale diritto è precluso in due ipotesi:
a) se le condizioni statiche dell’edificio non consentono l’elevazione di nuovi piani e nuove fabbriche;
b) se la sopraelevazione pregiudichi l’aspetto architettonico dello stabile, ovvero diminuisca notevolmente l’aria e la luce dei piani sottostanti (commi 2 e 3).
La norma, all’ultimo comma, pone a carico di chi sopraeleva l’obbligo di corrispondere agli altri condomini la c.d. «indennità di sopraelevazione» pari al valore attuale dell’area da occuparsi con la nuova opera, diviso per il numero dei piani, ivi compreso quello da edificare, e detratto l’importo della quota a lui spettante.
Colui che abbia sopraelevato deve, altresì, ricostruire il lastrico solare di cui tutti o parte dei condomini avevano il diritto di usare.
Contenuto del diritto di sopraelevazione
La sopraelevazione va intesa non nel senso di costruzione oltre l’altezza precedente dell’edificio, ma come costruzione di uno o più nuovi piani (o di una o più nuove fabbriche) sopra l’ultimo piano dell’edificio, quale che sia il rapporto con l’altezza precedente.
La Suprema Corte, con decisione a Sezioni Unite, ha affermato che è errato ritenere – come risultava da precedente orientamento – che il presupposto di fatto del diritto all’indennità ricorra non in ogni caso di sopraelevazione, intesa come pura e semplice costruzione oltre l’altezza precedente del fabbricato, bensì solo nel caso di costruzione di uno o più piani o di una o più nuove fabbriche sopra l’ultimo piano dell’edificio, quale che sia il rapporto con l’altezza precedente.
E’, invece, corretto ravvisare un’ipotesi di sopraelevazione ogni qualvolta si realizzi un incremento di superfici e volumetrie, indipendentemente dal fatto ch’esso dipenda o meno dall’innalzamento dell’altezza del fabbricato (Cass. Sez. Un. 16794/ 2007).
A tale principio si è uniformata la successiva giurisprudenza della Corte, la quale ha affermato che “l'indennità ex art. 1127 c.c., è dovuta non solo in caso di realizzazione di nuovi piani o nuove fabbriche, ma anche per la trasformazione di locali preesistenti, mediante incrementi delle superfici e delle volumetrie, indipendentemente dall'altezza del fabbricato, traendo fondamento dall'aumento proporzionale del diritto di comproprietà sulle parti comuni, conseguente all'incremento della porzione di proprietà esclusiva” (Cass. 24327/2011).
Il diritto di sopraelevazione comprende anche la possibilità di utilizzare parti comuni dell’immobile, quali ad esempio i muri perimetrali per appoggiarvi la nuova costruzione, oppure la scala comune esistente e prolungabile per consentire l’accesso al nuovo appartamento. In questo caso particolare i condomini hanno diritto di pretendere che la nuova rampa sia costruita con le stesse caratteristiche strutturali e formali di quella preesistente.
Quanto poi all’utilizzazione del muro perimetrale comune l’esercizio del diritto di sopraelevazione implica, come sua naturale esplicazione, anche l’apertura sul medesimo di varchi per l’accesso e l’uso di quelli già esistenti, essendo naturale funzione dei muri comuni non solo quella di sorreggere il fabbricato, ma anche quella di fornire di accessi gli appartamenti di proprietà individuale (Cass. 2574/1968).
Non si rientra nella nozione di sopraelevazione quando la modifica interessi le parti interne di un immobile esclusivo, come nel caso di trasformazione di unità abitabile di locali sottotetto, oppure nell’ipotesi di divisione orizzontale in due parti di un appartamento in condominio che abbia luogo mediante inserimento di una soletta di cemento e la creazione di una scala, interna all’appartamento, per l’accesso alla parte superiore (giurisprudenza costante).
L’uso del bene comune ai fini della sopraelevazione deve avvenire sempre nel rispetto dei limiti stabiliti dall’art. 1102 c.c. (destinazione e pari uso degli altri condomini).
Titolari del diritto
La facoltà di sopraelevare, che spetta di diritto al proprietario dell’ultimo piano dell’edificio o a quello esclusivo del lastrico solare non necessita di alcun riconoscimento da parte degli altri condomini, potendo essere vietato solo in forza di un patto espresso costitutivo di una servitù assimilabile a quella non aedificandi.
Quanto alla nozione di «ultimo piano dell’edificio» è stato affermato che “il proprietario dell'ultimo piano di un edificio in condominio può elevare nuovi piani o fabbriche solo nel caso in cui sopra il suo appartamento sussistano manufatti di proprietà comune (come il tetto od il sottotetto non praticabile), che possono essere spostati al termine della sopraelevazione. Ma, qualora la soffitta (o il sottotetto) di un edificio in condominio sia di proprietà esclusiva di uno solo dei condomini, essa dev'essere considerata, ai fini della sopraelevazione, come ultimo piano, onde, ai sensi dell'art 1127 c. c., il diritto di sopraelevare l'edificio spetta solo al proprietario di essa (Cass. 5608/1978).
Se sull’ultimo piano vi sia un lastrico solare di proprietà esclusiva, il proprietario per poter esercitare il diritto «de quo» deve provare di esserne il legittimo proprietario (Cass. 3014/1972).
Il diritto di sopraelevazione può competere anche ad un soggetto diverso da quelli indicati espressamente dal comma 1 dell’art. 1127 cit.
La facoltà di sopraelevare, infatti, può formare oggetto autonomo di trasferimento a favore di terzi, talchè il proprietario dell’ultimo piano o quello del lastrico solare possono conservare la loro proprietà e vendere il diritto di sopraelevazione ovvero riservarsi tale diritto e vendere la proprietà del piano; non è, invece, configurabile un diritto autonomo sulla colonna d’aria da parte dei proprietari dei piani sottostanti indipendentemente dal diritto di superficie (tra tutte Cass. 18822/2012).
Qualora, poi, l’ultimo piano sia diviso in più porzioni immobiliari ciascuna in proprietà separata di soggetti diversi, ciascuno di questi, in quanto proprietario d’una singola porzione dell’ultimo piano, ha la facoltà di sopraelevare, con la limitazione, peraltro, derivante dal fatto che il diritto di ciascun proprietario delle singole porzioni costituenti l’ultimo piano si estende relativamente alla proiezione verticale della sola porzione appartenentegli.
Se, invece, la proprietà dell’ultimo piano appartenga in comunione a più soggetti pro indiviso, si applicano le regole della comunione in generale, con la conseguenza che i comproprietari non possono esercitare il diritto di sopraelevazione pro quota ma, salvo diverso accordo, devono esercitarlo congiuntamente, con l’effetto tipico dell’accessione sulla superficie, ragion per cui – una volta venuta ad esistenza la nuova costruzione – la comunione pro indiviso si estende alla costruzione sopraelevata.
8.Limiti all’esercizio del diritto di sopraelevazione e relativa indennità
L’esercizio della facoltà di sopraelevare trova espressi limiti nei primi tre commi dell’art. 1127 c.c.
Il titolo cui fa riferimento il cpv. della norma può essere l’atto costitutivo del condominio, ma anche il regolamento di condominio predisposto dal costruttore e recepito dagli acquirenti nei rispettivi atti di compravendita.
In relazione alla stabilità dell’edificio, se le strutture dello stabile non sono tali da sopportare nuovi piani o nuove fabbriche il divieto non può essere superato neppure con il consenso unanime dei condomini.
Per le sopraelevazioni in zona sismica, per tale profilo occorre fare riferimento alle norme contenute nella L. 3 febbraio 1974, n. 64 modificata dall’art. 90 del D.P.R. 6 agosto 2001, n. 380.
Il potenziale pregiudizio dell’aspetto architettonico dello stabile (Cass. 2889/1984) consente ai condomini di opporsi alla sopraelevazione non solo prima dell’inizio della nuova costruzione, ma anche dopo che la stessa sia stata realizzata, con facoltà di domandare, in questa seconda ipotesi, la riduzione in pristino ed il risarcimento del danno conseguente al pregiudizio derivato (Cass. 6611/1982).
Secondo la costante giurisprudenza (da ultimo Cass. 10048/2013) “la nozione di aspetto architettonico, di cui all’art. 1127, c.c., che opera come limite alla facoltà di sopraelevare, non coincide con quella, più restrittiva, di decoro architettonico, di cui all’art. 1120 c.c., che opera come limite alle innovazioni, sebbene l’una nozione non possa prescindere dall’altra, dovendo l’intervento edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne l’originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista (nella specie, in applicazione dell’enunciato principio, la suprema corte ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto lesivo del decoro architettonico dell’edificio, ma compatibile con l’aspetto architettonico dello stesso, un manufatto sopraelevato, occupante gran parte del terrazzo dell’ultimo piano e ben visibile dall’esterno)”.
Quanto infine alla potenziale diminuzione dell’aria e della luce nei confronti dei piani sottostanti, giurisprudenza e dottrina sono concordi nel ritenere che si deve trattare di una notevole limitazione, la quale può verificarsi anche rispetto ad un solo appartamento.
I casi di divieto elencati dall’art. 1127 c.c. sono ipotesi tassative: ciò non toglie che vi possano essere in concreto altri limiti al diritto di sopraelevazione qualora la nuova costruzione possa arrecare danno e pregiudizio ai vari condomini. Ad esempio è stato sostenuto che il proprietario dell’ultimo piano mentre può sopraelevare sull’area sovrastante il suo piano, non può invece costruire in sopraelevazione in modo da ampliare ed estendere l’area dell’ultimo piano o del lastrico solare, realizzando costruzioni a sbalzo, parapetti, terrazze poggianti sui piloni di sostegno, ecc. (Cass. 2863/1971).
L’obbligo di corrispondere l’indennità di cui al comma 4 dell’art. 1127 c.c. è stato individuato nella necessità di riconoscere “una misura compensativa della riduzione del valore delle quote di pertinenza degli altri condomini sulla comproprietà del suolo comune conseguente alla sopraelevazione realizzata dall’un d’essi e dall’acquisto da parte di questi della proprietà relativa” (Cass. Sez. Un. 16794/2007).
Ogni condomino, infatti, ex art. 1118 c.c., ha un diritto di comproprietà, proporzionato al valore del piano o porzione di piano in proprietà esclusiva, sulle cose comuni elencate nel precedente art. 1117 c.c. e, quindi, anche sull’area sulla quale sorge l’edificio, cui consegue, per effetto della realizzazione di nuovi piani, un’alterazione degli elementi che concorrono a formare la proporzione in ragione dell’aumento della quota nella comunione da parte del soggetto che sopraeleva a svantaggio delle quote degli altri partecipanti alla comunione.
Al pagamento dell’indennità sono tenuti: il proprietario esclusivo del lastrico solare; quello della terrazza a livello; quello dell’ultimo piano che costruisca uno o più piani in aggiunta a quelli già esistenti; l’acquirente del diritto di sopraelevazione; colui che sostituisce, in occasione di una sopraelevazione, il tetto preesistente con una terrazza ad uso esclusivo, ecc.
Destinatari dell’indennizzo sono solo coloro che hanno qualità di condomini al tempo in cui si esegue la sopraelevazione: essa deve pertanto essere calcolata in base al valore posseduto dall’area, da occuparsi con la nuova costruzione, al momento in cui il sopralzo è stato eseguito e non già a quello in cui l’indennità è liquidata.
La somma risultante da tale calcolo, peraltro, trattandosi di debito di valore, deve essere rivalutata alla stregua della sopravvenuta svalutazione monetaria mentre, ovviamente, debbono essere liquidati anche gli interessi legali.
Per «valore attuale dell’area da occuparsi con la nuova fabbrica» si intende il valore dell’area comune determinato dalla proiezione verticale della nuova opera e non il valore del lastrico solare o della porzione di piano soprastante l’edificio su cui insiste la sopraelevazione.
L’ammontare dell’indennità si determina “assumendo come elemento base del calcolo il valore del suolo sul quale insiste l’edificio o la parte di esso che viene sopraelevata, dividendo, poi, il relativo importo per il numero dei piani, compreso quello di nuova costruzione, e detraendo, infine, dal quoziente cosi ottenuto, la quota che spetterebbe al condomino che ha eseguito la sopraelevazione; nel caso di sopraelevazione di più piani, invece, il quoziente ottenuto dividendo il valore del suolo per il numero complessivo dei piani preesistenti e di quelli di nuova costruzione deve essere moltiplicato per il numero di questi ultimi e l’ammontare dell’indennità è rappresentato dal prodotto cosi ottenuto, diminuito della quota che, tenendo conto del precedente stato di fatto e di diritto, spetterebbe al condomino che ha eseguito la sopraelevazione” (Cass. 8096/2014).
9. Impianti non centralizzati di ricezione radiotelevisiva e di produzione energetica; la videosorveglianza nel condominio
Con la prima disposizione richiamata il singolo condomino potrà installare, senza autorizzazione dell’assemblea (ultimo comma), impianti individuali per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo (anche satellitare o via cavo), ivi compresi i relativi collegamenti fino al punto di diramazione per le singole utenze.
Il tutto nel rispetto delle parti comuni e con preservazione del decoro architettonico.
Il diritto alla installazione di antenne autonome sul lastrico solare di un edificio condominiale, nonché al passaggio di condutture, fili e ogni altro impianto occorrente per il funzionamento delle stesse si configura, secondo la giurisprudenza più recente, come una facoltà riconducibile al diritto primario alla libera manifestazione del pensiero ed alla ricezione del pensiero altrui riconosciuto dall'articolo 21 Costituzione.
Nell'ambito del diritto primario riconosciuto dall'articolo 21 della Costituzione rientra anche la possibilità di installare antenne su beni di proprietà esclusiva altrui , contro la volontà dell’assemblea dei condomini, come sancito dall'articolo 397 del Decreto Presidente della Repubblica 23/3/73, n.156, secondo il quale i proprietari di immobili o di porzioni di immobili non possono opporsi alla installazione, sulla loro proprietà, di antenne destinate alla ricezione di servizi di radiodiffusioni appartenenti agli abitanti dell’immobile stesso.
L’articolo 232 della stessa legge stabilisce poi che il proprietario o il condominio non possono opporsi all’appoggio, nell'immobile di loro proprietà, di antenne o di sostegni, nonché al passaggio di condutture, fili, o qualsiasi altro impianto occorrente per soddisfare le richieste di utenza degli inquilini o dei condomini, con il limite di non impedire il libero uso della proprietà secondo la sua destinazione e di non recare danni a terzi.
Detto articolo prevede anche la possibilità che un soggetto, per installare una parabola o effettuare ogni tipo di manutenzione alla stessa, possa imporre ad altro soggetto, sia o meno un altro condomino, il passaggio nell’immobile di sua proprietà del personale addetto alla manutenzione, senza dover corrispondere al suddetto proprietario alcuna indennità.
Secondo la giurisprudenza maggioritaria, la libertà di installazione di antenne o parabole sui terrazzi condominiali è, in ogni caso, subordinata all'impossibilità, per il soggetto, di utilizzare spazi propri (Cass. 9427/2009).
Allo stesso modo il condomino può installare sul lastrico solare degli edifici, su ogni altra idonea superficie comune, nonché sulle parti di proprietà individuale del medesimo, impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al servizio di singole unità del condominio (comma 3).
Quanto alle modalità di realizzazione di detti impianti, quando si rendano necessarie modificazioni delle parti comuni, l’interessato dovrà darne notizia all’amministratore comunicando progetto e modalità di esecuzione. L’assemblea, con la maggioranza prevista dall’art. 1136, co. 5 potrà prevedere misure alternative per l’esecuzione dell’intervento od imporre tutte le cautele necessarie alla salvaguardia degli aspetti di comune interesse.
Con riferimento alla installazione degli impianti di produzione di energia, inoltre, l’assemblea – sempre su richiesta degli interessati – potrà ripartire l’uso del lastrico solare e delle altre aree comuni nel rispetto del regolamento di condominio e degli utilizzi in atto.
L’assemblea, con la stessa maggioranza, può anche subordinare l’effettuazione dei lavori alla prestazione, da parte dell’interessato, di idonea garanzia per eventuali danni.
Il legislatore, con l’art. 1122ter c.c. ha direttamente affrontato il problema della sicurezza negli immobili ed ha previsto la possibilità di installare, sulle parti comuni dell’edificio, impianti volti a consentire la video sorveglianza su tali spazi previa delibera assembleare approvata con la maggioranza di cui all’art. 1136, co. 2, c.c.
Prima della riforma, in assenza di una espressa normativa, la giurisprudenza si era pronunciata più volte sull'argomento in modo non univoco.
Da un lato, infatti, alcune decisioni di merito avevano negato legittimità a tali interventi in quanto gli impianti di videosorveglianza erano stati ritenuti suscettibili di violare il diritto alla riservatezza dei singoli condomini, mentre, secondo un opposto orientamento giurisprudenziale la relativa installazione era stata subordinata all'unanimità dei consensi da parte dei condomini.
Peraltro, più volte ed ancora di recente, la Corte di Cassazione Penale ha affermato che la videoripresa di aree comuni condominiali non deputate a manifestazioni di vita privata non possa ritenersi indebitamente invasiva della sfera privata dei condomini e quindi illecita ai sensi dell’articolo 615-bis c.p. che punisce le interferenze illecite nella vita privata (tra le altre Cass. Pen. 46786/2014).
L'amministratore del condominio, a seguito della delibera assembleare, dovrà però adottare tutte le cautele previste dal provvedimento generale del Garante della Privacy in materia di videosorveglianza dell'8 aprile 2010, e segnatamente dovrà:
1) collocare un cartello informativo in merito all'esistenza degli impianti;
2) stabilire tempi minimi di conservazione delle immagini (massimo 24 ore);
3) individuare il personale che può visionare le immagini con atto di nomina di responsabile e incaricato del trattamento;
4) chiedere al garante la verifica preliminare nei casi previsti dal provvedimento generale.
L'inosservanza dei suddetti adempimenti può comportare responsabilità amministrative e penali, nonchè richieste di risarcimento da parte di soggetti eventualmente danneggiati.
10. Gestione di iniziativa individuale
La nuova rubrica ed il testo dell’articolo si riferiscono alla 'gestione di iniziativa individuale' anziché alle 'spese fatte dal condomino', ma la modifica è solo formale.
Prima della riforma, l'articolo 1134 prevedeva l'ipotesi in cui un condomino avesse affrontato, di propria iniziativa, delle spese per le cose comuni senza autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea, precisando che in tal caso il condomino stesso non avrebbe avuto diritto al rimborso di quanto sborsato, a meno che non si fosse trattato di spese urgenti.
Il nuovo testo della norma in esame dispone che il condomino, che abbia assunto la gestione delle cose comuni senza l’autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea, non ha diritto al rimborso delle spese sostenute.
La ratio della norma è, ovviamente, quella di impedire indebite ingerenze dei singoli condomini nelle sfere di competenza dell’assemblea e dell’amministratore.
Infatti, secondo la regola generale, il condomino che ritenga necessario effettuare degli interventi - di manutenzione ordinaria o straordinaria - per la conservazione o il godimento di beni comuni è tenuto ad interpellare l'amministratore, chiedendogli formalmente di provvedere in merito (se l’intervento rientri nell’ambito dei suoi poteri).
Ove, poi, l'amministratore non provveda a quanto di sua competenza, ovvero non convochi l’assemblea, il condomino potrà avvalersi della facoltà di convocare direttamente l'organo assembleare.
Ricorrendone i presupposti, infine, il condomino a fronte dell’inerzia dell’amministratore potrà ricorrere all’autorità giudiziaria per ottenere un provvedimento di condanna all’esecuzione di quegli interventi oggetto di inerzia prolungata.
Secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza, l'accertamento della sussistenza delle condizioni di urgenza compete al giudice di merito, le cui valutazioni, se adeguatamente motivate, non saranno censurabili con il ricorso per Cassazione. (Cassazione 4364/2001).
La Suprema Corte ha, tuttavia, fornito un criterio di valutazione, chiarendo che si considerano urgenti, e pertanto rimborsabili, le spese che debbano essere necessariamente affrontate senza ritardo, ovvero senza poter avvertire tempestivamente l’amministratore e gli altri condomini (Cass. 4330/2012).
Qualora gli altri condomini rifiutino di rimborsare ad un condomino le spese sostenute per realizzare opere urgenti su cose di proprietà comune, questi si dovrà rivolgere al giudice, dimostrando l’esistenza delle condizioni che hanno imposto l’intervento d’urgenza e l’impossibilità di avvisare l’amministratore o di convocare regolarmente l’assemblea.
CAPITOLO QUARTO
L’AMMINISTRATORE IN GENERALE
1. Natura giuridica
Con la riforma del condominio del 2012 la figura dell’amministratore ha trovato una sua precisa collocazione giuridica.
Il rapporto che si instaura tra amministratore, organo al quale viene affidata la gestione del condominio e quest’ultimo, anche e soprattutto per effetto delle linee delineate dal costante orientamento giurisprudenziale, infatti, è stato definitivamente inquadrato nell’ambito del mandato, disciplinato dalla Sezione I del Capo IX del Titolo III del Libro IV (art. 1129, co. 15, c.c.).
2. Nomina
La nomina dell’amministratore è obbligatoria, per legge, quando i condomini sono più di otto (nel testo previgente, quattro).
Se l’assemblea (che delibera con la maggioranza prevista dall’art. 1136, co. 2, c.c.) non dovesse provvedere, uno o più condomini ovvero l’amministratore dimissionario dovranno presentare ricorso al Tribunale, chiedendo la nomina di un amministratore giudiziario (ivi, co. 1).
Naturalmente ciò non impedisce che anche in un condominio di dimensioni inferiori sia presente l’amministratore, fermo restando – fino a quando possibile – l’obbligo del rispetto del predetto quorum deliberativo.
L’assemblea può subordinare la nomina alla presentazione da parte dell’amministratore di una polizza individuale assicurativa per responsabilità civile per gli atti da questi compiuti nell’esercizio del proprio mandato, con massimali da adeguare nel caso di effettuazione di lavori straordinari (ivi co. 3 e 4).
La norma non è vincolante ed è finalizzata a tutelare il condominio da eventi dannosi, anche procurati a terzi, ascrivibili al comportamento colposo dell’amministratore.
Tale adeguamento non deve essere inferiore all'importo di spesa deliberato e deve essere effettuato contestualmente all'inizio dei lavori.
Nel caso in cui l'amministratore sia coperto da una polizza di assicurazione per la responsabilità civile professionale generale per l'intera attività da lui svolta, questa deve essere integrata con una dichiarazione dell'impresa di assicurazione che garantisca le condizioni previste dal periodo precedente per lo specifico condominio.
La previsione normativa ha suscitato dubbi tra gli interpreti. Infatti il terzo comma, che parla di polizza per la responsabilità civile, fa pensare ad una polizza che garantisca i condomini dai danni di cui dovessero rispondere a titolo di responsabilità extracontrattuale anche ai sensi dell’articolo 2049 c. c.; mentre il quarto comma parla di polizza per la responsabilità civile professionale generale che fa pensare alla copertura per i danni che i condomini dovessero subire a cagione di inadempimento contrattuale nell’ambito del rapporto con l’amministratore.
Non è chiaro, inoltre, cosa accada se l’amministratore non provveda a presentare la polizza cui è subordinata la nomina: potrebbe invero ritenersi non perfezionata la nomina oppure che la stessa sia valida ma inefficace in attesa che si verifichi una condizione sospensiva.
Sembra corretto ritenere che l’onere economico dell’assicurazione debba far carico ai condomini e l’amm.re possa recuperarlo in sede di rendiconto ma, di certo, un accordo preventivo sul punto è da preferire.
Quanto alla durata, l’art. 1129, co. 10 c.c. dispone che “l’incarico dell’amministratore ha durata di un anno e si intende rinnovato per eguale durata”.
Il problema che si è posto concerne il fatto se il termine indicato dal legislatore si debba intendere come incarico biennale automatico oppure se alla scadenza del primo anno sia necessaria una nuova assemblea per la riconferma.
Il meccanismo del rinnovo si configura come una prosecuzione tacita del mandato per un ulteriore anno alle stesse condizioni, talchè è presumibile che non sia necessaria una nuova delibera che confermi l’amministratore già operativo.
In considerazione del fatto dei dubbi insorti sarebbe utile e corretto che l’amministratore, alla scadenza dell’anno successivo all’incarico, verbalizzi in assemblea che lo stesso prosegue nella gestione alle stesse condizioni già in atto.
I dati concernenti l’amministratore (dati anagrafici e professionali; codice fiscale; eventuale sede legale della società deputata ad amministrare il condominio; locali dove sono tenuti tutti i registri condominiali) devono essere comunicati al condominio al momento dell’accettazione dell’incarico e ad ogni suo rinnovo, mentre sul luogo condominiale di maggiore visibilità, anche accessibile ai terzi, deve essere affissa l’indicazione dei dati identificativi del rappresentante dell’ente, ivi compresi quelli concernenti la persona che in mancanza dell’amministratore svolge funzioni analoghe (ivi, co. 5 e 6).
3. Il compenso
Il mandato dell’amministratore è oneroso e non si parla più di presunzione di onerosità.
La ripartizione delle spese relative alla retribuzione deve avvenire sulla base dei millesimi di proprietà come previsto dall’art. 1123, co. 1, c.c. salvo diversa convenzione.
Il versamento degli oneri spetta, in caso di locazione dell’unità immobiliare, al proprietario in quanto l’amministratore è mandatario del condomino. Nulla vieta, tuttavia, che nel contratto di locazione la ripartizione di tali spese venga regolata diversamente.
L’amministratore, che continui ad esercitare ad interim il proprio mandato, ha diritto ad essere retribuito per il periodo di interinato in percentuale con una percentuale da calcolarsi in ragione del compenso precedentemente pattuito.
Il rappresentante dell’Ente anticipatamente revocato dall’assemblea ha diritto solo al compenso per l’effettiva attività svolta, salvo il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1725 c.c.
Il compenso – come già evidenziato - viene liberamente pattuito tra le parti con una indicazione piuttosto minuziosa delle voci di riferimento. Secondo parte della dottrina, malgrado la lettera della legge, non sarebbe vietato un compenso a forfait annuo a copertura di tutte le attività ordinare di gestione condominiale, ivi compresa la convocazione di una o più assemblee straordinarie.
Con una recente decisione di merito, tuttavia, è stata ritenuta illegittima la nomina di un amministratore in quanto il compenso non era stato indicato come espressamente prescritto dalla legge, non essendo sufficiente a tale scopo la circostanza che fosse noto quello dell’anno precedente. Il giudice, infatti, ha ribadito che la novella legislativa è stata chiara nel prevedere detta indicazione come necessaria a pena di nullità (Trib. Roma, ord., 15 giugno 2016).
In entrambi i casi, tuttavia, eventuali attività extra che richiedessero un maggior impegno dell’amministratore dovrebbero essere pagate a parte e, fino dal momento della presentazione del preventivo, dovrebbero essere quantificate all’assemblea in percentuale rispetto all’entità della spesa ipotizzabile.
L’amministratore, oltre al compenso convenuto, ha diritto al rimborso delle spese e dei danni patiti in stretta dipendenza del suo incarico ex art. 1720 c.c. Anche il rimborso spese può essere predeterminato al momento dell’accettazione
Il compenso comprende anche lo svolgimento degli adempimenti fiscali (versamento delle ritenute di acconto; presentazione del mod. 770 ecc.), considerato che tale attività rientra nelle ordinarie attribuzioni dell’amministratore (art. 1130, n. 5, c.c.).
Gli adempimenti fiscali in materia di imposte sui redditi e IVA da curare in relazione al compenso dell’amministratore variano a seconda della qualificazione del soggetto che ricopre l’incarico e dall’attività che egli svolge: il relativo reddito potrà essere assimilato a reddito da lavoro autonomo, a reddito da lavoro subordinato o a reddito d’impresa a seconda delle circostanze.
L’attività di amministratore di condominio, infine, non è incompatibile con la professione di avvocato secondo quanto chiarito dal Consiglio Nazionale Forense con parere del 20.2.2013 relativo all’articolo 18 della Legge 247/2012 recante Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense.
In ordine al requisito di cui alla lettera g) ovvero la formazione iniziale e quella periodica deve ora farsi riferimento alla Legge 4/2013 recante Disposizioni in materia di professioni non organizzate. L’articolo 7 della legge citata stabilisce infatti che le associazioni professionali sono deputate al rilascio delle attestazioni relative, tra l’altro, agli standard qualitativi e di qualificazione professionale che gli iscritti sono tenuti a rispettare nell’esercizio dell’attività professionale.
4. I requisiti soggettivi
E’ tramontata la figura dell’amministratore fai-da-te.
Infatti, per quanto concerne i requisiti soggettivi l’art. 71 bis delle disp.att.c.c., ha previsto, in capo al soggetto che si propone per amministrare il condominio, una serie di caratteristiche che devono assicurare:
1) integrità rispetto alla legge (pieno godimento dei diritti civili; mancanza di condanne penali; assenza di misure di prevenzione definitive, salvo riabilitazione e nessuna annotazione nel registro dei protesti);
2) di essere in possesso di tutte le facoltà mentali (non essere stati dichiarati interdetti o inabilitati);
3) un livello adeguato di istruzione (possesso di un diploma di scuola secondaria di secondo grado);
4) professionalità, dimostrando – mediante attestato rilasciato da organismo competente – di avere frequentato corso di formazione iniziale e aggiornamento periodico.
Eccezioni: il condomino che amministri il proprio condominio e l’amministratore che abbia svolto tale attività per almeno un anno nel triennio antecedente l’entrata in vigore della riforma sono esonerati dal dimostrare il possesso dei requisiti indicati nei numeri 3) e 4).
Per tali soggetti, comunque, resta salvo l’obbligo dell’aggiornamento periodico.
Dalla perdita dei requisiti di cui ai nn. 1) e 2) consegue la cessazione dall’incarico e ciascun condomino può, senza alcuna formalità, convocare l’assemblea per la nomina di un nuovo amministratore.
La norma è inderogabile in quanto strettamente connessa all’art. 1129 c.c. che è considerato tale dall’art. 1138 c.c.
CAPITOLO QUINTO
IL MANDATO DELL’AMMINISTRATORE
INTRODUZIONE
Per il disposto dell’art. 1129, co. 10 l’amministratore dura in carica un anno e l’incarico si intende rinnovato per uguale durata.
Il precedente disegno di legge, invece, aveva previsto che il mandato fosse conferito per un biennio, poiché un termine ragionevolmente più lungo avrebbe consentito e garantito una maggiore stabilità per la gestione condominiale.
La durata dell’incarico rimane annuale ma, nel vigore della nuova disciplina, è stato introdotto il meccanismo del rinnovo, che si configura come una prosecuzione tacita del mandato per un ulteriore anno alle stesse condizioni iniziali e senza che vi sia bisogno di alcuna formalità o delibera confermativa da parte dell’assemblea.
In questo senso, pertanto, l’amministratore con riferimento al secondo anno del suo mandato non dovrebbe essere obbligato ad inserire l’argomento “rinnovo” come punto di discussione della relativa assemblea.
L’art. 1129, co. 14, tuttavia, dispone che l’amministratore all’atto di accettazione della nomina e del suo rinnovo, deve specificare analiticamente, a pena di nullità della nomina stessa, l’importo dovuto a titolo di compenso per l’attività svolta.
Il riferimento da parte del legislatore a due momenti ben differenti dello svolgimento del mandato, con particolare evidenza a quello iniziale (nomina) in ordine all’effetto nullità, sembra essere una conferma di quanto a momenti evidenziato in merito al tacito svolgimento dell’incarico per il secondo anno.
Per correttezza, tuttavia, l’amministratore in sede di assemblea successiva all’anno del conferimento del mandato potrebbe dichiarare e verbalizzare che lo stesso prosegue alle medesime condizioni economiche rispetto alla precedente gestione.
La conferma, tuttora prevista dall’articolo 1135, co. 1, n. 1 c.c., presuppone una delibera assembleare in tutto e per tutto assimilabile a quella di nomina dalla quale differisce per il solo fatto che si riferisce a persona già in precedenza nominata e rispetto alla quale il mandato si sia esaurito (in tal senso l’orientamento giurisprudenziale prevalente espresso da Cassazione 3797/78 e Cassazione 4269/94).
La maggioranza richiesta per la conferma è, dunque, quella prevista dall’art. 1136, co. 2, c.c.
Non in linea con la Suprema Corte alcuni giudici di merito i quali hanno ritenuto che per la conferma sia sufficiente la maggioranza ordinaria di cui al comma 3 art. cit. (Trib. Roma 10701/2009).
1. Accettazione, cessazione dall’incarico e relativi obblighi
Perché la nomina da parte dell’assemblea sia operativa occorre l’accettazione dell’incarico a cura dell’amministratore.
Oltre a quanto previsto nell’art. 1129, co. 2 (comunicazione dei dati anagrafici ed altro), l’amministratore deve specificare analiticamente, a pena di nullità della nomina stessa, l'importo dovuto a titolo di compenso per l'attività svolta (ivi co. 14).
Secondo alcuni interpreti l’accettazione dovrebbe intervenire per iscritto, mentre altri, di contrario avviso, ritengono che sarebbe sufficiente una manifestazione di assenso verbale o addirittura implicita, mediante la comunicazione dei dati e la specificazione del compenso. In attesa che la giurisprudenza si pronunci sull’argomento sarà prudente che l’amministratore nominato rediga un chiaro documento di accettazione dell’incarico.
La lettera di accettazione sarà trasmessa all’amministratore uscente, il quale la porterà a conoscenza di tutti i condomini. Ove, invece, il nuovo rappresentante dell’ente sia stato ammesso a partecipare all’assemblea il relativo documento potrà essere allegato al verbale assembleare.
Le stesse modalità per l’accettazione dell’incarico sono poste a carico dell’amministratore giudiziario, il quale dovrà garantire le stesse caratteristiche di correttezza, trasparenza ed integrità necessarie per l’amministratore ordinario.
Il mandato dell’amministratore può cessare per cause volontarie, quali le dimissioni spontanee, ed indotte nel caso di revoca assembleare o giudiziaria ovvero di cessazione per la perdita dei requisiti essenziali per l’esercizio dell’attività.
In tutte le ipotesi il primo dovere dell’amministratore è quello sancito dall’art. 1129, co. 8, c.c. in base al quale il medesimo deve consegnare tutta la documentazione concernente condominio e condomini ancora in suo possesso, mentre deve proseguire, fino alla nomina del proprio successore, nel compimento delle attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni.
Per tale attività l’amministratore non ha diritto ad alcun compenso ulteriore.
Per il disposto dell’art. 71 bis delle disp. att. c.c. l’amministratore cessa dall’incarico per la perdita di requisiti che la legge ha indicato come essenziali per l’esercizio del mandato:
- godimento dei diritti civili (lett. a);
- condanna per delitti contro la pubblica amministrazione e l’amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il patrimonio e per ogni altro delitto colposo per il quale la legge preveda la pena della reclusione non inferiore, nel minimo a due anni e, nel massimo, a cinque anni (lett.b);
- essere sottoposto a misure preventive divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione (lett. c);
- essere stato inabilitato o interdetto (lett. d);
- essere stato annotato nell’elenco dei protesti cambiari (lett. e).
In tali casi ciascun condomino può convocare direttamente e senza formalità l'assemblea per la nomina del nuovo amministratore.
Nulla è innovato quanto alle dimissioni. L’ amministratore può recedere in qualsiasi momento. Se si dimette senza giusta causa può, però, essere chiamato a pagare eventuali danni arrecati al condominio ai sensi dell'art. 1727 c.c. Le dimissioni costituiscono atto recettizio e, pertanto, producono effetti giuridici dal momento in cui sono portate a conoscenza del condominio senza necessità di relativa accettazione. L’amministratore può manifestare la volontà di dimettersi con comunicazione rivolta a tutti i condomini oppure convocando apposita assemblea.
La vecchia disciplina non contemplava gli obblighi dell’amministratore alla cessazione dell’incarico. La giurisprudenza ammetteva la prorogatio imperii ovvero la proroga dei poteri per l’amministratore cessato dalla carica per dimissioni o scadenza del termine annuale, fintanto che non fosse intervenuta la nomina di altro amministratore (Cass. 1405/2007).
Infatti, come chiarito dalla Suprema Corte l’art. 1129 non escludeva la proroga dei poteri (Cass. 18660/2012) da intendersi anzi coerente con l’interesse e con la volontà dei condomini alla continuità dell’amministrazione, da valutare caso per caso e da escludere, ad esempio, se l’assemblea si fosse espressa in senso contrario alla conservazione dei poteri (Cass. 15858/2002).
Durante il periodo della prorogatio l’amministratore uscente doveva esercitare tutte le attribuzioni previste dall’articolo 1130 (Cassazione 3277/1968) e permaneva nella rappresentanza, anche processuale, del condominio (Cass. 18660/2012 cit.).
La prorogatio si esauriva con la nomina del nuovo amministratore e, dal punto di vista della legittimazione passiva processuale, il solo obbligo che permaneva in capo al rappresentante dell’Ente sostituito era quello di “dare notizia al nuovo amministratore delle pretese azionate in giudizio, mediante comunicazione dell'atto notificato, attesa la conservazione di un dovere di diligenza, anche dopo l'estinzione del mandato, in relazione ai fatti verificatisi nell'epoca di operatività del mandato stesso o comunque ad esso collegabili” (Cass. 14589/2011).
All’ultrattività dei poteri corrispondeva il diritto di conseguire il relativo compenso secondo i criteri stabiliti per il periodo di incarico (Cass. 2214/1976).
La novella del 2012 sembra avere ridisegnato l’istituto della prorogatio limitandolo ad un tipo di attività che si renda necessaria per non creare danno al condominio, anche in considerazione del fatto che ora anche l’amministratore uscente, nel caso di inerzia dell’assemblea, può rivolgersi al Tribunale per porre rimedio a tale situazione.
Da ultimo va rilevato che in caso di fallimento dell’amministratore il mandato si estingue ex art. 1728, co.2, cc. per intervenuta incapacità del mandatario, il chè comporterà per il nuovo amministratore la necessità di contattare il curatore fallimentare, in considerazione dei probabili problemi che si presenteranno al riguardo per l’ente.
2. La revoca assembleare
La riforma del condominio ha apportato notevoli modifiche sostanziali in merito ai gravi motivi che possono portare alla revoca dell’amministratore, ora specificamente elencati, mentre nel testo previgente si parlava solo di comportamenti gravi ma numericamente circoscritti.
Permane la revoca dell'amministratore che può essere deliberata in ogni tempo dall'assemblea, con la maggioranza prevista per la sua nomina oppure con le modalità previste dal regolamento di condominio (art. 1129, co. 11).
La revoca in questi termini può intervenire in qualsiasi momento ed anche senza giusta causa (Cass. 11472/1991).
In tal ultimo caso però l’amministratore può chiedere e conseguire in sede contenziosa il risarcimento dei danni (art. 1725, co. 1, c.c. e Cass. Sez. Un. 20957/04)
La revoca può essere anche implicita mediante nomina di altro amministratore (Cass. 9082/2014).
La convocazione dell’assemblea ai fini della revoca può avvenire ad opera di due condomini che rappresentino almeno 1/6 del valore dell’edificio; costoro possono chiedere all’amministratore di convocare l’assemblea e se questi non provvede, decorsi dieci giorni, provvedono direttamente alla convocazione. Tutto ciò come tuttora previsto dall’ art. 66, co. 1, disp. att. c.c. per la convocazione delle assemblee straordinarie
Il quorum deliberativo è quello previsto per la nomina ex art. 1136, co. 2 e 4 c.c. (in prima e seconda convocazione voto favorevole della maggioranza degli intervenuti e almeno metà del valore dell’edificio).
L’undicesimo comma, tuttavia, dopo il richiamo alla maggioranza prevista per la nomina, aggiunge “oppure con le modalità previste dal regolamento di condominio”, creando così qualche dubbio interpretativo, considerato che le norme sulla revoca contenute nell’articolo 1129 sono inderogabili ex articolo 1138 c.c.
3. Nomine a cura dell’autorità giudiziaria
Come accennato, la richiesta della nomina di un amministratore giudiziario può ora avvenire anche su impulso dell’amministratore dimissionario, quando ne sussistano i presupposti di legge: inerzia prolungata dell’assemblea o insanabili contrasti sulla scelta del soggetto.
Non rientrano tra i presupposti le presunte irregolarità commesse dall’amministratore in carica.
Il procedimento si volge in camera di consiglio dinanzi al Tribunale ed è disciplinato dagli artt. 743/742 c.c., istituzionalmente destinati alla c.d. volontaria giurisdizione.
Per il procedimento di nomina, di carattere non contenzioso di natura amministrativa e non giurisdizionale, secondo un orientamento consolidato di dottrina e giurisprudenza, occorre il patrocinio di un legale ed il decreto di fissazione di udienza deve essere notificato all’amministratore dimissionario.
Il provvedimento, adeguatamente motivato, non è reclamabile in corte di appello, difettando la disciplina di una disposizione normativa in tal senso (in tal senso Cassazione 9942/96).
Sembra corretto ritenere che, per la nomina dell’amministratore nei condomini che contano meno di 9 partecipanti, si debba adire l’autorità giudiziaria in base alla disciplina della comunione (ex art. 1105, co. 4, c.c.)
Anche l’amministratore giudiziario ha diritto al compenso, che viene concordato tra le parti, essendo l’autorità giudiziaria competente solo per la nomina.
Per la nomina giudiziaria nell’ambito del super condominio si rinvia al capitolo relativo.
4. Revoca giudiziaria
La vecchia disciplina (art.1129, co. 3) consentiva la revoca giudiziaria in tre casi tassativi:
a) mancata ed immediata comunicazione ai condomini della ricezione di notifiche di atti giudiziari o amministrativi che esorbitano dalla sue attribuzioni
b) omesso rendiconto per un biennio
c) fondati sospetti di gravi irregolarità
Con l’entrata in vigore delle modifiche apportate dalla legge 220/12, fermo restando il caso sub “a”) ed il riferimento ad un solo anno per la mancata presentazione del rendiconto (sub “b”), ciò che oggi è veramente cambiato è l’introduzione di una tipizzazione di comportamenti che portano alla revoca giudiziaria, possibile anche su ricorso di un solo condomino.
L’elenco che segue, contenuto nell’articolo in esame, è indicativo ma non esaustivo delle ipotesi che configurano gravi irregolarità:
1) omessa convocazione dell’assemblea per l’approvazione del rendiconto e ripetuto rifiuto di riunire il consesso assembleare per la revoca e nomina del nuovo amministratore o in tutti gli altri casi previsti dalla legge;
2) mancata esecuzione di provvedimenti giudiziari e amministrativi, nonché di deliberazioni dell'assemblea;
3) la mancata apertura ed utilizzazione del conto corrente (postale o bancario) intestato al condominio sul quale fare affluire tutte le somme di interesse comune (ivi co. 7);
4) gestione secondo modalità che possono generare possibilità di confusione tra il patrimonio del condominio e il patrimonio personale dell'amministratore o di altri condomini;
5) l'aver acconsentito, per un credito insoddisfatto, alla cancellazione delle formalità eseguite nei registri immobiliari a tutela dei diritti del condominio;
6) qualora sia stata promossa azione giudiziaria per la riscossione delle somme dovute al condominio, l'aver omesso di curare diligentemente l'azione e la conseguente esecuzione coattiva;
7) l'inottemperanza agli obblighi di cui all'articolo 1130, numeri 6), 7) e 9) [tenuta del registro di anagrafe condominiale, tenuta degli altri registri, mancata consegna dell’attestazione relativa allo stato dei pagamenti degli oneri condominiali e delle eventuali liti in corso]
8) l'omessa, incompleta o inesatta comunicazione dei dati di cui al secondo comma del presente articolo.
In due delle menzionate ipotesi (gravi irregolarità fiscali e mancata apertura ed utilizzazione di un conto corrente comune) prima di adire alle vie giudiziarie i condomini, anche singolarmente, possono preventivamente chiedere la convocazione dell’assemblea per far cessare la violazione e revocare il mandato.
Qualora l’assemblea non provveda il singolo può rivolgersi direttamente all’autorità giudiziaria, con diritto di rivalsa, per le spese legali, nei confronti del condominio in caso di accoglimento della domanda. Questi, a sua volta, potrà fare altrettanto nei confronti dell’amministratore revocato.
A seguito del ricorso ex art. 1129 il Tribunale provvede in camera di consiglio con decreto motivato, sentito l’amministratore in contraddittorio con il ricorrente ed il provvedimento è reclamabile dinanzi alla Corte di Appello entro dieci giorni dalla notificazione o dalla comunicazione (art. 64 disp. att. c.c.).
Il provvedimento non è reclamabile in Cassazione (giur. costante. per tutte vedi Cass., ord., 2986/2012)
Ultima novità rilevante: l’assemblea non può ri-nominare l’amministratore che sia stato giudizialmente revocato (ivi co. 13).
5. Forme di amministrazione e gestione ausiliaria
Il condominio può essere amministrato anche dalle società di cui al Titolo V del codice civile, i cui soci illimitatamente responsabili, gli amministratori ed i dipendenti incaricati di svolgere le funzioni di gestione del condominio, posseggano gli stessi requisiti richiesti all’amministratore come persona fisica (art. 71bis, co. 3, disp.att.c.c.).
Con tale disposizione il legislatore si è definitivamente uniformato alla costante giurisprudenza (tra tutte vedi Cass. 1406/2007), secondo la quale anche una persona giuridica può offrire un grado di affidabilità pari a quello di una persona fisica sia per quanto concerne l’adempimento delle obbligazioni, sia per le relative responsabilità che, ovviamente, ricadranno sui soci.
Anche la società – come la persona fisica – al momento in cui accetta l’incarico deve comunicare al condominio i dati relativi al proprio rappresentante legale, la sede legale e la propria denominazione.
I requisiti di legge previsti per l’esercizio dell’attività di amministratore, invece, devono essere posseduti dai soci illimitatamente responsabili, dagli amministratori della società e dai dipendenti incaricati di svolgere le funzioni di amministratore in sede al condominio in favore del quale la società opera.
La Corte di Cassazione, con decisione che risulterebbe unica nel suo genere, ha affermato che “le norme del codice civile sulla nomina, la revoca e l'attività dell'amministratore del condominio negli edifici (art. 1129 cod. civ. 64 e 65 disp. att. cod. civ.) non escludono la possibilità che l'amministrazione del condominio sia affidata ad una pluralità di amministratori dato che, per un verso, la carenza di una specifica disposizione per l'individuazione tra i diversi amministratori di quello tenuto a rappresentare il condominio nei rapporti con i terzi comporta solo, ai sensi dell'art. 1131 cod. civ., che, l'attribuzione a tutti del potere di rappresentanza anche nei confronti di terzi e che, per altro verso, grazie al rinvio alle norme sulla comunione, operato dall'art. 1139 cod. civ., deve ritenersi applicabile al condominio negli edifici l'art. 1106 cod. civ., che, per una esigenza di tutela degli interessi dei comproprietari e di razionalizzazione delle amministrazioni particolarmente complesse, comune anche al condominio negli edifici, espressamente consente la delega per l'amministrazione della cosa comune ad uno o più partecipanti o anche ad un estraneo” (Cass. 11155/1994).
Rimane immutato l’articolo 65 disposizioni di attuazione codice civile a mente del quale chi intende avviare una lite contro il condominio sprovvisto di amministratore può chiedere la nomina di un curatore speciale ex articolo 80 c.p.c. (il quale poi dovrà convocare l’assemblea chiedendo istruzioni).
La ratio della norma si individua nella necessità di dare ad un condominio, che si venga a trovare privo del proprio legale rappresentante, un organo rappresentativo, talchè colui che debba agire in giudizio contro l’Ente stesso non sia costretto a citare ciascun proprietario.
Altra figura rientrante nell’ambito delle forme di gestione ausiliaria è il curatore del riscaldamento, che si identifica in quel soggetto al quale l’assemblea potrebbe affidare il compito di gestire il servizio di riscaldamento centralizzato.
L’incarico dovrebbe essere limitato al periodo di funzionamento dell’impianto di riscaldamento, ed alla nomina del curatore dovrebbero partecipare anche i conduttori (secondo alcuni interpreti solo gli inquilini per effetto dell’art. 10 della legge n. 392/1978).
Il consiglio di condominio nasce formalmente con l’introduzione dell’art. 1130 bis, ultimo c.c., che ha affidato a tale organo, comunque non obbligatorio e composto da almeno tre condomini negli edifici di almeno dodici unità immobiliari, funzioni solamente consultive e di controllo.
E’ un organo ausiliario dell’amministratore (consultivo) ma è anche un soggetto che riscontra la correttezza dell’operato del rappresentante del condominio. Non per nulla il legislatore ha inserito questa nuova figura nell’ambito della norma rubricata “rendiconto condominiale” che – come si vedrà in prosieguo consente anche un riesame dei bilanci già approvati, tramite un revisore dei conti.
In assenza di una espressa indicazione, la nomina del consiglio del condominio dovrebbe richiedere la maggioranza semplice prevista dall’art. 1136, co. 3, c.c. (maggioranza degli intervenuti ed almeno un terzo dei valori millesimali).
6. Attribuzioni ed obblighi
Le mansioni dell’amministratore sono disciplinate dall’art. 1130 c.c., come novellato dalla legge del 2012.
La norma è derogabile ai sensi dell’art. 1138 c.c.
1) Obblighi riferiti all’assemblea: eseguire le delibere assembleari e convocare ogni anno l’assemblea per l’approvazione del rendiconto.
Decorso il termine per l’impugnativa di cui all’art. 1137 c.c. la delibera è obbligatoria per tutti i condomini e deve essere posta in esecuzione.
Si discute se l’amministratore abbia un potere di controllo sulle delibere condominiali, prima di porle in esecuzione.
E’ autorizzato a non dare corso ad una delibera palesemente affetta da nullità (ad esempio perché contra legem o in violazione di norme imperative), così come è tenuto ad eseguire solo le deliberazioni che rientrano nei poteri deliberativi dell’assemblea e non quelle che incidano sui diritti esclusivi dei condomini (Cass. 278/1997).
Tuttavia, poichè si potrebbe appalesare il rischio di attribuire all’amministratore un potere di controllo che non rientra nel suo mandato è opportuno che in fase deliberativa sia effettuata dall’organismo deliberante un’attenta verifica della correttezza dei deliberata.
Se, infine, nelle more del termine previsto dall’art. 1137 dovesse essere fatto presente dai condomini che la delibera è affetta da vizi formali che ne provocherebbero l’annullamento, ove venisse chiesto all’amministratore di procedere ad una riconvocazione dell’assemblea per sanare detti vizi, questi dovrebbe attivarsi in questo senso per evitare azioni di responsabilità nei propri confronti.
La mancata convocazione dell’assemblea per l’approvazione del rendiconto costituisce grave irregolarità sanzionata con la revoca dell’amministratore (art. 1129, co. 12, n.1).
1a) Regolamento di condominio: garantirne e curarne l’osservanza, sia con riferimento alle parti comuni sia per quanto concerne le clausole che limitano i poteri e le facoltà di ciascun condomino sulle parti di proprietà esclusiva.
Strettamente collegato l’art. 70 delle disp. att. c.c. il quale prevede per le infrazioni al regolamento la possibilità di imporre al condomino trasgressore una sanzione compresa tra € 200,00 ed € 800,00 (in caso di recidiva). La somma sarà devoluta al fondo a disposizione per le spese ordinarie.
2) Uso delle cose comuni e prestazione dei servizi: l’attività consiste nel disciplinare l’uso di tali beni nell’interesse di tutti i condomini e garantire che i servizi comuni funzionino in modo regolare, anche assicurando che non vi siano interferenze con l’uso delle proprietà individuali.
3) Riscossione dei contributi ed erogazione delle spese ordinarie: entrambe le attività sono strettamente connesse tra di loro e sono finalizzate a consentire la corrente gestione del condominio.
Sulla riscossione forzosa dei contributi condominiali si rinvia all’apposito capitolo.
Le spese straordinarie possono essere erogate dall’amministratore solo previa delibera assembleare, salvo che si tratti di interventi urgenti, nel qual caso l’amministratore deve provvedere e poi riferire alla prima assemblea (art. 1135, co. 2, c.c.).
La riscossione avviene sulla base dei preventivi e consuntivi, redatti nei termini di legge.
Questi ultimi devono essere presentati all’assemblea per l’approvazione entro 180 giorni dalla chiusura del bilancio annuale.
4) Conservazione delle parti comuni: l’obbligo si riferisce tanto ad interventi ordinari, quanto all’esperimento di azioni cautelari tali da prevenire o, comunque, ridurre effetti pregiudizievoli per le parti comuni dello stabile riferibili a stabilità, sicurezza e decoro architettonico.
A titolo meramente esemplificativo rientrano in tale categoria: l’azione di responsabilità ex art. 1669 c.c. nei confronti del costruttore a tutela dell’edificio nella sua unitarietà (Cass. 22656/2010), ma non a tutela dei beni individuali (Cass. 217/2015); quella di reintegrazione nel possesso di parti comuni (Cass. 7063/2002); quella di rimozione di finestre abusivamente aperte sulla facciata dell’edificio in violazione del regolamento di condominio, in quanto inerente alla conservazione del decoro architettonico (Cass. 14626/2010); quella cautelare (Cass. 24391/2008) e così via.
Non rientrano in tale categoria le azioni di risarcimento dei danni da svalutazione dei singoli appartamenti anche se causati da vizi di costruzione.
In ragione della derogabilità dell’art. 1130 la Corte di Cassazione ha affermato che “il regolamento condominiale (approvato per contratto o anche in virtù di deliberazione assembleare) può legittimamente sottrarre all'amministratore il potere di decidere autonomamente in ordine al compimento di eventuali atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio, per conferirlo esclusivamente all'assemblea” (Cass. 8719/1997).
Gli ulteriori incombenti, sempre previsti dall’art. 1130, posti a carico dell’amministratore dalla riforma del condominio sono:
♦ l’esecuzione degli adempimenti fiscali (ivi n. 5). Trattasi di incombenti relativi ad esempio al versamento dei contributi INPS ed INAIL che riguardano il personale dipendente fisso del condominio (portiere, pulitore, giardiniere, ecc.); alle ritenute sui corrispettivi degli appalti di opere o servizi; alla compilazione del modello 770; alla cura delle pratiche relative alle agevolazioni fiscali per tutti quegli interventi di recupero del patrimonio edilizio su parti comuni e di riqualificazione energetica, come regolamentati dalle normative vigenti.
In questo caso sarà cura dell’amministratore provvedere con solerzia, onde evitare che ritardi e/o omissioni possano provocare ai condomini danni dei quali egli solo sarà chiamato a rispondere.
L’amministratore è tenuto, altresì, a versare tutte le tasse inerenti alle parti comuni quali la tassa relativa ai passi carrabili e quelle concernenti gli immobili di proprietà condominiale.
Qualora il condominio conceda in locazione un bene comune (ad esempio: l’appartamento del portiere) l’amministratore si dovrà comportare alla stregua di un comune locatore provvedendo, in primis, alla registrazione di contratto di locazione.
♦ la costante tenuta dei quattro registri condominiali: dell’anagrafe condominiale, dei verbali assembleari, di nomina e revoca degli amministratori e della contabilità (ivi nn. 6/7).
Tra tutti questi registri assume rilevanza quello dell’anagrafe condominiale, poiché con esso scompare la figura del condomino apparente, ovvero quel soggetto che per anni, pur non essendo condomino, si sia comportato come tale, inducendo l’amministratore in errore.
Su tale registro, infatti, oltre alle generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali e di diritti personali di godimento, comprensive del codice fiscale, della residenza e del domicilio devono essere indicati i dati catastali di ciascuna unità immobiliare, nonché i dati relativi alle condizioni di sicurezza delle parti comuni dello stabile (integrazione introdotta dal D.L. n. 145/2013, conv. nella L. n. 9/2014),
La comunicazione dei dati personali da parte dei condomini è un obbligo ed ogni variazione deve essere fatta, per iscritto, entro sessanta giorni dall’avvenuto cambiamento.
In caso di inerzia, mancanza o non completezza delle comunicazioni, l’amministratore dovrà, in caso di risposta non pervenuta entro trenta giorni dalla richiesta, acquisire egli stesso quanto necessario con costi a carico dei responsabili.
In questo ambito si inserisce il problema della tutela della privacy, più volte oggetto di pronunce da parte del relativo garante.
La legge n. 675/1996 e le successive modifiche fino al D.Lgs n. 196/2003 hanno per oggetto il trattamento di informazioni per mezzo delle banche dati e sono state concepite per tutelare il cittadino dalle ingiustificate intromissioni di estranei nella propria sfera personale e giuridica.
Per trattamento dei dati si intende qualunque operazione o complesso di operazioni effettuate, anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, e concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo...la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati anche se non registrati in una banca dati (art. 4 del Codice della Privacy).
Nel nostro ambito l’anagrafe condominiale, ma anche la complessiva situazione patrimoniale e/o debitoria dei singoli nei confronti dell’Ente sono legittimamente protetti sotto il profilo della privacy, ma i relativi dati possono essere utilizzati solo ed esclusivamente se funzionali ai fini consentiti dalla legge, in relazione alla gestione ed amministrazione del condominio.
L’amministratore è il soggetto abilitato a trattare i dati in suo possesso in quanto ne è “titolare”, essendo la persona fisica e/o la persona giuridica cui competono, anche unitamente ad altro soggetto preposto, le decisioni in ordine alle finalità, alle modalità del trattamento dei dati personali ed agli strumenti utilizzati, ivi compreso il profilo della sicurezza.
Il registro dell’anagrafe condominiale non fa riferimento ai recapiti telefonici dei condomini.
Il Garante nel provvedimento del 19 maggio 2000 aveva affermato che i numeri telefonici sono da considerarsi dati personali in quanto la legislazione in materia ha fornito una definizione ampia del termine, che comprende qualunque informazione relativa ad una persona fisica identificata od identificabile anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione.
Secondo il Garante gli estremi identificativi delle utenze telefoniche non sono annoverabili tra i dati oggetto di necessaria ed obbligatoria comunicazione all’interno del condominio, poiché non rappresentano elementi utili a determinare i diritti o gli oneri sulla cosa comune, né è rinvenibile alcun obbligo di legge in questo senso.
Successivamente lo stesso Garante con il Vademecum della privacy del condominio del 10 ottobre 2013 ha precisato che “i numeri di telefono fisso, di telefono cellulare e l’indirizzo di posta elettronica possono essere utilizzati se sono già indicati in elenchi pubblici (come le pagine bianche o le pagine gialle) oppure se l’interessato abbia fornito il proprio consenso. In ogni caso, occorre sempre tenere presente il principio di proporzionalità circa l’uso di tali recapiti, con particolare riferimento a frequenze e ad orari: il loro utilizzo può essere opportuno in casi di necessità ed urgenza (soprattutto per evitare situazioni di pericolo o danni incombenti), mentre occorre massimo discernimento per le attività ordinarie e non possono essere comunicati a terzi”.
♦ la conservazione di tutta la documentazione inerente la propria gestione ed avente ad oggetto sia i rapporti condominio/condomini, sia lo stato tecnico-amministrativo dell’edificio, inteso come costruzione e come comunità condominiale (ivi n. 8). I documenti devono essere conservati per dieci anni dalla data della loro registrazione;
♦ l’esibizione, a chi ne faccia richiesta, della documentazione inerente la propria gestione riferibile sia al rapporto con i condomini sia allo stato dei pagamenti degli oneri condominiali e delle eventuali liti pendenti (ivi n. 9);
♦ la redazione del rendiconto annuale con la convocazione dell’assemblea entro 180 giorni dalla chiusura dell’anno di gestione (ivi n. 10).
A questo proposito si evidenzia che l’art. 1130 bis c.c., rubricato rendiconto condominiale, rappresenta una delle novità introdotte dalla legge del 2012, che una volta approvato con le maggioranza di legge è vincolante per tutti i condomini, anche se dissenzienti ove non sia stata impugnata la relativa delibera (Cass. 5254/2011).
Il legislatore ha specificato che il bilancio consuntivo, che contiene le voci di entrata e di uscita e qualsivoglia altro dato inerente alla situazione patrimoniale del condominio, deve essere redatto in modo chiaro e tale da consentire una immediata verifica dei dati ivi indicati.
Il rendiconto è composto da un registro di contabilità, da un riepilogo finanziario e da una nota sintetica, ma esplicativa, dell’attività gestionale svolta dall’amministratore e delle questioni pendenti.
E’ stata introdotta la figura del revisore contabile, soggetto al quale l’assemblea, con la stessa maggioranza prevista per la nomina dell’amministratore, può affidare l’incarico di verificare la contabilità del condominio in qualsiasi momento e per più annualità specificamente indicate.
La spesa viene ripartita tra i condomini in base ai millesimi di proprietà.
Tutti i soggetti legittimati (condomini e titolari di diritti reali o di godimento) possono prendere visione dei documenti giustificativi di spesa, estraendone copia a proprie spese.
Per la consultazione della documentazione condominiale è stata introdotta una nuova norma (art. 71ter disp. att. c.c.), che prevede l’obbligo dell’amministratore di attivare un sito internet del condominio quando l’assemblea deliberi, sempre con la maggioranza di cui all’art.1136, co. 2.
Questo consentirà agli aventi diritto anche di estrarre copia digitale dei documenti previsti dalla delibera (es. verbali, copie di contratti vari, ripartizione di spese, regolamento di condominio ecc.).
Le spese per l’attivazione e la gestione del sito sono a carico dei condomini in base ai millesimi di proprietà.
Le attività che l’amministratore è chiamato a svolgere nell’ambito del suo mandato emergono, comunque, dall’intero impianto delle norme sul condominio e consistono, oltre a quelle già richiamate nel precedente capitolo, nell’obbligo di:
- attivare un conto corrente bancario o postale intestato al condominio sul quale fare transitare tutte le somme ricevute a qualsivoglia titolo dai condomini e dai terzi oltre a quelle erogate per conto del condominio stesso. E’ previsto il diritto dei condomini di prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica (art. 1129, co.7).
Sulla scia della costante giurisprudenza il legislatore ha così scongiurato il rischio di una confusione del patrimonio personale dell’amministratore con quello del condominio. Si tratta di un profilo della gestione condominiale al quale è stata data particolare rilevanza, visto che l’omissione di tale adempimento e la gestione economica non trasparente costituiscono gravi irregolarità che portano alla revoca dell’amministratore (art. 1129, co. 12, nn. 3 e 4).
Secondo parte della dottrina sarebbe contraddittorio parlare di patrimonio del condominio poiché, anche con la riforma, il condominio è rimasto mero ente di gestione, sfornito di soggettività giuridica e sprovvisto di autonomia patrimoniale.
- convocare l’assemblea ordinaria annuale e straordinaria/e quando ne sussistano i motivi.
- adempiere a tutti gli obblighi previsti dalle leggi speciali tra i quali meritano menzione quelli previsti dalla disciplina per la sicurezza, manutenzione e adeguamento degli impianti, per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
CAPITOLO SESTO
RAPPRESENTANZA E RESPONSABILITA’ DELL’AMMINISTRATORE
1. La rappresentanza dell’amministratore nella veste di mandatario
Come si è detto in precedenza la figura dell’amministratore del condominio, in seguito all’entrata in vigore della riforma del 2012, è stata definitivamente inquadrata nell’ambito dell’istituto del mandato (art. 1129, co. 15, c.c.), talchè l’attività dallo stesso svolta, nei limiti delle sue attribuzioni o dei poteri di cui è titolare (per regolamento o per volontà assembleare) è efficace e vincolante per tutti i condomini (Cass. 1640/1997), senza la necessità di ulteriori procure o autorizzazioni.
L’applicabilità della disciplina sul mandato (artt. 1387 e ss. c.c.) è integrativa rispetto all’applicazione delle norme in materia di condominio, che restano il fondamento dell’intero impianto di settore.
In questo ambito, pertanto, l’amministratore può assumere impegni e stipulare contratti. E ciò quantomeno nei limiti della spesa approvata dall'assemblea, per provvedere all'ordinaria amministrazione ed alla prestazione di servizi comuni (Cass. 3159/1993).
Per contro eventuali lavori di straordinaria amministrazione debbono essere preventivamente deliberati dall’assemblea dei condomini e l’amministratore, a norma dell’art. 1135 ultimo comma c.c. può disporli solo se rivestano “carattere urgente” salvo riferirne nella prima assemblea.
Si è, inoltre, ritenuto che esorbiti dalle attribuzioni e quindi dal potere di rappresentanza dell’amministratore, in assenza di un'espressa autorizzazione dell'assemblea, la stipula di un contratto di assicurazione del fabbricato (Cass. 8233/2007), e la stipula di un mutuo in nome e nell'interesse del condominio (Cass. 1734/1990).
Qualora l’amministratore assuma obbligazioni o stipuli contratti eccedenti le sue attribuzioni, i relativi atti sono affetti da nullità assoluta, che può essere rilevata in qualunque momento non essendo l’azione soggetta ai termini di decadenza (Cass. 12851/1991).
L’amministratore che ha agito senza avere i poteri ovvero eccedendone i limiti, è responsabile del danno che il terzo contraente ha sofferto per aver confidato senza sua colpa nella validità del contratto (art. 1398 c.c.).
Salvo beninteso che il contratto concluso senza potere ovvero eccedendone i limiti venga ratificato.
La riferibilità al condominio degli atti validamente compiuti dall'amministratore non è esclusa dalla cessazione del rapporto di rappresentanza per sostituzione dell'amministratore (Cass. 5956/1994).
2. La rappresentanza legale
La rappresentanza processuale dell’amministratore trova fondamento nell’art. 1131 c.c., (norma inderogabile ai sensi dell’art. 1138 e rimasta immutata rispetto alla versione precedente), secondo cui egli è titolare, per le questioni riguardanti il condominio, di una rappresentanza attiva e passiva.
Il primo aspetto è regolato dal primo comma, in virtù del quale l’amministratore ha, nei limiti delle attribuzioni stabilite dall’art. 1130, ovvero dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea, «la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condomini che contro i terzi».
Quanto al secondo profilo (comma 2), egli «può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio; a lui sono notificati i provvedimenti dell’autorità amministrativa che si riferiscono allo stesso oggetto».
L’ultimo comma, infine, stabilisce che «qualora la citazione o il provvedimento abbia un contenuto che esorbita dalle attribuzioni dell’amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio notizia all’assemblea dei condomini» e che «l’amministratore che non adempie a quest’obbligo può essere revocato ed è tenuto al risarcimento dei danni».
La legittimazione, che si esplica nel potere del rappresentante di intervenire nelle azioni giudiziarie nell’interesse dell’ente condominiale, richiede l’investitura dell’assemblea a seconda che l’oggetto della controversia rientri o meno nelle attribuzioni proprie dell’amministratore come previste dall’art. 1130.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, dopo aver osservato che dal quadro normativo – anche precedente al Codice Civile in vigore – emerge che l’amministratore non è organo necessario del condominio, là dove l’organo principale, depositario del potere decisionale è l’assemblea dei condomini – hanno composto un contrasto giurisprudenziale affermando che:
«l’amministratore del condominio, potendo essere convenuto nei giudizi relativi alle parti comuni ma essendo tenuto a dare senza indugio notizia all’Assemblea della citazione e del provvedimento che esorbiti dai suoi poteri, ai sensi dell’art. 1131 commi 2 e 3 c.c., può costituirsi in giudizio e impugnare la sentenza sfavorevole senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea, ma deve, in tale ipotesi, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte dell’assemblea stessa, per evitare la pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione» (Cass. 18331/2010).
2.1 Legittimazione attiva
Nell’ambito delle attribuzioni proprie dell’amministratore, come ampliate dalla nuova versione dell’art. 1130 c.c., si esaminano alcuni casi concreti di legittimazione attiva dell’amministratore alla luce delle determinazioni della giurisprudenza.
Quanto all’osservanza del regolamento di condominio, la rappresentanza si riferisce alla violazione di tutte le clausole che ne costituiscono l’essenza, siano esse meramente regolamentari che contrattuali.
Quando le norme del regolamento incidono su diritti esclusivi, che hanno rilevanza concreta su interessi comuni la legittimazione dell’amministratore sussiste per l’azione che miri ad ottenere una pronuncia di condanna del soggetto che tali norme abbia violato. L’amministratore, pertanto, potrà agire in giudizio per ottenere che un condomino non adibisca l’immobile ad una attività vietata dal regolamento (Cass. 21841/2010).
Allorché il condominio agisca in giudizio nei confronti del conduttore per chiedere la cessazione di una attività abusiva rispetto al regolamento si configura una situazione di litisconsorzio necessario con il proprietario, mentre se sia stato citato solo il proprietario il litisconsorzio non sussiste. Sarà interesse del condomino chiamare in giudizio il conduttore, notoriamente soggetto terzo rispetto al condominio (Cass. 16240/2003).
L’amministratore è ancora legittimato ad agire per la salvaguardia del decoro architettonico, in relazione all’apertura abusiva di una finestra sulla facciata dell’edificio (Cass. 14626/2010), nonché per chiedere la cessazione di comportamenti reiterati e rilevanti che arrechino disturbo ai condomini quali, ad esempio, la battitura dei tappeti al di fuori degli orari regolamentari (Cass. 14735/2006).
In tema di abuso della cosa comune la legittimazione dell’amministratore sussiste anche se l’illecito si risolve in un danno limitato ad uno o ad alcuni soltanto dei partecipanti al condominio, poiché oggetto della tutela è l’uso corretto del bene comune.
In materia di riscossione dei contributi relativi alle spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’edificio, il problema più interessante concerne l’esistenza o meno di un rapporto diretto tra condominio e conduttore in relazione alla possibilità dell’amministratore di agire direttamente verso quest’ultimo per ottenere il pagamento delle spese poste a suo carico.
La legge n. 392/1978, con l’art. 9 (norma non abrogata dalla legge n. 431/1998) ha posto interamente a carico del conduttore, «salvo patto contrario», le spese di gestione e manutenzione ordinaria della cosa comune, il 90% di quelle di portierato, nonché quelle di riscaldamento e condizionamento d’aria.
Ancora oggi il conduttore è considerato parte estranea rispetto al condominio (pur avendo diritto a partecipare alle assemblee condominiali ed a votare in vece del locatore solo per quanto riguarda la gestione del riscaldamento) e, nella specie, l’art. 9 cit. disciplina i rapporti contrattuali tra locatore e conduttore senza interferire nei confronti del condominio.
Quindi, nessuna azione diretta dell’amministratore nei confronti del conduttore (Cass. 2467/1994).
Peraltro il legislatore del 2012 non si è neppure posto il problema di mutare la posizione giuridica del conduttore, considerato che la responsabilità solidale è stata prevista solo tra usufruttuario e nudo proprietario.
Per quanto concerne le azioni dirette alla tutela dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, la Suprema Corte ha affermato che nella categoria degli atti di cui al n. 4 dell’art. 1130 rientra anche l’azione proposta ai sensi dell’art. 1669 c.c. contro l’appaltatore e tendente ad ottenere la rimozione di gravi difetti della costruzione, che possono porre in pericolo la sicurezza dell’edificio, l’esecuzione dei lavori di ripristino a cura e spese della ditta appaltatrice ed, ove ne sussistano i presupposti, una eventuale richiesta risarcitoria strettamente legata a detti inadempimenti (Cass. 17038/2007).
In tale ambito, inoltre, l’amministratore può, senza autorizzazione dell’assemblea, proporre il «procedimento di accertamento tecnico preventivo finalizzato ad acquisire tempestivamente elementi di fatto sullo stato dei luoghi o sulla condizione e qualità di cose, da utilizzare successivamente nel giudizio di merito introdotto con la domanda ex art. 1669 citato, posto che tale accertamento è strumentale all'esercizio stesso dell'azione di responsabilità anzidetta» (Cass. 23693/2009).
E’, altresì, atto di conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dello stabile l’azione promossa contro il singolo condomino e rivolta a conseguire la rimozione di opere abusivamente realizzate su parti di proprietà comune (lastrico solare, terrazza condominiale). Allo stesso modo si è ritenuto che l’amministratore sia legittimato ad agire in giudizio per ottenere la demolizione di una sopraelevazione che, costruita in violazione del regolamento condominiale, minacci la statica dell’edificio (Cass. 13611/2000).
Per quanto concerne, infine, l’azione contrattuale di garanzia per vizi della cosa venduta, la giurisprudenza ha escluso costantemente una legittimazione attiva generale dell’amministratore, richiedendosi per ciò uno specifico mandato dell’assemblea.
La Cassazione (7527/1983) ha ritenuto, infatti, che «l’amministratore del condominio – salvo che ne abbia ricevuto specifico mandato – non è legittimato a promuovere un giudizio quando, sia pure in correlazione alle parti comuni dell’edificio, si controverta sull’adempimento di obbligazioni derivanti dai singoli contratti stipulati con i venditori e che impegnano i singoli condomini ed i loro diretti contraenti. (Nella specie era stata esercitata dall’amministratore l’azione contrattuale di garanzia per i vizi della cosa venduta di cui all’art. 1490 e ss. c.c., con riferimento a vizi attinenti ad elementi accessori della costruzione – rivestimenti, piastrellature, pitturazioni, pavimentazioni)».
2.2 Legittimazione passiva
L’amministratore può essere convenuto in giudizio per qualunque azione riguardante le parti comuni dell’edificio ed il medesimo è il destinatario dei provvedimenti dell’autorità amministrativa che si riferiscono allo stesso oggetto (art. 1131, co. 2).
Nel silenzio della norma si presume che se la questione rientra nell’ambito delle attribuzioni proprie dell’amministratore l’autorizzazione dell’assemblea non è necessaria.
La decisione delle Sezioni Unite della Cassazione a momenti richiamata, anche in una parte della sua motivazione, che riguarda proprio la posizione dell’amministratore come legittimato passivo non è stata considerata dal legislatore nella novella del 2012, mentre inserire nell’art. 1131 un elemento chiarificatore sarebbe stato sicuramente utile.
Il termine «parti comuni», richiamato dal comma 2 dell’art. 1131, è stato unanimemente interpretato da dottrina e giurisprudenza in maniera estensiva, ricomprendendosi in esso non solo elementi meramente e tipicamente materiali, ma anche tutte le situazioni obiettive che nascono e si sviluppano intorno alle parti comuni di un condominio.
Si veda sul punto quanto affermato dalla Corte di Cassazione secondo la quale nel concetto di parti comuni devono essere ricomprese «da un lato, tutte le parti materiali, comunque destinate all’uso dei condomini, anche se appartenenti in proprietà esclusiva ad un solo condomino o ad un terzo e sin’anche se ubicate all’esterno dello stabile condominiale e, dall’altro, tutti i vari rapporti giuridici che sorgono dall’esistenza delle dette parti comuni, attenendo all’organizzazione, all’amministrazione del condominio ed al regime dei servizi comuni». Da ciò consegue che «legittimazione passiva ad processum dell’amministratore ricorre ogni qualvolta sia in gioco l’interesse comune dei partecipanti alla comunione e, cioè, un interesse che costoro possono vantare solo in quanto tali, in antitesi con l’interesse individuale di un singolo condomino, ovvero di un terzo estraneo alla comunione» (Cass. 3366/1995).
Ed ancora nel concetto di parte comune deve essere ricompreso qualsiasi bene, anche se non condominiale, rispetto al quale venga in considerazione un interesse che i condomini vantino o ritengano di poter vantare in quanto tali (Cass. 2091/1982).
A titolo meramente esemplificativo l’amministratore del condominio è legittimato passivamente:
- a rappresentare processualmente l’ente nei giudizi relativi alla ripartizione delle spese per le cose ed i servizi comuni conseguenti alla contestazione della relativa delibera assembleare da parte del condomino dissenziente;
- all’azione di spoglio esperita da un terzo, in riferimento ad un terreno ubicato all’esterno dello stabile a fronte di lavori intrapresi dai condomini sullo stesso, in attuazione del loro interesse alla sistemazione dell’area verde vicina al suddetto edificio;
- alla domanda del condomino che abbia impugnato la delibera assembleare con la quale sia stata approvata la trasformazione dell’impianto di riscaldamento;
- all’azione del condomino che lamenti danni dall’occlusione di una colonna di scarico dello stabile;
- all’azione «negatoria o confessoria servitutis» tutte le volte in cui sorga controversia sull’esistenza di servitù prediali costituite a favore (o a carico) dello stabile condominiale nel suo complesso o di una parte di esso;
- all’azione per responsabilità extracontrattuale promossa dal conduttore dei locali dell’edificio che abbia sopportato danni a causa di infiltrazioni di acqua dal tetto dello stabile;
- alla domanda giudiziale avente per oggetto pretese creditorie dipendenti da rapporti di portierato.
3. La responsabilità dell’amministratore
Come più volte rilevato il rapporto tra l’amministratore ed il condominio è ufficialmente inquadrabile (art. 1129, penultimo comma) nell’ambito del mandato ed in forza di questo il legale rappresentante nella veste di mandatario, come sancito dall’art. 1710 c.c., «....è tenuto ad eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia; ma se il mandato è gratuito la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore».
L’amministratore, quindi, deve svolgere le attribuzioni conferitegli dalla legge, dal regolamento e dall’assemblea, con perizia, onestà e diligenza osservando non solo le norme del codice civile, ma anche le leggi speciali che riguardano il condominio, nonché ponendo in esecuzione i provvedimenti emessi dall’autorità giudiziaria, le ordinanze del sindaco e così via.
L’amministratore, quale mandatario, deve curare anche agli atti preparatori e strumentali, nonché quelli ulteriori e complementari rispetto alle incombenze legali (Cass. 2149/2000).
La responsabilità si ripartisce in civile (contrattuale ed extracontrattuale) e penale.
3.1 Responsabilità civile
E’ di tipo contrattuale la responsabilità che discende direttamente dalla violazione degli obblighi che derivano dal rapporto di mandato che sussiste tra il rappresentante e l’ente condominio.
Secondo la costante giurisprudenza la responsabilità personale dell’amministratore si configura nel momento in cui sia dimostrato che lo stesso, nell’esecuzione del mandato, ha operato con negligenza.
In questo senso si richiamano due decisioni della Corte di Cassazione:
- «Il condominio risponde, ai sensi dell’art. 2051 c.c., dei danni subiti da terzi estranei ed originati da parti comuni dell’edificio, mentre l’amministratore, in quanto tenuto a provvedere non solo alla gestione delle cose comuni, ma anche alla custodia delle stesse, è soggetto, ai sensi dell’art. 1218 c.c., solo all’azione di rivalsa eventualmente esercitata dal condominio per il recupero delle somme che esso abbia versato ai terzi danneggiati» (Cass. 17983/2014).
- «In tema di risarcimento danni per l’esecuzione di lavori su parti comuni di un edificio condominiale, poiché il condominio è un ente di gestione privo di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini, il condomino che ritenga di essere stato danneggiato da un’omessa vigilanza da parte del condominio nell’esecuzione dei lavori dovrà rivolgere la propria pretesa risarcitoria nei confronti dell’amministratore, in qualità di rappresentante del condominio, il quale, a sua volta, valuterà se agire in rivalsa contro l’amministratore stesso» (Cass. 20557/2014).
Quali le responsabilità in capo al rappresentante del condominio qualora i lavori condominiali da questi affidati in appalto ad una ditta siano poi risultati affetti da vizi o difformità?
In questo ambito assume rilevanza l’ipotesi in cui l’assemblea abbia espressamente incaricato l’amministratore di individuare l’impresa, piuttosto che individuarne una tra quelle proposte dai condomini.
Per la delicatezza di tale passaggio sarebbe consigliabile che l’amministratore, per una sua tutela preventiva, non accetti un incarico che si potrebbe rivelare per lui stesso fonte di notevoli rischi.
E’, infatti, evidente che l’esecuzione di un contratto di appalto per opere o servizi richiede una serie di adempimenti che, partendo dalla scelta della ditta appaltatrice, del direttore dei lavori e del responsabile della sicurezza, richiede la costante verifica della corretta realizzazione delle opere fino alla consegna delle stesse e d al loro collaudo.
L’individuazione dell’impresa è, sicuramente, il momento più delicato perché proprio dalla serietà di questa può dipendere la bontà degli interventi e la loro durata nel tempo.
Tale incombente richiede un esame accurato della ditta, delle sue capacità tecniche ed organizzative, delle sue caratteristiche di affidabilità – anche economica – e di sicurezza al fine di essere garantiti che la stessa sia perfettamente in regola con la normativa vigente.
In argomento è stato, infatti, affermato che sussiste la «responsabilità concorrente del condominio e dell’appaltatore, qualora il primo affidi l’incarico di esecuzione dei lavori di riparazione dell’immobile ad un imprenditore non affidabile per essere privo delle necessarie capacità tecniche e organizzative; non si preoccupi che il direttore dei lavori sia presente all’inizio dell’esecuzione delle opere e non controlli che siano poste in essere le misure minime di sicurezza» (Cass. 5133/1978).
Una responsabilità che, come detto, si potrebbe trasformare in responsabilità personale dell’amministratore ove questi si fosse adoperato in prima persona per reperire l’impresa appaltatrice.
Nel caso in esame si verrebbe a configurare una sorta di «culpa in eligendo», dalla quale ci si può liberare dimostrando un comportamento attento e rispettoso nei confronti degli interessi del condominio.
L’effetto di una incauta scelta della ditta appaltatrice è di norma la cattiva esecuzione dei lavori condominiali.
Citiamo a questo proposito una interessante pronuncia dei giudici di merito i quali, con una decisione di cui non risultano esservi precedenti, hanno affermato che «in tema di ricostruzione di edificio condominiale, nessuna responsabilità può attribuirsi all’amministratore per presunte difformità dell’opera realizzata rispetto al progetto approvato, quando i poteri di rappresentanza del medesimo riguardino specificamente l’esazione dei contributi per la ricostruzione, l’individuazione dell’impresa appaltatrice, la stipula del contratto di appalto nonché il materiale pagamento delle somme all’appaltatore (nel caso di specie un condomino aveva lamentato la diminuzione di cubatura e superficie e la diversa ubicazione dell’unità immobiliare esclusiva ricostruita rispetto a quella preesistente la demolizione); eventuali difformità dell’opera realizzata vanno invece imputate all’impresa appaltatrice, giusta la previsione dell’art. 1667 c.c.» (Trib. Ariano Irpino, 23 agosto 2004. Arch. loc., 2005, 200). Nella fattispecie era stato nominato un consiglio di amministrazione con poteri tassativi e del tutto estranei al profilo tecnico ed alla realizzazione del progetto approvato nel corso dell’assemblea.
Sotto il diverso profilo della culpa in vigilando si è espressa la Corte di Cassazione la quale ha affermato il seguente principio:
«L’amministratore del condominio ha il compito di provvedere non solo alla gestione delle cose comuni, ma anche alla custodia di esse, col conseguente obbligo di vigilare affinché non rechino danni a terzi od agli stessi condòmini. Quest’obbligo non viene meno neanche nell’ipotesi in cui il condominio appalti a terzi lavori riguardanti le parti comuni dell’edificio condominiale, a meno che il compito di vigilare su tali lavori non venga affidato a persona diversa dall’amministratore. Ne consegue che l’amministratore stesso è responsabile del danno alla persona patito da uno dei condòmini, in conseguenza dell’inciampo in una insidia (nella specie, buca nel cortile condominiale) creata dall’impresa cui erano stati appaltati lavori di manutenzione dell’immobile condominiale» (Cass. 25251/2008).
Altra questione affrontata dalla giurisprudenza ha riguardato l’individuazione del soggetto responsabile nel caso in cui, nel corso di lavori condominiali, all’interno di abitazioni private siano stati commessi furti causati dalla presenza di ponteggi esterni.
In tale eventualità vi è stata una tendenza a ritenere che l’appaltatore debba rispondere dei danni subiti da terzi ai sensi dell’art. 2043 c.c. se, «trascurando le più elementari norme di diligenza e perizia e così la doverosa adozione di cautele idonee ad impedire l’uso anomalo delle dette impalcature e violando il principio del neminem laedere, abbia colposamente creato un agevole accesso ai ladri, ponendo in essere le condizioni del verificarsi del danno» (Cass. 2844/2005).
Successivamente sempre la Corte si è espressa in modo più estensivo, affermando che «in tema di furto consumato da persona introdotta in un appartamento avvalendosi dei ponteggi installati per i lavori di rifacimento della facciata dell’edificio condominiale, deve essere affermata la responsabilità, ai sensi dell’art. 2043 c.c., dell’imprenditore che per tali lavori si avvale dei ponteggi ove, violando il principio del neminem laedere, egli abbia collocato tali impalcature omettendo di dotarle di cautele atte ad impedirne l’uso anomalo (nel caso di specie vi era la mancanza di luci esterne e di alcuna struttura di sicurezza per l’inviolabilità degli appartamenti); è altresì configurabile una corresponsabilità del condominio/committente ex art. 2051 c.c., atteso l’obbligo di vigilanza e custodia gravante sul soggetto che ha disposto il mantenimento della struttura» (Cass. 6435/2009).
Sicuramente l’appaltatore deve custodire e vigilare che l’impianto posto in essere sia operativo ed efficace per tutta la durata delle opere.
La responsabilità extracontrattuale può ravvisarsi nel rapporto tra l’amministratore e terzi estranei al condominio, ma anche nei confronti del singolo condomino che subisca danni derivati dalla cosa comune.
La Corte di Cassazione ha, infatti, ritenuto che il condominio e l’amministratore dovessero rispondere in solido dei danni occorsi al condomino “in conseguenza dell’inciampo in una insidia all’interno del cortile condominiale” (Cass. n. 25251 cit.).
La responsabilità extracontrattuale dell’amministratore può sussistere anche nei confronti dell’inquilino.
Pur non avendo alcun dovere contrattuale verso l'inquilino, derivando i propri obblighi di mandatario dall’art. 1130 c.c. è evidente che, l’omessa riparazione, per esempio di un impianto comune, danneggerà anche il detto conduttore e, pertanto, sussisterà a carico dell’amministratore, una responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.
Ancora, la Corte Suprema ha ravvisato la responsabilità aquiliana di un amministratore di condominio il quale, in presenza nel complesso condominiale di scritte offensive di un terzo e, quindi di un fatto che integra un reato, non aveva provveduto, una volta sollecitato dalla parte lesa, all’eliminazione delle stesse, evitando in tal modo che il reato fosse portato a ulteriori conseguenze (Cass. 9055/2002).
La responsabilità extracontrattuale del condominio può essere alternativa o concorrente rispetto a quella dell’amministratore.
Il condominio può infatti ritenersi responsabile nei confronti dei terzi per i danni che sono conseguenza del fatto illecito dell’amministratore ai sensi dell’art. 2049 Codice Civile, a mente del quale i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici o commessi nell’esecuzione delle incombenze a cui sono adibiti.
3.2 Responsabilità penale
3.2.1. Premessa
Come già accennato può configurarsi in capo all’amministratore anche una responsabilità penale tutte le volte in cui questi, nello svolgimento della propria attività, commetta un illecito che si ricolleghi ad una fattispecie di reato.
L’ordinamento penale distingue, ai fini della comminatoria della pena, i reati in delitti e contravvenzioni. I primi sono sanzionati con la reclusione e con la multa, le contravvenzioni sono sanzionate con l’arresto e con l’ammenda.
Talune fattispecie di rilievo, per ciò che attiene la responsabilità dell’amministratore di condominio, originariamente integranti reati contravvenzionali per la più di bassa intensità offensiva, sono state oggetto di depenalizzazione con provvedimenti legislativi succedutisi nel tempo, ed assoggettate, di conseguenza, a una sanzione di natura amministrativa di carattere pecuniario.
Al di fuori dell’area della depenalizzazione rimangono oggetto di necessaria analisi quelle fattispecie delittuose, previste in particolare dal codice penale, che possono coinvolgere la responsabilità di un’amministrazione di condominio anche in ragione della sempre maggiore complessità tecnica di tale attività professionale.
In questo ambito assume rilievo, in particolare la previsioni di reati omissivi come anche la forma di manifestazione colposa di essi. In generale i reati si articolano sulla base della ricorrenza, nella fattispecie, di un elemento di carattere oggettivo e di un requisito di valenza soggettiva.
L’ elemento di carattere oggettivo si esplicita in una condotta, attiva o omissiva, rilevante a seconda dei casi, in sé, oppure in quanto essa sia idonea alla produzione di un evento lesivo.
Nel primo caso si avrà una forma di reato definita “di mera condotta” mentre nel secondo caso si avrà un reato cosiddetto “di evento” produttivo di una conseguenza visibile nel mondo naturalistico.
Sul piano soggettivo la condotta può essere dolosa, quando vi sia previsione e volontà di un evento o colposa quando l’evento lesivo non voluto sia prevedibile, evitabile e si verifichi come conseguenza di imprudenza, negligenza, imperizia (casi di colpa generica) o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (casi di colpa specifica).
I delitti sono puniti a titolo di dolo salvo i casi di delitto colposo o preterintenzionale espressamente previsti dalla legge mentre le contravvenzioni sono punite indifferentemente a titolo di dolo o di colpa.
Il sistema penale distingue poi reati cosiddetti “comuni” che possono essere posti in essere da qualunque soggetto dell’ordinamento e fattispecie denominate “proprie” caratterizzate dalla ricorrenza necessaria di una particolare qualità del soggetto attivo.
Sotto il profilo della responsabilità penale dell’amministratore di condominio, possono verificarsi, nella clinica giurisprudenziale, ipotesi del primo tipo di reati comuni, tra i quali si può menzionare la diffamazione o l’appropriazione indebita, come anche condotte del secondo genere, poste in essere da un “soggetto attivo delimitato” e definite pertanto fattispecie proprie.
Tra le fattispecie di reato proprie assumono valore rilevante quelle previste in materia di igiene e sicurezza del lavoro sotto il profilo dell’assoggettamento dell’amministratore condominiale a responsabilità penale nella sua qualità di garante della sicurezza relativa all’organizzazione dell’ente di gestione da lui amministrato.
3.2.2. Fattispecie penalmente rilevanti
- Omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina
Si tratta di una fattispecie, di reato proprio, come si è appena osservato, disciplinata dal codice penale nel libro terzo, “delle contravvenzioni di polizia”, alla sezione seconda, “contravvenzioni concernenti la pubblica incolumità”, nel capo primo intitolato: “contravvenzioni concernenti l’incolumità delle persone nei luoghi di pubblico transito o nelle abitazioni”.
La disposizione legislativa si articola in tre capoversi, distinti secondo un’intensità crescente di pericolosità della condotta omissiva.
Nella fattispecie di cui al primo capoverso, l’omissione consiste nel non compiere i lavori che sono necessari per rimuovere il pericolo di rovina dell’edificio, mentre nel secondo comma la rilevanza dell’omissione assume un peso decisivo in relazione all’obbligo di rimuovere il pericolo causato dall’avvenuta rovina di un edificio o di una costruzione.
Il grado di massima pericolosità sociale della condotta, come previsto nella disposizione legislativa, è configurato nel terzo comma dell’art. 677 c.p. ove si prevede il caso in cui si verifichi un pericolo per le persone a seguito dei fatti omissivi appena menzionati.
I primi due capoversi dell’art. 677 sono stati depenalizzati con il decreto legislativo 30 dicembre 1999, per cui, a prescindere dal verificarsi della situazione di pericolo per pubblica incolumità, alle fattispecie ivi contemplate è applicata una sanzione pecuniaria di tipo amministrativo e non penale, mentre l’ipotesi di cui al comma terzo, incentrata sul pericolo di danni alle persone, è punita con l’irrogazione di una sanzione di carattere penale.
Si tratta di una fattispecie rientrante nella categoria dei reati omissivi posti in essere da chi, essendo proprietario di un edificio o di una costruzione, o da chi è nella posizione di soggetto obbligato alla conservazione e vigilanza della struttura edificata, non effettui i lavori necessari di manutenzione e conservazione, ponendo in essere una minaccia di rovina, avente carattere di pericolosità diffuso per il bene della vita o dell’altrui integrità personale.
La giurisprudenza, per consolidato orientamento, ha affermato come vi sia una posizione di garanzia dell’amministratore di condominio, tenuto, in quanto tale, ad effettuare i necessari lavori di rimozione del pericolo derivante da minaccia di rovina e più in generale al dovere di effettuare lavori di manutenzione straordinaria che rivestano carattere di urgenza con specifico obbligo di riferirne ai condomini nella prima assemblea ai sensi dell’art. 1135 co. 2, c.c. (Cass. pen. 9027/2003).
La pena edittale prevista è data in via alternativa dall’arresto fino a sei mesi o dell’ammenda non superiore ad euro 309,00.
Nel quadro della predisposizione di strumenti idonei a deflazionare il contenzioso penale favorendo una rapida definizione di procedimenti di gravità minore, l’art. 162 bis c. p. dispone come nelle contravvenzioni per le quali la legge stabilisce la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, il contravventore può essere ammesso a pagare, prima dell’apertura del dibattimento o prima dell’emissione del decreto di condanna una somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa oltre le spese del procedimento.
Il pagamento estingue il reato ma il Giudice può tuttavia respingere tale domanda di oblazione in relazione alla gravità del fatto.
Sotto quest’ultimo profilo ha, quindi, rilievo, rispetto alla possibile oblazione, il grado di intensità del pericolo, la tempestività dell’intervento e la predisposizione da parte dell’amministratore di strumenti tecnico scientifici idonei a eliminare o almeno contenere il più possibile la situazione di pericolo.
- Lesioni colpose ed omicidio colposo
Ipotizzando una progressione naturale negli eventi, ove non si intervenga nell’immediato, la minaccia di rovina strutturale di un edificio, appena descritta nei connotati essenziali, potrebbe transitare dal pericolo alla effettiva lesione personale o alla morte di uno o più individui.
Si entrerebbe, così, nell’ambito operativo degli artt. 589 (omicidio colposo) e 590 (lesioni personali colpose) che riguardano comportamenti omissivi commessi dall’amministratore il quale, ad esempio, non abbia provveduto ad adeguare gli impianti condominiali alle misure di sicurezza prescritte o, più in generale, non abbia osservatogli obblighi, previsti dall’articolo 1139 n. 4 c.c. relativi alla gestione, conservazione e manutenzione delle parti comuni del condominio.
In proposito il Giudice di legittimità, in relazione ai danni provocati a terzi od ai condomini da violazione degli obblighi di garanzia e protezione ha delineato, con pronunce successive ed ormai consolidate nel tempo, il contenuto ed i limiti dei doveri dell’amministratore di condominio.
Infatti ai sensi dell’art. 40 co. 2, c.p. “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”, ed in virtù di tale norma sull’amministratore del condominio, che riveste una specifica posizione di garanzia, «ricade l'obbligo di rimuovere ogni situazione di pericolo che discenda dalla rovina di parti comuni, attraverso atti di manutenzione ordinaria e straordinaria, predisponendo, nei tempi necessari alla loro concreta realizzazione, le cautele più idonee a prevenire la specifica situazione di pericolo. (Fattispecie nella quale l'imputato, amministratore di condominio, è stato ritenuto responsabile delle lesioni colpose provocate ad un passante dalle mattonelle staccatesi dalla facciata dell'immobile)» (Cass. pen. 46385/2015). Grava sull’amministratore il dovere di attivarsi per evitare danni ai terzi in quei casi tristemente tipici del distacco di cornicioni o intonaco o di “pericolosità” delle scale, degli impianti elettrici come delle cose comuni in genere.
L’obbligo di attivarsi non è subordinato alla preventiva deliberazione assembleare ovvero ad apposita segnalazione di pericolo tale da rendere opportuno, se non necessario, un intervento di urgenza (Cass. 34147/2012).
In tale ambito l’intervento urgente dell’amministratore non sarà ripristinatorio ma avrà la natura di azione di “contenimento del pericolo”, ad esempio attraverso la segnalazione di esso con transennamento o speciale illuminazione o anche attraverso la rimozione di elementi immediatamente pericolosi per la salute pubblica.
La lesione colposa, in particolare, produce una malattia ed è qualificata lieve, grave o gravissima in base al crescente grado di intensità della malattia stessa: nella lesione di lieve intensità la malattia ha una durata inferiore ai 20 giorni mentre la malattia è permanente nella lesione gravissima, ove si configura una danno insanabile consistente nella perdita di un arto o di un organo.
La lesione colposa è sanzionata nella forma lieve con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino ad euro 309,00, la sanzione penale è aumentata fino alla reclusione da uno a sei mesi o la multa da 123,00 a 619,00 euro per la lesione grave e con la reclusione da tre mesi fino a due anni o con la multa da 500,00 a 2000,00 euro per la lesione gravissima.
E’ previsto un ulteriore aumento di pena nel caso di violazione di norme sulla prevenzione di infortuni sul lavoro o di lesioni personali che coinvolgano più persone come soggetti offesi dal reato.
Si tratta di un delitto perseguibile a querela della persona offesa salvo procedibilità di ufficio nel caso di violazione della normativa inerente la prevenzione degli infortuni sul lavoro.
- Ingiuria e diffamazione
L’ingiuria consiste nell’offesa all’onore o al decoro di una persona presente, sanzionato in maniera più afflittiva nel caso in cui l’espressione offensiva consista nell’attribuzione di un fatto determinato o sia proferita in presenza di più persone.
Integra la fattispecie, secondo la giurisprudenza, anche l’invio a soggetti diversi dalla persona offesa di una mail contenente espressioni offensive con la consapevolezza che essa sarebbe comunicata al soggetto offeso (Cass. pen. 24325/2015).
I D.Lgv. nn. 7 ed 8del 15 gennaio 2016, emanati a seguito della legge delega n. 67 del 28 aprile 2014 hanno depenalizzato una serie di reati, trasformandoli in altrettanti illeciti civili, soggetti a sanzioni pecuniarie.
Il reato di ingiuria, disciplinato in passato dall’art. 594 c.p. è stato così abrogato dall’art. 1 del D.Lgvo n. 7 ed è punibile con una sanzione, anche rateizzabile, di entità variabile in ragione della gravità della violazione; della reiterazione dell’illecito; delle condizioni economiche dell’agente; del comportamento dell’agente per eliminare o attenuare le conseguenze dell’illecito.
La diffamazione (art. 595 c.p.) è un delitto che lede l’onore o il decoro di una persona e che trova articolazione nella condotta di chi offende la reputazione altrui comunicando con più persone in assenza della persona offesa. Oltre alla forma semplice è prevista, anche qui, un‘ ipotesi aggravata nel caso in cui l’offesa consista nell’attribuzione di un fatto determinato.
Per costante orientamento della Cassazione l’amministratore di condominio incorre in responsabilità penale per diffamazione qualora, anche nel caso tipico di imminente distacco delle forniture d’opera necessarie alla vita condominiale, renda noti i nominativi dei condomini morosi tramite mezzi accessibili ad una pluralità di persone, anche estranee alla compagine condominiale (Cass. pen. 4364/2012. Nella fattispecie l’amministratore aveva affisso nell’atrio dell’edificio il nominativo di alcuni condomini morosi).
Il Supremo Collegio, peraltro, ha osservato come l’amministratore, nell’esercizio della propria attività gestionale, qualora sia motivato dall’esigenza di evitare un evento grave, quale l’interruzione di un servizio, possa anche utilizzare modalità comunicative, potenzialmente accessibili a terzi estranei al condominio, come l’affissione di informazioni nell’androne comune o nelle apposite bacheche destinate alle comunicazioni ai condomini, ma a condizione che tale avviso non indichi i nomi dei soggetti inadempienti.
Sono ovviamente rilevanti i casi di espressioni lesive dell’altrui onore pronunciate in assemblea o eventualmente pubblicate nel sito internet condominiale o in altro modo accessibili anche a terzi per cui l’amministratore di condominio risponde del delitto di ingiuria o diffamazione.
- Appropriazione indebita
L’ appropriazione indebita è un delitto contro il patrimonio che si articola nella condotta di chi si appropria del denaro o della cosa mobile altrui di cui abbia il possesso al fine di procurare a sè o ad altri un profitto ingiusto.
Così risponderà di tale reato l’amministratore di condominio, tenuto ai sensi dell’art. 1130 n.4 c.c. a riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell'edificio e per l'esercizio dei servizi comuni, nel caso in cui si verifichi un ammanco di cassa, anche di esigua entità, (Cass. pen. 36022/2012) o nel caso in cui le risorse patrimoniali non vengano utilizzate per le finalità tipiche della realtà organizzativa condominiale.
Ciò avviene nel caso di mancato versamento degli oneri contributivi condominiali quando essi vengano utilizzati, attraverso l’appropriazione, per finalità estranee alla gestione ed amministrazione della cosa comune.
Ai fini della configurabilità del delitto in questione occorre, sul versante del dato volontaristico, il dolo cosiddetto specifico, che si identifica nella volontà di realizzare un profitto ingiusto.
Prima della riforma del 2012 la mancanza di specifiche e coerenti indicazioni legislative circa la necessità di far transitare le somme di spettanza dell’ente condominio su di un apposito conto corrente, portava ad una possibile confusione tra il patrimonio dell’amministratore e quello del singolo condominio, come anche tra le risorse dei vari condomini gestiti dallo stesso amministratore.
Il vuoto legislativo, ora colmato dal novellato art. 1129 c.c. che, da un lato, obbliga l’amministratore a fare transitare su di un apposito conto corrente bancario o postale, intestato al condominio, tutte le somme di pertinenza del condominio e, dall’altro, consente un costante controllo da parte dei condomini sulla gestione finanziaria del condominio, favoriva – senza ombra di dubbio - la mancanza di trasparenza nell’operato dell’amministratore.
Secondo la giurisprudenza di merito «l’ingiustificato trattenimento - pur a fronte di esplicita richiesta - della documentazione relativa al condominio da parte dell’amministratore cessato in carica e la necessità dell’uso della polizia giudiziaria per il recupero, dimostrano l’intenzione soggettiva di interversione del possesso e configurano un’ipotesi aggravata di appropriazione indebita, in relazione alla quale l’amministratore subentrato è legittimato a costituirsi parte civile nel processo penale, senza necessità di essere autorizzato dall’assemblea» (Trib. Roma 20 luglio 2007 in Arch. Locazioni, 2008, 278).
La condanna definitiva di un amministratore per violazione dell’art. 2, 1º e 1º comma bis, l. n. 638/83 (omesso versamento di ritenute previdenziali ed assistenziali), reati costituenti un’ipotesi speciale di appropriazione indebita, rappresenta - alla luce della novella introdotta dalla l. n. 220/2012, introduttiva dell’art. 71 bis disp. att. c.c. - una causa ostativa allo svolgimento dell’incarico di amministratore condominiale.
Quanto alle “forme di manifestazione del delitto”, si può osservare, come al modo “semplice” di manifestazione, sanzionato con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino ad euro 1032,00, possano affiancarsi ipotesi sia aggravate che attenuate.
Le ipotesi concernenti le aggravanti comuni di più frequente rilievo applicativo, determinanti un aumento di pena edittale fino ad un terzo, sono quelle previste dall’art. 61 ai numeri 7 e 11 c. p. La prima di esse si identifica nell’aver cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante entità (Trib. Roma 12910/2004), mentre la seconda concerne un fatto di appropriazione indebita commesso con abuso di prestazione d’opera. (Cass. pen. 3462/ 2005).
Quanto alle circostanze attenuanti, determinanti una diminuzione di pena fino ad un terzo, ricorrono eventualmente quelle previste dall’art. 62 c.p. ai numeri 4 e 6.
L’attenuante di cui al n. 4 consiste nell’aver: “nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal reato un danno di speciale tenuità, ovvero, nei delitti determinati da motivi di lucro, l’aver agito per conseguire o l’aver comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l’evento dannoso sia di speciale tenuità.”
L’attenuante di cui al numero 6 consiste nell’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno mediante il risarcimento di esso e, quando sia possibile, mediante le restituzioni, o nell’essersi spontaneamente ed efficacemente adoperato per elidere o attenuare le conseguenze dannose del reato.
L’appropriazione indebita è perseguibile a querela di parte nella forma semplice e di ufficio nella forma aggravata di cui all’art. 61 n. 11 già menzionato.
Per esso è previsto l’arresto facoltativo in flagranza e la comminatoria di misure coercitive ed è assoggettato alla competenza del tribunale monocratico.
- Inosservanza dei provvedimenti della pubblica autorità
La norma richiamata contempla una contravvenzione applicabile all’amministratore che abbia omesso di dare corso ad un provvedimento, avente ad oggetto opere od attività da eseguire sulle parti comuni dell’edificio condominiale ed emesso dall’autorità per ragioni di sicurezza pubblica o di igiene.
In giurisprudenza si è osservato come non costituisca reato il fatto dell’inottemperanza dell’amministratore all’ordine del sindaco, emesso nell’interesse di un unico condomino, avente ad oggetto la predisposizione delle necessarie misure tecniche idonee ad attenuare il rumore di un impianto di riscaldamento (Cass. pen. 3510/1986).
Costituisce invece reato l’inosservanza dell’ordine del sindaco avente ad oggetto l’opera di predisposizione di transenne attorno al perimetro di un edificio per ragioni di sicurezza (Cass. pen. 5451/1995).
La sanzione prevista è data dall’arresto fino a tre mesi o dall’ammenda fino ad euro 206,00.
3.2.3 Osservanza di norme speciali concernenti le parti comuni
Va da ultimo rilevato che nel corso degli anni il legislatore ha emanato una nutrita serie di provvedimenti normativi il cui obiettivo era ed è quello di garantire la sicurezza degli edifici, dei soggetti che vi abitano, o che vi lavorano e, comunque, di tutti coloro che vi hanno accesso. Parimenti è stata dedicata particolare attenzione soggetti che sono alle dirette dipendenze del condominio.
Si tratta di una legislazione sempre in divenire, poiché muta con il cambiamento e con l’avanzare della tecnologia che sempre di più si impadronisce anche della sfera condominiale e che deve, in ogni caso, rispettare ed integrarsi con le direttive europee di settore.
La presenza in tutte le discipline applicabili al condominio di norme sanzionatorie significa che l’amministratore, là dove si trovi in presenza di disposizioni coercitive deve intervenire senza dover richiedere assensi assembleari. Eventuali danni a cose e persone conseguenza di omissioni da parte dell’amministratore lo renderanno penalmente responsabile.
La legislazione di riferimento, a mero titolo esemplificativo, concerne:
- l’eliminazione e smaltimento delle parti comuni (tetti e canne fumarie) costituite da amianto come previsto dalla legge base n. 257/1992 come integrato dal D.Lgvo n. 81/2008;
- l’installazione, la conduzione e la manutenzione (ordinaria e straordinaria) degli impianti di risalita a far data dal D.P.R. n. 162/1999 e successive modifiche;
- il rispetto della normativa anti-incendi, con particolare riferimento alle norme di sicurezza per la costruzione e l’esercizio di autorimesse condominiali;
- le disposizioni preordinate a garantire la regolarità degli impianti elettrici a partire dalla legge n. 46/1990 e successive modifiche ed integrazioni;
- gli impianti centralizzati di riscaldamento ed il loro adeguamento alla legge sulla contabilizzazione del calore che, salvo proroghe dell’ultimo minuto, scatterà il 31 dicembre 2016;
- la sicurezza sul lavoro per i dipendenti subordinati del condominio e per lavoratori cui il condominio appalta lavori di manutenzione o di ristrutturazione dello stabile: D.Lgvo n. 626/2004, n. 494 /1996 e n. 528/1999 – sostituiti dal D.Lgvo n. 81/2008;
- la tutela delle acque: Legge 10 maggio 1976 n. 319 sostituita dal Decreto Legislativo 3 aprile 2006 n. 152
- la normativa in materia di piscine: Intesa Stato-Regioni del 17 febbraio 1992 e successiva rivisitazione del 16 gennaio 2003 avente ad oggetto la disciplina inerente agli aspetti igienico sanitari delle piscine anche condominiali; D. Lgvo n. 25/ 2002 inerente alla sicurezza sul lavoro allorchè siano utilizzate sostanze chimiche pericolose – sostituito dal D. Lgvo n. 81/2008.
CAPITOLO SETTIMO –
L’ASSEMBLEA
Introduzione
Mentre l’amministratore è l’organo esecutivo dell’ente condominiale, necessario a realizzarne la volontà, l’assemblea ne costituisce l’organo collegiale e deliberante, le cui attribuzioni sono fissate non solo dall’art.1135 c.c. ma da tutte le altre norme che disciplinano il condominio e che ad essa fanno riferimento.
Secondo la giurisprudenza l’assemblea è l’organo supremo del condominio, costituito per la rappresentanza degli interessi della comunione (Cass. 2985/69), ovvero la sede in cui si forma la volontà del condominio (Cass. 3243/76) mediante l’adozione di delibere assembleari vincolanti per tutti i partecipanti al condominio, anche se assenti dissenzienti o astenuti.
1. Le attribuzioni dell’assemblea
La disposizione, parzialmente modificata rispetto al testo previgente, inizia precisando che, negli “articoli precedenti”, all’assemblea sono affidati gli specifici compiti deliberativi che qui si sintetizzano:
- Modificazioni delle destinazioni d’uso (art. 1117-ter)
- Tutela delle destinazioni d’uso (art. 1117-quater)
- Divisione di parti comuni (art. 1119)
- Innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni (art. 1120, co. 1), nonché tutte le innovazioni che sono sostanzialmente collegate alla legislazione speciale in materia di condominio come meglio specificate nel comma 2 dello stesso articolo
- Installazione di impianti individuali di ricezione radio TV e di produzione di energia da fonti rinnovabili con modificazione delle parti comuni (art. 1122-bis)
- Installazione di impianti di video sorveglianza su parti comuni (art. 1122-ter)
- Ricostruzione edificio in caso di perimento parziale (art. 1128, co. 2)
- Nomina e revoca amministratore quando i condomini sono più di otto (art. 1129, co. 1 e 2)
- Nomina del revisore dei conti (art. 1130-bis)
- Nomina del consiglio di condominio (art. 1130-bis)
- Conferimento di maggiori poteri all'amministratore per la promozione di controversie giudiziarie (art. 1131, co. 1)
- Ricorsi presentati all’assemblea dai condomini dissenzienti, contro i provvedimenti presi dall’amministratore (art. 1133).
Con riferimento ai compiti dell’assemblea fissati dall’art. 1135, rimasti invariati quelli concernenti la conferma dell’amministratore e l’eventuale retribuzione, nonché l’approvazione di preventivo e consuntivo annuale (nn. 1, 2 e 3), le novità introdotte con la riforma sono essenzialmente due:
a) l’obbligatorietà della costituzione di un fondo speciale nel caso di lavori di manutenzione straordinaria o di innovazioni (n. 4).
Nella prima versione del disposto legislativo il fondo avrebbe dovuto coprire integralmente l’importo dei lavori, ma quasi subito il legislatore doveva prendere atto della obiettiva difficoltà per i condomini di anticipare somme spesso molto rilevanti.
Questo portava alla modifica (art. 9 D.L. n. 145/2013 convertito con modifiche dalla Legge n. 9/2014) del testo normativo nel senso che, per i lavori eseguiti in base ad un contratto che ne prevede il pagamento graduale in funzione del loro progressivo stato di avanzamento, il fondo deve essere determinato in relazione ai singoli pagamenti dovuti, ovvero ai vari stati di avanzamento lavori.
Il versamento delle quote da parte dei condomini prima dell’inizio dei lavori consentirà all’amministratore di poter sottoscrivere, in tutta tranquillità, il contratto di appalto, evitando in futuro di dover ricorrere allo strumento ingiuntivo per recuperare le somme dai morosi.
b) il potere dell’assemblea di autorizzare l’amministratore a partecipare e collaborare a progetti, programmi e iniziative territoriali, finalizzate al recupero del patrimonio esistente e promosse dalle istituzioni locali, quando nel condominio sia necessario effettuare opere di riqualificazione e risanamento di portata tale da richiedere un coordinamento con gli strumenti urbanistici locali (art. cit. co. 2).
Nelle competenze dell’assemblea rientrano, peraltro, anche quelle previste da disposizioni successive all’art.1135 c. c. o contenute nelle disposizioni di attuazione quali:
- Approvazione ed impugnazione del regolamento di condominio (art. 1138, co. 2)
- Scioglimento del condominio (art. 61 disp. att. c.c.)
- Incarico all’amministratore per attivare un sito Internet che consenta ai condomini la consultazione dei dati condominiali (art. 71-ter disp. att. c.c.)
- Incarico all’amministratore per la mediazione (art. 71-quater)
I poteri dell’assemblea sono ristretti alla gestione delle cose comuni, talché le delibere non possono invadere la sfera privata dei condomini, ferma restando la validità di quelle limitazioni attinenti alla proprietà esclusiva che siano state accettate e sottoscritte dagli stessi interessati, ovvero – come nel caso della nuova normativa – quando vi siano disposizioni che consentono di temperare la libertà dei singoli in ragione dell’interesse della collettività.
2. Convocazione dell’assemblea
Le modalità di convocazione dell’assemblea condominiale sono disciplinate dall’articolo 66 delle disposizioni di attuazione del codice civile che, inderogabilmente (come da art. 72 disp. att.), disciplina il contenuto e la forma dell’avviso di convocazione, i termini di preavviso ed i tempi dell’adunanza.
Soggetti legittimati a convocare l’assemblea
L’art. 66 disp. att. c.c., norma inderogabile ai sensi dell’art. 72, stabilisce che l’assemblea viene convocata, in via ordinaria, annualmente dall’amministratore per decidere sugli argomenti indicati nell’art. 1135 e, in via straordinaria, in caso di necessità o su richiesta di almeno due condomini che rappresentino almeno un sesto del valore dell’edificio.
Se l’amministratore, senza giustificato motivo, non fissa la data dell’assemblea entro dieci giorni dalla richiesta, la riunione potrà essere convocata direttamente dagli interessati (ivi co. 1).
In mancanza di amministratore le assemblee, sia ordinarie che straordinarie, possono convocarsi ad iniziativa di ciascun condomino (ivi co. 2).
Per quanto riguarda la necessità di convocazione rimessa alla valutazione dell’amministratore, la Suprema Corte (Cass. 16980/2005) ha ritenuto che questa debba essere intesa come opportunità, lasciando all’amministratore un margine di discrezionalità nel decidere se convocare o meno l’assemblea.
Si segnala che assemblea straordinaria e ordinaria sono identiche quanto a competenze, regole di costituzione, svolgimento e deliberazione (Cass. 3456/84).
La differenza risiede solo in ciò: l’assemblea ordinaria è quella che l’amministratore convoca annualmente per discutere e deliberare sulla materie di cui all’articolo 1135, mentre tutte le altre assemblee sono straordinarie.
Va ancora ricordato che secondo l’art. 1129, co. 12, c.c. l’omessa convocazione dell’assemblea ordinaria annuale da parte dell’amministratore, per l’approvazione del rendiconto condominiale, costituisce uno dei casi di grave irregolarità che possono portare alla revoca dell’amministratore.
Tale nuova previsione dovrebbe escludere, per un senso logico, che nel caso di inerzia dell’amministratore i condomini si sostituiscano ad esso procedendo essi stessi alla convocazione di un’assemblea straordinaria con all’ordine del giorno tale argomento, cosa che invece potrebbe essere fatta per altre problematiche, senza arrivare alla soluzione estrema di revocare l’amministratore.
Con la riforma del 2012 il singolo condomino può chiedere all’amministratore di convocare l’assemblea:
- per chiedere la cessazione di attività che incidano negativamente ed in modo sostanziale sulle destinazioni d’uso delle parti comuni (art. 1117 quater, co. 1, c.c.);
- allorchè la richiesta provenga da soggetto direttamente interessato all’adozione di deliberazioni c.d. di interesse sociale (art. 1120, co. 2, c.c.).
- nel caso di gravi irregolarità fiscali o di mancata apertura del conto corrente intestato al condominio per far cessare la violazione e revocare l’amministratore (art. 1129, co. 11) oppure
- quando l’amministratore perda i requisiti necessari per lo svolgimento del mandato e sia necessario nominarne uno nuovo (art. 71 bis, co. 4, disp.att.c.c.).
Destinatari dell’avviso di convocazione
In primo luogo diretti destinatari sono i condomini.
Se l’immobile è in comproprietà ed i coniugi sono conviventi è sufficiente inviare la convocazione ad uno solo di essi, vigendo nel caso in esame la presunzione di conoscenza della ricezione dell’avviso.
Qualora, invece, i coniugi comproprietari dell’appartamento siano giudizialmente separati, sarà cura degli stessi comunicare all’amministratore l’ulteriore indirizzo al quale egli deve trasmettere l’avviso. Indirizzo che deve risultare nel registro dell’anagrafe condominiale.
Più comproprietari di un unico immobile e residenti in differenti città, oppure in differenti indirizzi nell’ambito di una stesso luogo, devono essere convocati separatamente. Nei loro confronti, infatti, non vale il principio della presunzione.
L’articolo 1130 codice civile, primo comma, numero 6, ha previsto l’annotazione da parte dell’amministratore nel registro dell’anagrafe condominiale dei dati dei titolari di diritti reali di godimento, quindi anche dell’usufruttuario.
Ai sensi dell’articolo 67, quarto comma, disposizioni di attuazione codice civile l’usufruttuario esercita il diritto di voto negli affari che attengono all’ordinaria amministrazione ed al semplice godimento delle cose e dei servizi comuni, mentre ai sensi del settimo comma (come introdotto dalla riforma) nelle altre deliberazioni il diritto di voto spetta al proprietario, salvo il caso in cui l’usufruttuario intenda avvalersi del diritto di cui all’articolo 1006 codice civile (cioè eseguire a proprie spese riparazioni poste a carico del proprietario che questi rifiuta o ritarda di eseguire) o nel caso in cui si tratti di lavori ed opere ai sensi degli artt. 985 (miglioramenti) e 986 (addizioni) codice civile
In questi due casi è necessario convocare sia il nudo proprietario che l’usufruttuario.
Se l’immobile è stato locato il problema che si pone è se l’amministratore debba o meno convocare il conduttore, ovvero se tale onere – anche dopo la riforma sul condominio – ricada ancora sul proprietario, come ritenuto dalla precedente giurisprudenza in considerazione del fatto che l’inquilino è soggetto estraneo al condominio.
La riforma del 2012 sembrerebbe avere mutato tale orientamento.
In primo luogo va considerato l’art. 1136, penultimo comma, il quale stabilisce ora che l’assemblea non può deliberare se tutti gli “aventi diritto” (e non più solo i condomini, come in passato) non sono stati convocati.
Ugualmente l’art. 66 disp.att.c.c. dispone che la delibera assembleare è annullabile, ai sensi dell’art. 1137 c.c., in caso di tardiva, omessa o incompleta convocazione di tutti gli aventi diritto.
Da non trascurare, poi, che il conduttore, ai sensi dell’art. 10 della legge n. 392/1978, ha diritto di voto in luogo del proprietario quando si deliberi in ordine alle spese ed alle modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento.
In questo senso, quindi, il conduttore dovrebbe rientrare nella categoria degli aventi diritto ad essere convocati all’assemblea da parte dell’amministratore. Tutto ciò senza considerare che il conduttore, per le materie per le quali vota, può impugnare la relativa delibera assembleare.
3. L’avviso di convocazione
L’avviso di convocazione deve contenere specifica indicazione dell’ordine del giorno per consentire ai condomini una preventiva conoscenza di quanto verrà discusso e deliberato.
In tal modo il legislatore ha pienamente recepito l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale che, sull’argomento, ha costantemente riconosciuto la genericità dell’ordine del giorno come motivo valido di impugnativa
La voce “varie ed eventuali”, che compare alla fine degli argomenti all’ordine del giorno, si riferisce solo alle comunicazioni rese dall’amministratore e/o dai condomini a mero titolo informativo; alle richieste di chiarimenti oppure anche alle istanze di inserire la discussione di una determinata questione all’ordine del giorno della successiva assemblea.
Le varie ed eventuali non possono costituire oggetto di deliberazione.
Il termine di invio dell’avviso, già fissato in 5 giorni rispetto alla data della prima della riunione (e che per regolamento di condominio può essere reso più ampio, ma non inferiore) è rimasto inalterato, ma il legislatore ha specificato che la lettera di convocazione deve essere trasmessa tramite posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o raccomandata a mano.
Il termine va considerato a ritroso escludendo il giorno iniziale e calcolando quello finale (dies a quo non computatur in termine).
Il difetto di convocazione consente l’impugnativa della deliberazione.
Tale irregolarità, da valere nei confronti di tutti gli aventi diritto, si sostanzia nella omissione, tardività o incompletezza della convocazione che legittima dissenzienti o assenti, non ritualmente convocati, a ricorrere all’art. 1137 c.c.
Il legislatore ha, pertanto, sostanzialmente chiarito che l’avviso di convocazione deve avere quei requisiti di forma che garantiscano la sua ricezione, superando, così, il principio della libertà di forme in base al quale la giurisprudenza aveva affermato che la convocazione poteva essere fatta anche oralmente (Cass. 8449/2008).
Per quanto concerne l’invio della convocazione a mezzo posta raccomandata (meglio sarebbe, per completa tutela dell’amministratore, se con raccomandata a.r.) vale la regola secondo cui “qualora l’avviso di convocazione di assemblea condominiale sia stato inviato mediante lettera raccomandata, non consegnata per l’assenza del destinatario e di altra persona abilitata a riceverla, il momento in cui l’atto si reputa conosciuto coincide con il rilascio del relativo avviso di giacenza del plico presso il destinatario, e non già con il momento in cui successivamente l’atto viene consegnato” (Trib. Bologna 15/02/2009, in Arch. Loc.2009, 277).
Più di recente, inoltre, è stato dichiarato che “a fronte di un avviso di convocazione assembleare che, spedito a mezzo raccomandata, non sia stato consegnato al destinatario, sussiste l’onere del condominio di provare non solo la spedizione, ma anche che l’avviso di giacenza (adempimento che consente di acquisire conoscenza dell’invio della comunicazione e la conoscibilità del suo contenuto) sia stato immesso nella cassetta postale del destinatario” (Cass. [ord.], 13015/2015).
In via generale, comunque, essendo l’avviso un atto recettizio che produce i suoi effetti nel momento in cui perviene a conoscenza del destinatario, l’onere di provare che tutti i condomini sono stati tempestivamente convocati all’assemblea spetta al condominio (Cass. 5254/2011).
Per quanto concerne data, ora e luogo di svolgimento dell’assemblea è opportuno che l’amministratore consideri le esigenze di carattere generale, scegliendo orari non lavorativi che consentano la più ampia partecipazione alla riunione ed una sede adatta e raggiungibile dai condomini senza particolari difficoltà.
L’avviso deve essere sottoscritto dall’amministratore ovvero dai condomini quando l’assemblea sia stata convocata dagli stessi o da uno di essi.
La comunicazione deve essere effettuata all’indirizzo del destinatario, inteso come luogo che per collegamento ordinario (dimora o domicilio) o per la normale frequentazione (posto di lavoro), o per preventiva indicazione da parte dell’interessato, rientri nella sua sfera di controllo o dominio (Cass. 1998/10564).
Quando l’assemblea abbia ad oggetto la modifica delle destinazioni d’uso delle parti comuni, introdotte dall’art. 1117 ter c.c., sono state previste per la convocazione particolari modalità in aggiunta a quelle classiche che, ovviamente, permangono.
L’avviso di convocazione deve rimanere affisso per non meno di trenta giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati e deve pervenire ai destinatari (sempre tramite raccomandata o mezzi equipollenti) almeno 20 giorni prima della riunione.
In considerazione dell’importanza dell’argomento da deliberare l’avviso deve indicare, a pena di nullità, le parti comuni oggetto di modificazione e la nuova destinazione d’uso proposta.
4. Costituzione e svolgimento dell’assemblea
L’ articolo 1136 prevede una prima convocazione e poi una seconda se viene a mancare il quorum costitutivo della prima.
Se ciò si dovesse verificare anche nella seconda convocazione, si dovrà convocare nuovamente l’assemblea in prima e seconda convocazione con un nuovo avviso.
Il terzo comma dell’articolo prevede che l’assemblea in seconda chiamata deliberi in un giorno successivo a quello della prima e in ogni caso non oltre dieci giorni dalla medesima.
Tra le due adunanze deve intercorrere una giornata solare (come ribadito dal quarto comma dell’articolo 66 disposizioni di attuazione codice civile), ma non necessariamente 24 ore
La novità più rilevante è rappresentata dal fatto che l’amministratore, quando preveda che l’assemblea, per la particolarità e quantità di punti in discussione, non possa esaurire l’esame e la votazione di tutti gli argomenti, può fissare più riunioni consecutive con un unico avviso al fine di assicurare lo svolgimento dell’assemblea in termini brevi.
Ancora una volta il legislatore ha, dunque, recepito il costante orientamento di dottrina e giurisprudenza.
Quando l’esigenza di un rinvio ad altra data dovesse sorgere nella stessa riunione assembleare è stato ritenuto che la nuova data rappresenta una vera e propria prosecuzione della stessa assemblea. Sul punto la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1515 del 12 febbraio 1988, ha affermato che «allorquando un’assemblea condominiale operante in seconda convocazione sia rinviata per il prosieguo ad altra data sugli stessi argomenti all’ordine del giorno, con il debito accordo degli intervenuti e previo tempestivo avviso della data fissata a coloro che risultano assenti, tale assemblea non può considerarsi di prima convocazione (con l’obbligo delle relative maggioranze per le delibere) risultando soltanto la legittima continuazione dell’assemblea in seconda convocazione».
Il funzionamento dell’assemblea condominiale si basa sulla contestualità di due elementi: il numero dei partecipanti al condominio e la quota di comproprietà sui beni comuni attribuita in millesimi a ciascuna unità immobiliare.
Per potersi procedere allo svolgimento della riunione è necessario che l’assemblea si sia regolarmente costituita, ovvero che siano presenti (personalmente o per delega), secondo quanto stabilito dalla legge, un numero di condomini che rappresentino un certo numero di millesimi.
In assenza di uno di questi due elementi l’assemblea non può essere considerata regolare e, quindi, non può assumere decisioni.
Si parla, in questo caso, di quorum costitutivo (differente da quello deliberativo) che varia a seconda che l’assemblea si svolga in prima o in seconda convocazione.
La norma richiamata ha modificato le maggioranze necessarie per la valida costituzione dell’assemblea, diminuendo sia per la prima che per la seconda convocazione i rispettivi valori.
Nel primo caso, rimasta invariata la quota millesimale che è stata confermata nei due terzi del valore dell’edificio, è stata ridotta la parte concernente le cosiddette «teste», che sono state portate alla maggioranza dei partecipanti al condominio (nella versione precedente: due terzi).
Ciò potrebbe consentire, fino dal primo momento, il raggiungimento del quorum costitutivo e l’assemblea potrebbe avere luogo già in prima convocazione, ove fissata in giorni ed orari ragionevoli.
Per il quorum costitutivo per la seconda convocazione, considerato che il testo previgente nulla aveva disposto in merito, la legge n. 220/2012 ha eliminato qualsivoglia dubbio in merito prevedendo che sia pari a un terzo del valore dell’edificio ed un terzo dei partecipanti al condominio.
Una volta regolarmente costituita l’assemblea e prima di passare alla lettura dell’ordine del giorno ed alla discussione dei singoli punti vengono nominati il presidente ed il segretario.
Non vi è norma che preveda l’invalidità di una delibera per la mancanza di uno o di entrambi i soggetti (Cass. 5709/1987). Nella fattispecie, infatti, non si può parlare né di un vizio di formazione delle delibere né, tanto meno, di un difetto di convocazione della riunione assembleare ovvero di mancata o difettosa informazione degli aventi diritto a partecipare alla riunione medesima.
La sola disposizione che faceva riferimento al presidente, l’art. 67, comma 2, disp. att. c.c., delegato a sorteggiare l’avente diritto a partecipare all’assemblea nel caso di mancata designazione da parte dei comproprietari, è scomparsa dal nuovo testo.
Tuttavia, qualora il regolamento di condominio preveda espressamente la nomina del Presidente e del Segretario, la delibera deve ritenersi affetta da annullabilità in caso di mancata nomina degli stessi.
La funzione del presidente dell’assemblea è e resta quella di garantire l’ordinato svolgimento della riunione, previa verifica della regolare costituzione della stessa.
Egli, pertanto, guida la discussione assicurando, da un lato, la possibilità a tutti i partecipanti di esprimere la loro opinione sugli argomenti indicati nell’avviso di convocazione e curando, dall’altro, che gli interventi siano contenuti entro i limiti ragionevoli.
Il presidente, pur in mancanza di una espressa disposizione del regolamento condominiale che lo abiliti in tal senso, può stabilire la durata di ciascun intervento, purché la relativa misura sia tale da assicurare ad ogni condomino la possibilità di esprimere le proprie ragioni su tutti i punti in discussione (Cass. 24132/2009).
Egli, qualora fosse necessario, potrà procedere all’allontanamento dall’assemblea di eventuali terzi, ma non dei condomini o dei loro rappresentanti.
Al segretario è affidato il compito di redigere il verbale assembleare, trascrivendo quanto dettato dal presidente in forma concisa ma esaustiva.
Al termine della riunione (meglio se nel corso della medesima) è utile che il segretario dia lettura del verbale, in modo da consentire ai presenti di verificare direttamente la corrispondenza della verbalizzazione alle opinioni ed alle votazioni dei presenti.
5. Partecipazione personale o delegata all’adunanza assembleare
La norma, inderogabile ai sensi dell’art. 72, ha profondamente innovato la disciplina relativa alla rappresentanza in seno all’assemblea.
La delega, specificamente riferita alla singola “unità immobiliare” e non più al piano o porzione di piano” ed affidata al proprio rappresentante deve essere scritta (secondo la costante giurisprudenza, invece, poteva essere orale), può essere affidata a qualsivoglia soggetto scelto dal condomino ma non all’amministratore.
Per quanto concerne il numero delle deleghe, con la riforma è stata introdotta una importante novità, finalizzata ad evitare che il potere decisionale sia concentrato, tramite l’istituto in esame, nelle mani di pochi soggetti. E’ stabilito, infatti, che quando i condomini siano più di venti il delegato non può rappresentare più di un quinto dei condomini e del valore proporzionale.
Altra novità riguarda l’immobile in comunione: il rappresentante in assemblea è uno solo e deve essere designato direttamente dai comproprietari interessati secondo il disposto dell’art. 1106 e non più sorteggiato, tra essi, dal Presidente.
Nel silenzio della legge rimane valido il principio secondo cui il proprietario di più unità immobiliari non possa conferire a più soggetti tante deleghe quante siano le sue proprietà. Ciò in ragione del fatto che la qualità di condomino rimane unica ed indivisibile rispetto al numero degli immobili posseduti, per cui anche la delega non è frazionabile (Cass. 6671/1988).
Conferendo la delega il condomino può dare liberamente al proprio delegato indicazioni specifiche di voto onde evitare contestazioni tra le parti.
Il riconoscimento giuridico del supercondominio o condominio complesso (art. 1117bis) ha avuto effetti anche per la relativa rappresentanza in assemblea.
In base al comma 3 dell’art. 67, infatti, il legislatore si è preoccupato di garantire lo svolgimento delle assemblee nei casi in cui l’elevato numero di condomini potrebbe, in caso di ripetuto assenteismo, pregiudicare il regolare funzionamento dell’Ente.
La disposizione, che fa espressamente riferimento all’art. 1117bis, si applica sia nel caso in cui più edifici, che abbiano in comune parti e servizi comuni, siano gestite da un solo amministratore, sia nell’ipotesi in cui ciascun edificio che costituisce il condominio complesso sia amministrato da un soggetto differente rispetto a quello del supercondominio.
Quando i condomini sono più di sessanta ciascun condominio e/o edificio deve designare, con la maggioranza prevista dall’art. 1136, co. 5 (maggioranza degli intervenuti pari ai due terzi dei millesimi), il proprio rappresentante in seno all’assemblea che deliberi in tema di gestione ordinaria delle parti comuni e di nomina dell’amministratore.
In mancanza, ciascun partecipante al condominio potrà ricorrere all’autorità giudiziaria per ottenere la nomina del proprio rappresentante.
Se, invece, alcuni dei condominii non abbiano nominato il proprio rappresentante il ricorso dovrà essere presentato anche da uno solo dei rappresentanti già nominati, previa diffida a provvedervi entro congruo tempo.
Diffida e ricorso devono essere notificati al condominio cui si riferiscono in persona dell’amministratore o, in mancanza, a tutti i condomini.
I poteri del rappresentante di condominio e/o edificio, soggetto alle regole del mandato, non possono soffrire limiti o condizioni pena la nullità della nomina.
6. Validità delle delibere e maggioranze necessarie
Alla regolare costituzione dell’assemblea, disciplinata dai commi 1 e 3 dell’art. 1136, si associa la validità delle delibere che dipende dalla esistenza di più fattori tra i quali il regolare invio dell’avviso di convocazione a tutti i condomini ed il rispetto delle maggioranze di legge per l’approvazione delle delibere stesse.
Il c.d. quorum deliberativo, come avviene per quello costitutivo, è calcolato sul numero dei partecipanti al condominio e sul valore delle singole quote millesimali.
Accanto alle maggioranze espresse dall’art. 1136, come modificato dalla legge n. 220/2012, si pongono sia quelle previste specificatamente nell’ambito della stessa normativa del condominio, sia tutte le disposizioni contenute in quelle leggi speciali che, dalla fine degli anni ’80, hanno regolamentato temi attinenti al condominio e che, ora, sono state trasposte nel Codice Civile.
Per le deliberazioni da assumere in prima convocazione nulla è cambiato rispetto al passato (voti che rappresentano la maggioranza degli intervenuti, pari alla maggioranza dei partecipanti al condominio).
In seconda convocazione ora è necessario raggiungere un quorum pari alla maggioranza degli intervenuti ed un terzo delle quote millesimali (nel vecchio testo era previsto un terzo dei partecipanti al condominio ed un terzo del valore dell’edificio).
Utile tracciare un quadro riepilogativo delle maggioranze necessarie per approvare i vari tipi di delibere in relazione agli argomenti che ne formano l’oggetto.
Delibere da approvare ai sensi dell’art. 1136, comma 2: maggioranza degli intervenuti ed almeno metà dei valori millesimali:
- assemblea deliberante in prima convocazione;
- nomina e revoca dell’amministratore;
- conferimento all’amministratore del mandato relativo alle liti attive e passive che esorbitano dai limiti delle sue attribuzioni;
- autorizzazione all’amministratore ad effettuare la collaborazione prevista dall’art. 1135, comma 3;
- nomina del revisore dei conti (art. 1130-bis);
- attivazione da parte dell’amministratore, su richiesta dell’assemblea, di un sito Internet del condominio per il controllo della documentazione prevista dalla delibera assembleare (art. 71-ter disp. att. c.c.);
- autorizzazione all’amministratore a partecipare alla mediazione (art. 71-quater disp. att.);
- approvazione del regolamento del condominio;
- ricostruzione dell’edificio o riparazioni straordinarie di notevole entità;
- tutela delle destinazioni d’uso dell’edificio (art. 1117-quater);
- tutte le innovazioni introdotte dal comma 2 dell’art. 1120 (miglioramento della sicurezza e salubrità dello stabile, eliminazione delle barriere architettoniche; interventi finalizzati al contenimento del consumo energetico, alla produzione di energia tramite fonti alternative, alla realizzazione dei parcheggi a servizio delle unità immobiliari o dell’edificio, installazione di impianti centralizzati per le ricezione radio-tv e per l’accesso a qualunque flusso informativo ecc.);
- installazione di impianti di videosorveglianza su parti comuni (art. 1122-ter);
- le innovazioni relative all’adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore, di cui all’art. 26, comma 5 della legge n. 10/1991;
- revisione delle tabelle millesimali (Cass. 3221/2014).
Delibere da approvare ai sensi dell’art. 1136, comma 3: maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno un terzo del valore dell’edificio:
- tutte le delibere non comprese nel precedente elenco e da assumere nel corso di assemblea riunita in seconda convocazione;
- le delibere di cui all’art. 26, comma 2 della legge n. 10/1991 aventi ad oggetto gli interventi sugli edifici e sugli impianti volti al contenimento del consumo energetico.
Delibere da approvare con la maggioranza di cui al comma 5 dell’art. 1136: maggioranza degli intervenuti ed almeno due terzi dei valori millesimali:
- tutte le innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento della cosa comune;
- qualora, nel caso di utilizzo di parti comuni per l’installazione di impianti esclusivi di ricezione radio televisiva e di produzione di energia da fonti rinnovabili, l’assemblea sia chiamata a prescrivere particolari modalità a salvaguardia dei beni comuni ovvero debba richiedere all’interessato idonee garanzie (art. 1122-bis).
Delibere da approvare con la maggioranza qualificata di quattro quinti dei partecipanti al condomini e del valore dell’edificio:
- le delibere finalizzate alle modificazioni delle destinazioni d’uso dei beni comuni se dettate da esigenze di interesse condominiale (art. 1117-ter).
Vi è una fattispecie per la quale permangono dubbi circa la maggioranza richiesta per l’adozione della relativa deliberazione da parte dell’assemblea di condominio.
E’ il caso in cui debba essere approvata una transazione tra il condominio ed uno o più condomini o terzi estranei al condominio, con autorizzazione all’amministratore di sottoscrivere l’atto di accordo.
Si discute se sia sufficiente la maggioranza prevista dall’articolo 1136 codice civile terzo comma (maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno un terzo del valore dell’edificio) oppure sia necessaria quella del secondo comma dello stesso articolo (maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno la metà del valore dell’edificio).
Considerando che la transazione è un atto con cui le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite o ne prevengono l’insorgere, si potrebbe ritenere che una transazione, riguardando sempre le liti attive o passive richiamate dall’articolo 1136 co. 4, c.c. per la sua approvazione necessiti della maggioranza prevista dal secondo comma dell’articolo 1136.
E’ da considerare, tuttavia, che si potrebbero verificare dei casi in cui la transazione abbia ad oggetto materie per le quali le disposizioni del codice prevedano maggioranze superiori a quelle del secondo comma dell’articolo 1136, come ad esempio il caso in cui l’oggetto della transazione preveda l’obbligo del condominio di realizzare delle innovazioni ex articolo 1120.
In questo caso è evidente che la delibera sia approvata con la maggioranza prevista per le innovazioni dall’articolo 1136 codice civile quinto comma.
Tale interpretazione è stata confermata anche dalla Suprema Corte relativamente ad una transazione in cui veniva riconosciuto ad un condomino l’uso esclusivo di un bene comune, per la quale era stata ritenuta necessaria l’unanimità per la delibera con la quale veniva autorizzato l’amministratore alla firma della transazione (Cass. 4258/2006).
Più di recente sempre il giudice di legittimità ha affermato che “in tema di condominio negli edifici, ai sensi dell'art. 1135 c.c., l'assemblea può deliberare a maggioranza su tutto ciò che riguarda le spese d'interesse comune e, quindi, anche sulle transazioni che a tali spese afferiscano, essendo necessario il consenso unanime dei condomini, ai sensi dell'art. 1108, co. 3, c.c., solo quando la transazione abbia ad oggetto i diritti reali comuni” (Cass. 821/2014).
Ancora alcune questioni di rilevante interesse in tema di validità delle delibere:
1) effetti conseguenti all’allontanamento di uno o più condomini dopo la regolare costituzione dell’assemblea e prima della votazione.
L’allontanamento non incide sulla determinazione del quorum costitutivo, poiché per esso rileva il momento iniziale della riunione.
Se un condomino, intervenuto all’assemblea, abbandona la riunione dichiarando di rimettersi alle decisioni della maggioranza l’assemblea non potrà tenere conto di tale adesione, perché solo il momento della votazione determina la formazione della volontà dei condomini che dà vita all’atto collegiale.
Una ipotetica conferma a posteriori, da parte del condomino allontanatosi, della adesione alla deliberazione, non può valere come sanatoria della eventuale invalidità della delibera, dovuta al venir meno, per le predette ragioni, del richiesto «quorum deliberativo», potendo, se mai, tale conferma avere solo il valore di rinuncia a dedurre la invalidità, senza che sia, peraltro, preclusa agli altri condomini la possibilità di impugnazione (Cass. 1208/1999).
2) Nel caso opposto in cui un condomino sia intervenuto tardivamente all’assemblea la Suprema Corte ha ritenuto che il suo voto è pienamente valido e di esso si debba tenere conto ai fini del calcolo delle maggioranze a condizione che la partecipazione non avvenga non oltre la chiusura del verbale (Cass. 9130/1993).
3) Dopo lo scioglimento dell'assemblea il verbale non può essere riaperto e non possono essere adottate validamente delibere, perché ne risulterebbero violate le norme sulla convocazione dell'assemblea e sulla collegialità della deliberazioni (Cass. 6366/1991).
4) Quando le delibere riguardino solo una parte del condominio le maggioranze dovranno essere calcolate in relazione ai soggetti ad esse direttamente interessati.
7. Efficacia ed impugnazione delle delibere
Il primo comma dell’art. 1137, c.c. sancisce la «obbligatorietà per tutti i condomini» delle deliberazioni adottate dall’assemblea a condizione che siano state rispettate tutte le norme che lo precedono.
Nel termine “tutti” sono compresi anche gli assenti, i dissenzienti, gli astenuti (salvo – come vedremo – il diritto per questi soggetti di impugnare la deliberazione), e coloro che al momento della votazione non erano ancora condomini, poiché «gli aventi causa dagli originari condomini restano vincolati dalle delibere assembleari legittimamente prese a suo tempo in ordine agli interessi comuni del condominio» (Cass. 4542/1982).
Contro le delibere contrarie alla legge od al regolamento di condominio i condomini che hanno espresso voto contrario, si sono astenuti o non hanno partecipato all’assemblea possono rivolgersi all’autorità giudiziaria nel termine perentorio di trenta giorni per chiederne l’annullamento.
Il termine decorre dalla data della delibera per i contrari ed astenuti, mentre per gli assenti vale la data della ricezione della stessa.
La distinzione tra delibere annullabili (soggette al rispetto del termine di impugnazione di trenta giorni) e nulle è stata chiarita dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, la quale ha affermato che rientrano nell’ambito di queste ultime solo le delibere prive degli elementi essenziali, con oggetto impossibile o illecito (contrarie all’ordine pubblico, alla morale o al buon costume), con oggetto che esula dalla competenza dell’assemblea ovvero che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva (Cass. Sez. Un. 4806/2005).
La nullità di una delibera fa sì che essa possa essere impugnata senza limiti di tempo da chiunque vi abbia un interesse concreto anche se abbia, con il suo voto favorevole, contribuito alla formazione di tale delibera (Cass. 5814/2016) .
Tutte le altre deliberazioni, pertanto, sono annullabili e, quindi, sono soggette al termine di cui all’art. 1137 cit.
Il diritto di impugnativa in materia di manutenzione straordinaria delle parti comuni dell’immobile, compete anche all’usufruttuario in relazione alle materie di sua competenza (nuovo art. 67, disp. att. c.c.).
Ugualmente è titolato all’azione il condomino che si sia allontanato dalla riunione assembleare prima della votazione, mentre nel caso di proprietà indivisa tra più soggetti intervenuti in assemblea a mezzo di proprio rappresentante ai sensi dell’art. 67, comma 1 disp. att. c.c., il diritto in questione all’impugnativa spetta a tutti ed a ciascuno di loro.
Diversamente non potrà impugnare la delibera il condomino rappresentato in assemblea da un suo delegato che abbia votato con voto favorevole, neppure nel caso in cui il delegante lamenti che la deliberazione è contraria ai propri interessi oppure il non dissenziente nei confronti della prima deliberazione, allorché la seconda costituisca esecuzione o conferma della precedente.
Quanto al procedimento di impugnazione va evidenziato che l’azione deve essere introdotta con atto di citazione (in questo senso la novella del 2012 ha sostituito il precedente termine “ricorrere all’autorità giudiziaria” con “adire l’autorità giudiziaria”).
Sul punto, tuttavia, prima della riforma, la Suprema Corte a Sezioni Unite, pur chiarendo che l’impugnativa delle delibere assembleari deve essere proposta tramite atto di citazione ha contestualmente affermato che l’improprio uso del ricorso non invalida l’impugnativa a condizione che l’atto risulti depositato in cancelleria entro il termine stabilito dall’art. 1137 (Cass. Sez. Un. 8491/2011).
La sospensione dei termini feriali (ora ridotti a giorni trenta) si applica anche all’ipotesi di impugnativa della delibera assembleare (Corte Cost. 49/1990).
La competenza è affidata al Giudice di pace fino alla concorrenza di € 5.000,00, oppure quando si tratti di competenza esclusiva per materia (art. 7 c.p.c.).
8.Verbale e registro dei verbali
Delle deliberazioni dell’assemblea si redige «processo verbale» da trascriversi in un «registro» tenuto dall’amministratore (rinvio al capitolo concernente l’amministratore), esente da vidimazione (anche se il regolamento di condominio la può prescrivere) e consultabile da ciascun condomino.
Il verbale altro non è che la trasposizione, scritta e fedele anche se sommaria, di ogni momento di rilevante interesse della riunione.
La completezza e regolarità del verbale è il presupposto anche per la validità delle delibere, poiché tale atto rappresenta una prova presuntiva dei fatti che lo stesso afferma essersi verificati nel corso dell’assemblea, per modo che spetta al condomino che impugna la deliberazione assembleare contestando la rispondenza a verità di quanto riferito nel relativo verbale provare il suo assunto (Cass., ord, 16774/2015).
La funzione probatoria del verbale, tuttavia non impone alcun obbligo ex lege e, di converso, alcun diritto dei condomini a vedere riprodotte nello stesso atto ogni osservazione, richiesta o dichiarazione che sia estranea ai suddetti contenuti (App. Milano 18 settembre 1992, in Arch. Loc., 1993, 543). Tuttavia, ove il condomino richieda espressamente che una sua dichiarazione venga posta a verbale questo deve essere fatto.
La redazione del verbale deve essere effettuata anche quando l’assemblea non si sia regolarmente costituita o non abbia deliberato (Cass. 5014/1999).
L’omessa verbalizzazione della circostanza che la prima convocazione dell’assemblea è andata deserta non comporta un fatto che possa invalidare l’accertata regolarità della seconda convocazione, in quanto la verifica di tali condizioni viene sempre espletata nel corso di tale riunione «sulla base delle informazioni orali rese dall’amministratore, il cui controllo può essere svolto dagli stessi condomini che o sono stati assenti alla prima convocazione, o, essendo stati presenti, sono in grado di contestare tali informazioni» (Cass. . 24132/2009).
Il verbale dell’assemblea di condominio, ai fini della verifica dei quorum prescritti dall’art. 1136 c.c., deve contenere l’elenco nominativo dei condomini intervenuti di persona o per delega, indicando i nomi di quelli assenti o dissenzienti, con i rispettivi valori millesimali; tuttavia, dovendo il verbale attestare quanto avviene in assemblea, la mancata indicazione del totale dei partecipanti al condominio non incide sulla validità del verbale se a tale ricognizione e rilevazione non abbia proceduto l’assemblea, giacché tale incompletezza non diminuisce la possibilità di un controllo aliunde della regolarità del procedimento e delle deliberazioni assunte. (Cass. 24132/2009. Vedi anche Cass. 697/2000).
La mancata segnalazione nel verbale dell’ora e/o del luogo di convocazione, inoltre, non costituisce vizio invalidante, in quanto tali elementi non sono richiesti a pena di nullità o di annullabilità (Trib. Trani 29 novembre 1984, Arch. Loc. 1985, 297).
È valida la delibera dell’assemblea condominiale il cui verbale, ancorché non riporti l’indicazione nominativa dei condomini che hanno votato a favore, tuttavia contenga, tra l’altro, l’elenco di tutti i condomini presenti, personalmente o per delega, con i relativi millesimi, e nel contempo rechi l’indicazione, nominativa, dei condomini che si sono astenuti e che hanno votato contro e del valore complessivo delle quote millesimali di cui gli uni e gli altri sono portatori, perché tali dati consentono di stabilire con sicurezza, per differenza, quanti e quali condomini hanno espresso voto favorevole e il valore dell’edificio da essi rappresentato, nonché di verificare che la deliberazione stessa abbia in effetti superato il quorum richiesto dall’art. 1136 c.c. (Cass. 18192/2009).
Per un corretto svolgimento dell’assemblea è opportuna dare lettura del verbale nel corso della stessa, per consentire ai presenti un riscontro immediato che quanto trascritto corrisponda a quanto deliberato o, comunque, discusso, ma anche per permettere di inserire eventuali precisazioni e puntualizzazioni.
È del tutto fuori luogo, per evidenti motivi, inoltre, seguire la prassi di prendere appunti in assemblea e, solo successivamente, di redigere il verbale.
9. La mediazione obbligatoria: cenni
L’impugnativa della delibera assembleare rientra nell’ambito della mediazione obbligatoria, da esperirsi prima dell’avvio dell’azione civile aventi ad oggetto controversie in materia di condominio.
La mediazione obbligatoria è, se non esperita, causa di improcedibilità della domanda.
L’istanza, a pena di inammissibilità, deve essere presentata presso l’organismo di mediazione ubicato nella circoscrizione del tribunale ove il condominio è situato.
Il soggetto legittimato a rappresentare il condominio è l’amministratore, che deve essere munito di mandato conferito dall’assemblea con la maggioranza di cui all’art. 1136, co.2 c.c. (maggioranza degli intervenuti e dei valori millesimali).
Fissata la data di comparizione dinanzi al mediatore, qualora non sia possibile per il condominio assumere la delibera necessaria per delegare l’amministratore, il termine potrà essere prorogato dal mediatore, su istanza dello stesso condominio.
La proposta di mediazione deve essere approvata sempre con la maggioranza di cui al comma 2 dell’art. 1136 c.c.: diversamente essa si intende non accettata.
Anche in questo caso il mediatore, nel fissare la data per la comunicazione dell’accettazione o meno della proposta conciliativa, deve tenere conto della necessità e dei tempi per l’amministratore di munirsi della delibera assembleare.
CAPITOLO OTTAVO
LE SPESE E LE TABELLE MILLESIMALI
1. Natura e caratteri delle spese comuni
Tutti i condomini devono partecipare «pro quota» alle spese per la conservazione ed il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza.
Non è un obbligo di rimborso di spese già effettuate ma di anticipo, sempre «pro quota», di quelle preventivate, il ché esclude che l’amministratore sia tenuto ad anticipare pagamenti per il condominio.
Si parla anche di obbligo derivante ex lege per spese necessarie, ovvero di dovere legato al consenso della maggioranza quando si tratti di spese utili ma non indispensabili.
Le spese si distinguono in quattro categorie:
a) di manutenzione ordinaria, in quanto finalizzate a mantenere il bene in una situazione di costante efficienza. Rientra in tale ordine tutto ciò che mira a conservare la cosa comune nella sua sostanza materiale e nella sua destinazione originaria, attraverso riparazioni che eliminano gli effetti dell’usura fisiologica del bene nel tempo (es. tinteggiatura esterna, impermeabilizzazione di tetti e terrazze comuni, ripristino intonaci, manutenzione di impianti comuni e così via);
b) di manutenzione straordinaria, e che rappresentano una categoria residuale rispetto ai lavori di manutenzione ordinaria. Secondo la giurisprudenza il criterio discretivo tra atti di ordinaria amministrazione, rimessi all'iniziativa dell'amministratore nell'esercizio delle proprie funzioni e vincolanti per tutti i condomini ex art. 1133 c.c., ed atti di amministrazione straordinaria, al contrario bisognosi di autorizzazione assembleare per produrre detto effetto, salvo quanto previsto dall'art. 1135, comma 2, c.c., riposa sulla "normalità" dell'atto di gestione rispetto allo scopo dell'utilizzazione e del godimento dei beni comuni, sicché gli atti implicanti spese che, pur dirette alla migliore utilizzazione delle cose comuni o imposte da sopravvenienze normative, comportino, per la loro particolarità e consistenza, un onere economico rilevante, necessitano della delibera dell'assemblea condominiale” (Cass. 10865/2016).
c) le innovazioni, ovvero tutti gli interventi previsti nella nuova stesura dell’art. 1120, nonché le innovazioni disciplinate dall’art. 1121 quando, malgrado il loro carattere gravoso e voluttuario, siano state assentite dall’assemblea e non vi sia stata una dissociazione dalle stesse come previsto dalla norma;
d) per servizi, vale a dire i contributi inerenti alle prestazioni di interesse comune nonché quelli necessari per il funzionamento degli impianti condominiali (ad esempio illuminazione, portierato, pulizie, riscaldamento, ascensore, ecc.).
Una più intensa utilizzazione di parti o servizi comuni non può incidere sul carico di contribuzione a titolo di spese generali in capo al condomino, il quale non si può vedere attribuita, da una delibera assembleare assunta a maggioranza, una quota maggiore di quella prevista dalla legge (Cass. 1511/1997).
Un regolamento di condominio di carattere contrattuale, invece, può derogare ai criteri generali, ad esempio stabilendo che le spese generali siano ripartite in quote uguali tra i condomini (Cass. 641/2003).
2. La disciplina applicabile
Le spese di carattere comune sono disciplinate sia dall’art. 1123 c.c., che detta i principi generali, sia da una serie di norme successive, che regolamentano specifiche fattispecie.
In virtù dell’articolo 1123, rimasto immutato rispetto al passato, tre sono i principi informatori della ripartizione delle spese in generale:
• criterio di riparto in misura proporzionale al valore delle singole proprietà;
• criterio di riparto in proporzione all’uso;
• criterio di riparto in base alla destinazione esclusiva.
Del primo criterio si è già accennato nel paragrafo che precede e basti qui solo evidenziare che la norma è caratterizzata, nel suo complesso, dalla derogabilità non essendo ricompresa nell’ambito di quelle disposizioni espressamente dichiarate non eludibili dall’art. 1138, co. 4, c.c.
Il principio è rafforzato dall’inciso “salva diversa convenzione” contenuto nel primo comma della norma in questione.
La derogabilità dei criteri può aversi solo se prevista nel regolamento contrattuale (allegato ai singoli atti d’acquisto delle varie unità immobiliari), mediante convenzione sottoscritta da tutti i condomini o con delibera adottata all’unanimità (Cass. 7300/2010), ovvero se si possa ricavare da comportamenti concludenti protrattisi nel tempo (Cass. 20318/2004).
In caso contrario la delibera non è annullabile ma affetta da una vera e propria nullità, sia pure relativa, e può quindi essere impugnata (e di conseguenza invalidata) dai condomini dissenzienti o astenuti senza l’osservanza dei termini e delle modalità per l’impugnazione delle delibere assembleari annullabili.
La ripartizione delle spese secondo l’uso è sancita dal comma 2 dell’art. 1123, a norma del quale, se i beni comuni servono i condomini in misura diversa, gli oneri devono essere suddivisi in ragione dell’uso che ciascuno può farne.
L’uso differenziato è quello oggettivo e potenziale che i condomini fanno di un bene comune e non quello dipendente dai comportamenti dei singoli (Cass. 13160/1991).
Il terzo criterio correttivo, rispetto alla ripartizione di carattere generale delle spese, è contenuto nel comma 3 dell’articolo 1123, che ha introdotto il concetto di utilità concreta in base al quale se i condomini traggono vantaggi esclusivi da determinate situazioni di fatto condominiali (edificio costituito da più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato) devono sostenere anche i relativi costi.
Per individuare l’effettiva utilità, sarà necessario analizzare lo stato di fatto del complesso condominiale, così da poter valutare se l’utilità sia stata esclusa da elementi strutturali del condominio, oppure se il minore o mancato utilizzo dipenda da scelte personali.
Si pensi al caso di un condomino proprietario di un’unità abitativa, fisicamente separata dallo stabile condominiale, e che utilizzi un ingresso separato rispetto ad esso. Sarà da chiarire (in assenza di norma regolamentare chiarificatrice) se il condomino sia tenuto a concorrere alle spese relative a quelle parti comuni di cui non fruisca né benefici in alcun modo (esempio ingresso condominiale, androne etc.).
In casi analoghi, la giurisprudenza ha escluso che il proprietario di un’unità abitativa separata dal corpo di fabbrica principale del condominio ed avente accesso autonomo sulla pubblica via fosse tenuto a concorrere alle spese per la manutenzione di androne, scale e cantine, in ragione del fatto del mancato godimento delle utilità prodotte dalle parti comuni (Tribunale Milano 3825/1991).
Del pari, la Suprema Corte (Cass. 1255/1995) ha escluso che i proprietari di box compresi nel perimetro condominiale, ma separati dall’edificio principale, fossero tenuti a concorrere alle spese di manutenzione della facciata del corpo di fabbrica principale, stante la mancanza di un rapporto di pertinenzialità tra gli impianti destinati a servire il fabbricato principale ed i box stessi.
In questo contesto merita un cenno l’istituto del condominio parziale di cui ci siamo già occupati. Si ritiene, infatti, che proprio il terzo comma dell’articolo 1123 costituisca il fondamento normativo del condominio parziale, ovvero di quella fattispecie che si configura quando alcuni beni o impianti comuni sono destinati a servire solo parte del fabbricato.
Il condominio parziale è situazione che si configura per la semplificazione dei rapporti di gestione interni alla collettività condominiale (Cass. 2363/2012), laddove viene meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini su beni o impianti, talché obbligati a contribuire alle relative spese sono solamente i condomini che ne sono contitolari e ne traggono utilità. E solo essi hanno diritto di voto nelle decisioni relative.
3. La suddivisione delle spese nelle fattispecie disciplinate dal codice civile
Alcune voci di spesa, particolarmente rilevanti, hanno trovato nella disciplina codicistica una posizione ben identificata.
3. 1 - Scale ed ascensori (art. 1124 c.c.)
La norma, prima destinata solo alle scale ed applicata, per analogia, anche alla ripartizione delle spese di ascensore, è stata cambiata nel 2012, allorché il legislatore - recependo la costante giurisprudenza (da ultimo Cass. 5975/2004) - ha esteso agli impianti di risalita la disciplina dettata per la manutenzione e ricostruzione delle scale.
La disposizione dell'articolo 1124 codice civile recita ora: Le scale e gli ascensori sono mantenuti e sostituiti dai proprietari delle unità immobiliari a cui servono. La spesa relativa è ripartita tra essi, per metà in ragione del valore delle singole unità immobiliari e per l'altra metà esclusivamente in misura proporzionale all'altezza di ciascun piano dal suolo.
Detta disciplina è coerente con il principio di cui all’articolo 1123, co. 2, c.c., poiché tiene conto del differente uso del bene comune da parte dei condomini proprietari dei diversi piani, anche se contempera tale principio con la circostanza che il bene, nella sua interezza, appartenga a tutti i condomini.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente esulano dall'ambito di applicazione della norma in esame le spese per l'installazione ex novo dell'impianto dell'ascensore, che risultano invece, soggette alla disciplina fissata dall'art. 1123 per le innovazioni deliberate dalla maggioranza (Cass. 5975/2004 cit.) e le spese per gli interventi di adeguamento di un ascensore già esistente alla normativa vigente che, avendo la finalità di garantire la sicurezza dei condomini e di terzi, attengono all'aspetto funzionale del bene in oggetto, piuttosto che a quello del suo godimento. (Cass. 28679/2011) e vanno ripartite in base ai millesimi di proprietà.
Ed anche la ripartizione delle spese per la pulizia e la illuminazione delle scale va effettuata solo in base al criterio proporzionale dell'altezza dal suolo di ciascun piano o porzione di piano a cui esse servono, in applicazione del principio generale posto dall'art. 1123, co. 2 (Cass. 432/2007 e Cass. 8657/96).
Le scale di accesso alle cantine non possono essere considerate alla stregua di quelle principali, in quanto svolgono una funzione differente. La loro utilizzazione è, in genere, limitata alla frequentazione di locali (pertinenze) di cui non tutti gli appartamenti potrebbero essere dotati.
Ad esse non si possono applicare gli stessi criteri di spesa previsti per la scala principale dall’art. 1124 c.c., in quanto le spese ad esse connesse saranno sostenute dai titolari delle cantine in base ai propri millesimi di proprietà o alle percentuali indicate nelle apposite tabelle qualora vi sia una millesimazione ad hoc.
La giurisprudenza ha, poi, affermato che “le scale, essendo elementi strutturali necessari alla edificazione di uno stabile condominiale e mezzo indispensabile per accedere al tetto e al terrazzo di copertura, conservano la qualità di parti comuni, così come indicato nell'art. 1117 c.c., anche relativamente ai condomini proprietari di negozi con accesso dalla strada, in assenza di titolo contrario, poiché anche tali condomini ne fruiscono quanto meno in ordine alla conservazione e manutenzione della copertura dell'edificio” (Cass. 15444/2007).
3.2 - Volte, soffitti, solai (art. 1125)
L'art. 1125, immutato, stabilisce che “le spese per la manutenzione dei soffitti, delle volte e dei solai sono sostenute in parti uguali dai proprietari l'uno all'altro sovrastanti”.
La norma sancisce una presunzione assoluta di comunione delle opere che servono a dividere orizzontalmente le due proprietà.
Nel concetto di volte, soffitti e solai rientra tutto ciò che divide orizzontalmente le due proprietà e si trova stabilmente tra esse, con funzione di sostegno e copertura. Restano escluse quelle parti che adempiono a funzioni meramente estetiche o ornamentali.
Ugualmente, secondo la giurisprudenza (Cass. 3715/1976) la struttura tipica del solaio “esclude che tra il soffitto del piano inferiore e il pavimento del piano superiore possano esistere altre opere le quali non facciano parte del solaio e delle quali occorra quindi accertare, di volta in volta, la destinazione, al fine di stabilire a chi appartengano (nella specie la Suprema Corte ha enunciato la massima che precede per escludere che potesse ritenersi bene in proprietà comune una intercapedine costruita per aereare un locale dell'appartamento sottostante e nascondere un tubo di scarico passante sotto il pavimento dell'appartamento sovrastante).
L'articolo 1125, infine, è norma derogabile dall'autonomia privata, sicché i condomini interessati ben possono addivenire ad un accordo sul loro rispettivo diritto e determinare convenzionalmente chi debba sostenere la spesa.
3.3. – Lastrici solari ad uso esclusivo (art. 1126)
Parimenti immutata rispetto al pregresso è la norma in esame, oggettivamente circoscritta all’ipotesi in cui il lastrico sia di proprietà o nella disponibilità di un solo o alcuni dei condomini.
Sono equiparati ai lastrici solari esclusivi anche le terrazze al uso individuale che svolgano la stessa funzione nei confronti dei condomini sottostanti (Cass. 18164/2014).
La duplice finalità della struttura dell’area di copertura ha inciso sul criterio di ripartizione delle spese di riparazione e ricostruzione poste, per un terzo, a carico di coloro che ne hanno l’uso esclusivo e per due terzi in capo ai condomini dell’edificio o della parte di questo a cui il lastrico funga da copertura, in proporzione ai millesimi di proprietà.
Tale criterio di ripartizione si applica in ogni caso di spesa, ordinaria e straordinaria, che riguardi la struttura del lastrico/terrazza e la connessa finalità di copertura, con esclusione delle spese dirette unicamente al miglior godimento delle unità immobiliari di proprietà individuale di cui le terrazze siano il prolungamento (Cass. 16583/2012). Nella specie trattasi di oneri concernenti parapetti, ringhiere, ecc. collegati alla sicurezza dell’area di calpestio (Cass. 2726/2002).
L’utilizzo di materiali (mattonelle per la pavimentazione del lastrico/terrazza) notevolmente più costosi rispetto alla qualità media fa sì che il condomino, che usi in via esclusiva del bene, sopporti il costo aggiuntivo dell’intervento estensibile, eventualmente, alla maggiorazione del prezzo per la posa in opera.
In tema di danni da infiltrazioni causate all’appartamento sottostante al lastrico di uso esclusivo rispondono “sia il proprietario, o l'usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell'art. 2051 c.c., sia il condominio in forza degli obblighi inerenti l'adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull'amministratore ex art. 1130, comma 1, n. 4, c.c., nonché sull'assemblea dei condomini ex art. 1135, comma 1, n.4, c.c., tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria; il concorso di tali responsabilità va di norma risolto, salva la rigorosa prova contraria della specifica imputabilità soggettiva del danno, secondo i criteri di cui all'art. 1126 c.c., che pone le spese di riparazione o di ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell'usuario esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio” (Cass. Sez. Un. 9449/2016).
4. Le tabelle millesimali
4.1- In generale
Il principio generale stabilito dall’art. 1123 c.c. (ripartizione delle spese secondo i valori proporzionali della proprietà di ciascuno (salva contraria convenzione) o all’uso che ciascuno può farne deve tenere conto dell’68, disp. att. c.c. (derogabile in quanto non incluso nell’elenco contenuto nel successivo art. 72), come parzialmente modificato dalla riforma.
Ai sensi del comma 1 dell’art. 68, infatti, «il valore proporzionale di ciascuna unità immobiliare è espresso in millesimi in apposita tabella allegata al regolamento di condominio», frutto della valutazione di elementi oggettivi, tanto è vero che nell’accertamento dei valori non si devono considerare, né il canone locatizio, né i miglioramenti, né, infine, lo stato di manutenzione della singola unità immobiliare (co.2).
Sul punto la giurisprudenza aveva chiarito che i valori delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini ed il loro proporzionale ragguaglio in millesimi al valore dell’edificio vanno individuati con riferimento al momento dell’adozione del regolamento (Cass. 3001/2010).
La tabella millesimale è, pertanto, il prospetto contenente i dati numerici espressi in millesimi (1000/1000), che rappresentano il valore delle singole unità immobiliari, ossia il valore delle singole quote di comproprietà sulle parti comuni dell'intero edificio ai fini della ripartizione delle spese.
Al criterio fondamentale utilizzato per assegnare detto parametro, che prende in considerazione la cubatura dei vani, il loro numero e le rispettive superfici si vanno ad aggiungere ulteriori termini di valutazione, che rappresentano elementi integrativi e correttivi individuabili nelle differenti collocazioni delle unità immobiliari nell’ambito dello stabile. Tali sono ad esempio: l’altezza del piano dal suolo; l’esposizione; la disponibilità dei servizi comuni (per es. ascensore, riscaldamento); l’esistenza di accessori (quali balconi, terrazze, ecc.).
Vi sono vari tipi di tabelle millesimali: oltre alla tabella generale di proprietà, esistono una serie di tabelle utili a ripartire le spese per beni e servizi comuni in relazione all’uso di ciascun condomino. Trattasi delle così dette tabelle d’uso, (esempio quelle riferite alle scale, all'ascensore, all'impianto di riscaldamento centralizzato, al giardino eccetera.). Queste tabelle rappresentano l'uso di servizi condominiali e sono redatte con criteri diversi da quelle che rappresentano il valore della proprietà.
Da ultimo vi possono essere ulteriori tabelle di proprietà inerenti specificatamente alle pertinenze (es. locali cantine; box, ecc.).
Le tabelle non richiedono la forma scritta "ad substantiam", ad eccezione del caso in cui siano allegate ad un regolamento contrattuale (Cass. 3245/ 2009).
4.2 – Formazione e approvazione
“L'atto di approvazione delle tabelle millesimali, al pari di quello di revisione delle stesse, non ha natura negoziale; ne consegue che il medesimo non deve essere approvato con il consenso unanime dei condomini, essendo a tal fine sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, secondo comma, cod. civ.” (Cass. Sez. Un. 18477/2010). Tutto ciò se i criteri di ripartizione adottati sono conformi a quelli legali (di cui agli artt. 1123 e ss.,c.c.).
Tuttavia, sarà necessario il consenso unanime dei condomini per approvare le tabelle cosiddette contrattuali, dovendosi intendere tali quelle mediante le quali “si sia inteso derogare al regime legale di ripartizione delle spese e si sia inteso cioè approvare quella diversa convenzione di cui all’articolo 1123” (di cui si è parlato più sopra).
Le Sezioni Unite, infatti, hanno chiarito che “non sembra potersi riconoscere natura contrattuale alle tabelle millesimali per il solo fatto che, ai sensi dell'articolo 68 disposizioni di attuazione Codice Civile, siano allegate ad un regolamento di origine così detta "contrattuale", ove non risulti espressamente che si sia inteso derogare al regime legale di ripartizione delle spese.
Ed ancora dalla Corte: “il criterio di identificazione delle quote di partecipazione al condominio, derivando dal rapporto tra il valore dell'intero edificio e quello relativo alla proprietà del singolo, esiste prima ed indipendentemente dalla formazione della tabella dei millesimi - la cui esistenza, pertanto, non costituisce requisito di validità delle delibere assembleari - e consente sempre di valutare anche "a posteriori" in giudizio se le maggioranze richieste per la validità della costituzione dell'assemblea e delle relative deliberazioni siano state raggiunte, in quanto la tabella anzidetta agevola, ma non condiziona lo svolgimento dell'assemblea e, in genere, la gestione del condominio” (Cass., ord., 17715/2011).
Il legislatore della riforma, tuttavia, non ha ritenuto di dovere recepire tale orientamento giurisprudenziale, essendosi limitato a sancire, nel successivo art. 69 delle disposizioni di attuazione codice civile, il criterio generale dell’unanimità per la rettifica o modifica delle stesse.
In merito al valore probatorio delle tabelle la citata sentenza del 2010 ha stabilito che le stesse “non incidono sul diritto di proprietà che ciascun partecipante ha sui beni comuni, bensì soltanto sulle obbligazioni che gravano a carico del singolo condomino in funzione di tale diritto di proprietà, in quanto servono soltanto ad esprimere, in precisi termini aritmetici, un preesistente rapporto di valore tra i diritti dei vari condomini, senza incidere, in alcun modo, su tali diritti”.
Tale pronuncia, che ha richiamato precedenti giurisprudenziali di legittimità (Cass. 431/90; 298/77; 1/77), in altro passo ha affermato che “il fine dei condomini, quando approvano il calcolo delle quote, è solo di quello di prendere atto della traduzione in frazioni millesimali di un rapporto di valori preesistente, trattandosi di un’operazione meramente tecnico/ matematica, senza alcuna implicazione volitiva”.
Pertanto, il valore probatorio delle tabelle millesimali non è quello di accertamento del diritto dei singoli condomini sulle unità immobiliari di proprietà esclusiva, bensì quello di indicare il valore millesimale di tali unità rispetto all'intero edificio, ai soli fini della gestione del condominio.
4.3 - Revisione e modifica delle tabelle millesimali
L’art. 69 è stato così integralmente modificato dalla novella del 2012:
• viene espressamente sancita come necessaria l’unanimità dei consensi per la rettifica e modifica delle tabelle millesimali;
• la rettifica o modifica, che può essere pronunciata anche nell’interesse di un solo condomino, richiede, invece, la maggioranza di cui all’art. 1136, co. 2, c.c. quando:
a) risulta che i valori sono conseguenza di un errore (punto 1);
b) quando, per le mutate condizioni di una parte dell'edificio, in conseguenza di sopraelevazione, di incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle unità immobiliari, è alterato per più di un quinto il valore proporzionale dell'unità immobiliare anche di un solo condomino. In tal caso il relativo costo è sostenuto da chi ha dato luogo alla variazione (punto 2);
• ai soli fini della revisione dei valori proporzionali espressi nella tabella millesimale allegata al regolamento di condominio ai sensi dell'articolo 68, può essere convenuto in giudizio unicamente il condominio in persona dell'amministratore (in precedenza era necessario il litisconsorzio di tutti i condomini.
• una volta ricevuto l’atto di citazione, l’amministratore e' tenuto a darne senza indugio notizia all'assemblea dei condomini. In caso di inerzia verso tale obbligo l'amministratore può essere revocato ed è tenuto al risarcimento degli eventuali danni.
• l’intero art. 69 si applica alla rettifica od alla revisione delle tabelle per la ripartizione delle spese redatte in applicazione dei criteri legali o convenzionali.
Per la costante giurisprudenza (da ultimo Cass. 21950/2013) “l'errore determinante la revisione delle tabelle millesimali, a norma dell'art. 69 disp. att. cod. civ., è costituito dalla obiettiva divergenza fra il valore effettivo delle unità immobiliari e quello tabellarmente previsto. La parte che chiede la revisione delle tabelle millesimali non ha, tuttavia, l'onere di provare la reale divergenza tra i valori effettivi e quelli accertati in tabella, potendo limitarsi a fornire la prova anche implicita di siffatta divergenza, dimostrando in giudizio l'esistenza di errori, obiettivamente verificabili, che comportano necessariamente una diversa valutazione dei propri immobili rispetto al resto del condominio. Il giudice, a sua volta, sia per revisionare o modificare le tabelle millesimali di alcune unità immobiliari, sia per la prima caratura delle stesse, deve verificare i valori di tutte le porzioni, tenendo conto di tutti gli elementi oggettivi - quali la superficie, l'altezza di piano, la luminosità, l'esposizione - incidenti sul valore effettivo di esse e, quindi, adeguarvi le tabelle, eliminando gli errori riscontrati”.
L’errore, che può essere tanto “di fatto” (ad es. errata misurazione dell'estensione metrica della superficie), quanto “di diritto” (come l’utilizzo di criteri tecnici che tengono conto di elementi irrilevanti ai fini del calcolo del valore dei cespiti) “non coincide con l'errore vizio del consenso, disciplinato dagli articoli 1428 e ss. c.c.” (Cass. Sez. Un. 6222/1997).
In tale decisione i giudici di legittimità hanno altresì precisato che l’accettazione, anche tacita, delle tabelle millesimali non ne esclude l’impugnabilità, ex art. 69 disp. att. c.c., per obiettiva divergenza del valore considerato rispetto a quello reale, ferme restando le caratteristiche dell’errore.
Quanto alle mutate condizioni di una parte dell’edificio la norma, rispetto alla estrema genericità del passato, - come risulta dalla lett. b) che precede - è specifica e delimitante.
Il legislatore, in particolare per la sopraelevazione, ha chiaramente recepito l’orientamento della giurisprudenza, secondo il quale l’esecuzione di opere aventi tale carattere non comportava automaticamente la revisione delle tabelle millesimali, poiché "la modifica delle tabelle può aver luogo solo ove l'obiettiva divergenza tra il valore delle singole unità immobiliari ed il valore, proporzionale a quello dell'intero edificio, attribuito loro nelle tabelle medesime, non sia di modesta entità (Cass. 1408/1999; Cass. 9579/1991).
Tra le fattispecie che si erano riconosciute suscettibili di alterare i rapporti di proporzionalità vanno ricordate le innovazioni, quali ad esempio la trasformazione di un balcone in veranda.
La modifica deve essere duratura, non potendosi fare riferimento a modificazioni occasionali e/o casuali.
Sino a quando il procedimento di revisione non si conclude, continuano ad applicarsi le precedenti tabelle millesimali, seppure viziate.
La sentenza che accoglie la domanda di revisione o modifica dei valori proporzionali di piano promossa dal condomino non ha natura dichiarativa ma costitutiva, avendo la stessa funzione dell'accordo raggiunto all'unanimità dai condomini. Pertanto, l'efficacia di tale sentenza, in mancanza di specifica disposizione di legge contraria, decorre dal passaggio in giudicato (Cass. 5690/2011).
Il tutto con salvezza del condomino al diritto di ottenere, nell’ambito della prescrizione, la restituzione di quanto versato in più al condominio, sempre che la diminuzione patrimoniale del primo non sia derivata da un suo comportamento inerte e tale da costituire un consenso tacito all’applicazione delle vecchie tabelle millesimali.
5. Solidarietà nelle spese
Il principio della solidarietà nelle obbligazioni sancito dall’art. 1294 c.c., ai sensi del quale sussiste una presunzione di responsabilità nell’ipotesi in cui più persone siano obbligate per una medesima prestazione, a meno che non risulti diversamente dal titolo, è applicabile anche alla materia condominiale.
In questo caso si può parlare di solidarietà “interna”, che interessa i rapporti tra il proprietario ed altri soggetti di diritti reali sul singolo immobile, da un lato, ed il condominio, dall’altro.
Ribadito che l’obbligo di partecipazione alle spese è un’obbligazione propter rem, riferibile a chiunque ed a qualsiasi titolo succeda nella proprietà dell’immobile, la solidarietà trova il suo fondamento nel disposto del n. 4 (già n. 2) dell’art. 63 disp. att. c.c. in base al quale «chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente».
Venditore ed acquirente
In tema di condominio negli edifici, la responsabilità solidale dell'acquirente di una porzione di proprietà esclusiva per il pagamento dei contributi dovuti al condominio dal venditore è limitata all’anno in corso ed a quello precedente all'acquisto, trovando applicazione l'art. 63, quarto comma, disp. att. cod. civ., e non già l'art. 1104 cod. civ., atteso che, ai sensi dell'art. 1139 cod. civ., le norme sulla comunione in generale si estendono al condominio soltanto in mancanza di apposita disciplina (Cass. 2979/2012).
Per «anno in corso» si deve intendere non l’anno solare ma quello di gestione (il quale può anche coincidere con il primo), poiché è a questo lasso di tempo che l’attività gestionale dell’amministratore è riferita.
Il dettato dell’art. 63 non ha risolto il problema nascente dai rapporti interni tra venditore ed acquirente in ordine al momento cui riferirsi per applicare il principio della solidarietà.
In concreto il problema concerne la necessità di individuare a quale soggetto, tra venditore ed acquirente, debbano essere imputate le spese comuni, allorché la delibera assembleare di approvazione dei relativi lavori non coincida con quella di approvazione dell’entità della spesa.
In argomento si richiamano i seguenti principi espressi dai giudici di legittimità:
• In caso di vendita di una unità immobiliare in condominio, qualora l'approvazione della delibera di esecuzione dei lavori di straordinaria manutenzione sopravvenga soltanto successivamente alla stipula della vendita, l'obbligo del pagamento delle relative quote condominiali incombe sull'acquirente, non rilevando l'esistenza di una deliberazione programmatica e preparatoria adottata anteriormente a tale stipula (Cass. 10235/2013);
• in caso di alienazione di un immobile di proprietà esclusiva in condominio, nel quale siano stati deliberati lavori di straordinaria manutenzione per riparare un danno già cagionato ad un singolo condomino, eseguiti successivamente alla compravendita, al fine dell'identificazione del soggetto obbligato alla contribuzione alle spese condominiali, deve considerarsi che l'accertamento stesso dell'emergenza conservativa o emendativa di danni a terzi, compiuto dal condominio, determina l'insorgenza dell'obbligo conservativo in capo a tutti i condomini, e pone l'eventuale successiva approvazione delle relative spese in una prospettiva meramente esecutiva ed esterna rispetto alla già compiuta individuazione della persona dell'obbligato (Cass. 15309/2011);
• in caso di vendita di una unità immobiliare in condominio, nel quale siano stati deliberati lavori di straordinaria manutenzione, ristrutturazione o innovazioni sulle parti comuni, qualora venditore e compratore non si siano diversamente accordati in ordine alla ripartizione delle relative spese, è tenuto a sopportarne i costi chi era proprietario dell'immobile al momento della delibera assembleare che abbia disposto l'esecuzione dei detti interventi, avendo tale delibera valore costitutivo della relativa obbligazione. Di conseguenza, ove le spese in questione siano state deliberate antecedentemente alla stipulazione del contratto di vendita, ne risponde il venditore, a nulla rilevando che le opere siano state, in tutto o in parte, eseguite successivamente, e l'acquirente ha diritto di rivalersi, nei confronti del medesimo, di quanto pagato al condominio per tali spese, in forza del principio di solidarietà passiva di cui all'art. 63 disp. att. cod. civ. (Cass. 24654/2010).
- Comproprietari di una stessa unità immobiliare
La solidarietà per il pagamento delle spese di cui agli artt. 1123 e ss. c.c. esiste anche tra detti soggetti, con la conseguenza che l’amministratore può esigere da ciascuno di essi l’intero ammontare del debito, salvo il regresso del «solvens» nei confronti dei condebitori.
Sul punto ha chiarito la Corte che “i comproprietari di un'unità immobiliare sita in condominio sono tenuti in solido, nei confronti del condominio medesimo, al pagamento degli oneri condominiali, sia perché detto obbligo di contribuzione grava sui contitolari del piano o della porzione di piano inteso come cosa unica e i comunisti stessi rappresentano, nei confronti del condominio, un insieme, sia in virtù del principio generale dettato dall'art. 1294 cod. civ. (secondo il quale, nel caso di pluralità di debitori, la solidarietà si presume), alla cui applicabilità non è di ostacolo la circostanza che le quote dell'unità immobiliare siano pervenute ai comproprietari in forza di titoli diversi” (Cass. 21907/2011).
- Usufruttuario e nudo proprietario
L’entrata in vigore della legge n. 220/2012 ha esteso la solidarietà per il pagamento degli oneri condominiali al nudo proprietario e all’usufruttuario.
Secondo logica si dovrebbe trattare di una solidarietà limitata, comunque, agli oneri di ordinaria amministrazione rispetto ai quali l’usufruttuario ha diritto di voto in quanto direttamente interessato e titolare indicato dalla legge.
La norma, tuttavia, è estremamente generica e non pone distinzione tra oneri di gestione ordinaria e straordinaria, facendo così sorgere un dubbio interpretativo della stessa.
Sul punto si attende un chiarimento futuro della giurisprudenza.
- Assegnazione della casa a coniuge non comproprietario
Per quanto attiene ai rapporti interni tra coniugi, in caso di separazione o divorzio, l'assegnazione in godimento della casa familiare è a titolo gratuito; di conseguenza il coniuge che ne beneficia non è tenuto a corrispondere all'altro alcun corrispettivo, indipendentemente dal fatto che l'abitazione sia in comproprietà o in proprietà esclusiva di uno dei coniugi.
La gratuità dell’assegnazione in godimento della casa coniugale non si estende, tuttavia, alle spese ordinarie di condominio, ne consegue che obbligato al pagamento è il coniuge cui sia stato assegnato il godimento della casa familiare, restando ovviamente a carico dell'altro coniuge che sia unico proprietario dell'immobile il pagamento delle spese straordinarie.
Naturalmente se il Giudice, in sede di separazione coniugale, disponga nel senso che sia il proprietario-non assegnatario a sostenere anche le spese ordinarie, troverà applicazione tra i coniugi questo diverso criterio (Cass. 3836/2006)
Se la casa è in comproprietà, fermo restando che il coniuge assegnatario è tenuto ad accollarsi le spese ordinarie, quelle straordinarie andranno ripartite fra i coniugi in proporzione alla quota di proprietà di ciascuno.
Con riferimento, invece, ai rapporti coniugi-condominio l’amministratore, in caso di assegnazione in godimento della casa familiare ad uno dei coniugi, è legittimato a chiedere il pagamento degli oneri condominiali soltanto a quello che risulti proprietario dell’appartamento, in mancanza di diverso accordo o provvedimento giudiziale contenente l'indicazione di chi debba pagare, atto che deve essere idoneamente portato a conoscenza dell'amministratore.
E comunque, in caso di insolvenza, visto che qualsiasi decreto o sentenza emesso in sede di separazione o divorzio fa stato solo nei confronti delle parti e non dei terzi, ivi compreso il condominio, l’amministratore potrà sempre rivolgersi giudizialmente al coniuge proprietario che, quale intestatario dell’unità immobiliare che forma l’edificio condominiale, rimane sempre obbligato al pagamento delle spese condominiali.
- Locatore e conduttore
Per quanto la legge sull’equo canone abbia posto a carico degli inquilini la quasi totalità delle spese condominiali (art. 9, legge n. 392/1978) non sussiste, nei confronti del condominio, una solidarietà tra i due soggetti.
Le spese che nel rapporto di locazione sono poste interamente a carico dell’inquilino, salvo patto contrario, riguardano il servizio di pulizia; il funzionamento e l'ordinaria manutenzione dell'ascensore; la fornitura dell'acqua, dell'energia elettrica, del riscaldamento e del condizionamento dell'aria; lo spurgo dei pozzi neri e delle latrine, nonché la fornitura di altri servizi comuni. Le spese per il servizio di portineria sono a carico del conduttore nella misura del 90 per cento, salvo che le parti abbiano convenuto una misura inferiore
E’ pacifico che il conduttore, anche se detentore qualificato del bene, è soggetto estraneo al condominio, con la conseguenza che le spese comuni devono essere pagate all’Ente dal proprietario.
Anche se il conduttore ha il diritto partecipare alle riunioni condominiali e di votare, in luogo del proprietario, nelle delibere concernenti la gestione del servizio di riscaldamento o di condizionamento d’aria (art. 10 legge n. 392/1978, non abrogato dalla legge n. 431/1998 di riforma delle locazioni abitative), tale prerogativa non è produttiva di obblighi diretti dell’inquilino nei confronti del condominio.
In questo senso la giurisprudenza di legittimità: «solo i proprietari delle porzioni di piano di un edificio sono obbligati verso il condominio al pagamento degli oneri condominali, e non anche i conduttori. Tra il condominio e questi ultimi non esiste alcun rapporto che legittimi la proposizione di azioni dirette dell’uno nei confronti degli altri, neppure se questi hanno provveduto in passato a pagare personalmente e di propria spontanea volontà gli oneri condominiali direttamente al condominio» (Cass. 17619/2007).
- Eredi
L’erede è, rispetto al de cuius, suo avente diritto e, come tale, risponde in ordine al pagamento degli oneri condominiali relativi all’anno in corso ed a quello precedente.
In base al disposto dell’art. 752 c.c. i coeredi contribuiscono tra loro al pagamento dei debiti e pesi ereditari in proporzione delle loro quote ereditarie, salvo che il testatore abbia altrimenti disposto.
Pertanto le spese condominiali concernenti i beni immobili di un soggetto e maturate dopo la morte del proprietario soggiacciono necessariamente all’art. 752 cit. il quale, peraltro, non esclude la possibilità di recuperarle ex art. 63 disp. att. c.c.
6. Le obbligazioni di pagamento degli oneri condominiali in caso di fallimento del condomino
Si prospettano due ipotesi:
• I crediti condominiali sono maturati prima del fallimento
Nessuna delle previsioni normative volte a conferire una particolare preferenza a specifiche categorie di crediti si applica ai crediti vantati dal condominio verso il proprietario fallito.
I crediti per contributi condominiali maturati ante fallimento non sono dunque assistiti da alcun privilegio e sono riconosciuti come crediti chirografari.
In nome del principio fondamentale della parità dei creditori, pertanto, l’amministratore dovrà presentare domanda di ammissione al passivo in conseguenza della quale verrà accertata la fondatezza del credito vantato.
• I crediti condominiali sono maturati dopo il fallimento
La fattispecie è stata per la prima volta disciplinata dall’art. 30 della legge n. 220/2012, il quale testualmente dispone che "i contributi per le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria nonché per le innovazioni sono prededucibili ai sensi dell'articolo 111 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni, se divenute esigibili ai sensi dell'articolo 63, primo comma, delle disposizioni per l'attuazione del codice civile e disposizioni transitorie, come sostituito dall'articolo 18 della presente legge, durante le procedure concorsuali”.
In sostanza, le spese condominiali maturate dopo il fallimento vengono pagate prima di ogni altro debito della procedura.
Va, infine, segnalato che se al condomino fallito manchino, ovvero vengano a mancare (nel corso della procedura) i mezzi di sussistenza, il giudice delegato, sentito il curatore ed il comitato dei creditori, può concedere un sussidio a titolo di alimenti a lui ed alla famiglia (art. 47 legge fall.).
La norma, inoltre, attribuisce al fallito il diritto soggettivo di abitare, con la famiglia, la casa di sua proprietà sino alla liquidazione dell'attivo. Quando ciò si verifichi, sorge il problema del rapporto fra condominio, persona fallita e fallimento. Sul punto non vi sono certezze.
Si contendono il campo due opposti convincimenti.
Da un lato, vi è chi sostiene che al pagamento degli oneri condominiali sia tenuto il fallito che occupi l'immobile, dovendo all'uopo mettere a disposizione del condominio il sussidio concesso eventualmente dal fallimento.
Tale posizione si basa sulla considerazione che il sussidio attiene alla sopravvivenza della persona e quindi al vitto ma, altresì, all’alloggio.
Dall'altro lato, vi sono coloro i quali sostengono l'inespropriabilità assoluta dell'assegno alimentare ex articolo 47, I comma, Legge Fallimentare, stante il disposto dell'articolo 545 codice procedura civile (crediti impignorabili) e dell'articolo 46 Legge Fallimentare (beni non compresi nel fallimento).
In definitiva, la scelta meno rischiosa per l'amministratore è sempre quella di chiedere al curatore fallimentare il pagamento in prededuzione degli oneri condominiali successivi alla data del fallimento, lasciando a lui l’incombente di rivalersi eventualmente sul fallito che sia stato beneficiato ex articolo 47 L.F.
7. Fondo speciale e fondo cassa
Per consentire di affrontare l’impegno di spese di rilevante entità la riforma del condominio del 2012 ha modificato l’art.1135 ove, nel primo comma, è stato inserito il numero 4), ai sensi del quale l’assemblea, quando delibera opere di manutenzione straordinaria o innovazioni, deve disporre la costituzione di un fondo speciale di importo pari all’ammontare dei lavori (in precedenza il fondo era meramente facoltativo e riferito alla sola manutenzione straordinaria).
La norma è stata, poi, integrata da una precisazione (inserita in sede di d.l. n. 145/2013, convertito nella legge n. 9/2014) secondo la quale “se i lavori devono essere eseguiti in base a un contratto che ne prevede il pagamento graduale in funzione del loro progressivo stato di avanzamento, il fondo può essere costituito in relazione ai singoli pagamenti dovuti”.
La finalità è quella di costituire, in via preventiva, un accantonamento per lavori di particolare rilevanza economica, già deliberati, in modo da prevenire la mancanza di fondi cui consegua la morosità nei confronti delle ditte appaltatrici, evitando al condominio di subire azioni ingiuntive da parte dei terzi.
Gli importi che confluiranno sul conto condominiale a tale titolo non potranno avere altra destinazione se non quella prevista ex lege. In poche parole l’amministratore non potrà attingere al fondo per affrontare spese di diversa natura.
L’entità del fondo deve risultare a bilancio.
Differente è la questione di eventuali ulteriori fondi cassa che, non previsti per legge, l’assemblea – nell’ambito dei propri poteri discrezionali – decida di costituire. Su tale decisione non può cadere il sindacato del giudice, se non nei limiti della verifica dell'esistenza eventuale di eccesso di potere e della mancata violazione di diritti soggettivi di condomini.
Stando all’insegnamento della Suprema Corte “non pregiudica ne' l'interesse dei condomini alla corretta gestione del condominio, ne' il loro diritto patrimoniale all'accredito della proporzionale somma - perché compensata dal corrispondente minor addebito, in anticipo o a conguaglio - l'istituzione di un fondo cassa per le spese di ordinaria manutenzione e conservazione dei beni comuni, e la relativa delibera è formalmente regolare” (Cass. 8167/1997).
Risulta di tutta evidenza che la disponibilità, da parte dell'amministratore, di somme gli consente di affrontare con maggiore prontezza e tranquillità l'ordinaria gestione del condominio.
Si segnala, ancora, Cass. 13631/ 2001 ove si afferma che “nell'ipotesi di effettiva, improrogabile urgenza di trarre aliunde somme - come nel caso di aggressione in executivis da parte di creditore del condominio, in danno di parti comuni dell'edificio - può ritenersi consentita una deliberazione assembleare, la quale tenda a sopperire all'inadempimento del condomino moroso con la costituzione di un fondo - cassa ad hoc, tendente ad evitare danni ben più gravi nei confronti dei condomini tutti”.
In relazione alla durata pluriennale di un eventuale fondo i giudici di legittimità si sono così espressi: “il disposto degli artt. 1129 (nomina annuale dell'amministratore), 1135, n. 2 (preventivo annuale di spesa), 1135, n. 3 (rendiconto annuale delle spese e delle entrate) del cod. civ. configura una dimensione annuale della gestione condominiale, sicché è nulla la deliberazione condominiale che, nell'assenza di un'unanime determinazione, vincoli il patrimonio dei singoli condomini ad una previsione pluriennale di spese, oltre quella annuale, ed alla quale si commisuri l'obbligo della contribuzione (nella specie, la S.C., in applicazione dell'enunciato principio di diritto, ha confermato la sentenza del merito che aveva dichiarato la nullità della deliberazione condominiale con la quale era stato così approvato a maggioranza: "continuare a versare le quote relative al fondo di riserva per l'anno 1988 e per i prossimi cinque anni, pari ad una quota condominiale trimestrale per ogni anno, che dovrà essere versata entro il 30 maggio di ogni anno").
Il fondo cassa può, evidentemente, essere previsto anche dai regolamenti condominiali.
CAPITOLO NONO
IL RECUPERO FORZOSO DEI CREDITI CONDOMINIALI
Come visto in precedenza uno dei compiti fondamentali affidati all’amministratore è quello previsto dal n.3 dell’art. 1130 c.c., ovvero riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni e per l’esercizio dei servizi comuni.
L’attività ordinaria dell’amministratore non richiede il consenso dell’assemblea, mentre per la manutenzione straordinaria ogni decisione deve passare al vaglio dell’organo deliberante.
Le spese nel loro complesso (ordinarie, straordinarie e relative ad innovazioni), quindi, devono essere versate dai condomini a prima richiesta dell’amministratore il quale, in caso di mancato adempimento è tenuto ad inviare un sollecito e, nel perdurare del comportamento omissivo, deve procedere al recupero forzoso del credito.
1. Obbligatorietà dell’azione di recupero e sospensione dal godimento dei servizi comuni
La legge ha stabilito, per la prima volta, che l’amministratore è obbligato ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dai condomini entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio nel quale il credito è esigibile.
Il termine indicato dal legislatore, la cui inottemperanza da parte dell’amministratore è prevista come grave irregolarità ai fini di una sua revoca da parte dell’autorità giudiziaria, non lo esime dal proporre un’azione ingiuntiva senza attendere la chiusura del bilancio.
Essendo, infatti, pacifico (Cass. 4631/2001) che il decreto ingiuntivo può essere emesso anche sulla base di un bilancio preventivo e della relativa ripartizione, correttamente approvati dall’assemblea, è evidente che se i condomini non versano puntualmente e costantemente le quote richieste tale comportamento può rallentare o bloccare la gestione del condominio.
Vi è un solo caso in cui l’amministratore non potrà essere accusato di inerzia, ed è quello in cui sia proprio l’assemblea a dispensarlo dal procedere in via giudiziale (art. 1129, co. 9, c.c.).
Si tratta di una piena discrezionalità dell’organo deliberante che, in ogni caso, non è soggetta al sindacato del giudice a meno che non emerga che la decisione è affetta dal vizio di eccesso di potere.
Quanto alla questione concernente la possibilità di sospendere i servizi condominiali al moroso, anche se circoscritta a quelli di suscettibilità separata, la norma è di difficile applicazione e, proprio per questo ad essa si ricorre assai di rado.
La riforma del codice ha sottoposto la determinazione al giudizio dell’amministratore, mentre in precedenza occorreva che tale decisione fosse prevista nel regolamento di condominio.
A tal fine è necessario presentare al Tribunale un ricorso ex art. 700 c.p.c. La giurisprudenza di merito, sul punto è contrastante.
2. Presupposti per l’emissione del decreto ingiuntivo
• Non occorre l’autorizzazione dell’assemblea;
• Il ricorso deve essere fondato su prova scritta che, per l’anno in corso è rappresentata dal bilancio preventivo approvato dalla delibera assembleare e dal relativo riparto delle spese (Cass. 24299/2008), mentre per gli anni precedenti dal bilancio consuntivo e riparto sempre accompagnati dalla delibera;
• Se il decreto ingiuntivo si riferisce ad innovazioni, ricostruzioni ecc. è necessario depositare la relativa delibera con il riparto;
• Per evitare che in sede di opposizione il decreto ingiuntivo sia dichiarato nullo, secondo una recente giurisprudenza di merito (anche se minore), sarebbe necessario che l’azione sia preceduta da una lettera di sollecito o da formale messa in mora (Giud. Pace di Taranto 01/03/2016) nei confronti di tutti gli aventi diritto e comproprietari dell’immobile.
Tale decisione non ha tenuto, tuttavia, conto di una precedente decisione della Corte di Cassazione (Cass. 9181/2013) nella quale si affermava che tale preclusione è possibile solo in presenza di un’espressa norma del regolamento di condominio, che imponga all’amministratore un tale adempimento. Mentre non è sufficiente, ai fini della nullità del decreto ingiuntivo, che la clausola regolamentare si riduca a mera “regola di condotta dalla cui violazione potrebbe, in ipotesi, discendere una responsabilità da inesatto adempimento del mandato, ma non la preclusione processuale invocata”.
• In considerazione del fatto che, nel caso di comproprietà sul bene, i soggetti sono solidalmente obbligati nei confronti del condominio, il ricorso deve essere indirizzato a tutti i proprietari dell’immobile.
3. L’opposizione al decreto ingiuntivo
Il decreto ingiuntivo deve essere notificato, pena la sua inefficacia, entro sessanta giorni dalla pronuncia (se nel territorio della Repubblica), ovvero novanta negli altri casi.
La domanda può essere riproposta se detti termini non sono stati rispettati.
Avverso il decreto, provvisoriamente esecutivo, il condomino può proporre opposizione nel termine perentorio di quaranta giorni dalla notifica, tramite atto di citazione notificato al Condominio presso il domicilio eletto.
In sede di opposizione il condomino può far valere tutti i motivi di rito (ad esempio: carenza di legittimazione passiva dell’ingiunto; prescrizione del debito; vizi di delega, ecc.) e di merito (come l’insussistenza del debito; l’insufficienza della documentazione posta a fondamento dell’ingiunzione e così via).
Non può costituire motivo di opposizione l’annullabilità della delibera avente ad oggetto l’approvazione delle spese condominiali che, invece, deve essere fatta valere in via separata con l’impugnazione di cui all’articolo 1137 codice civile (Cass. 17214/2010).
Allo stesso modo in sede di opposizione, il condomino non può far valere questioni relative alla validità o meno della delibera, impugnata in altro giudizio sia pure pendente, in quanto il giudizio di opposizione ha unicamente riguardo alla efficacia o meno della delibera (Cass. 3354/2016), con la conseguenza che il giudice dell’opposizione deve limitarsi a prendere atto se nel giudizio di impugnazione sia stata o meno ordinata la sospensione dell’esecuzione della deliberazione (Cass. Sez. Un. 26629/2009).
In argomento si ricorda altra importante decisione, con la quale si è affermato che “nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di oneri condominiali, il limite alla rilevabilità d'ufficio dell'invalidità delle sottostanti delibere non opera allorché si tratti di vizi implicanti la loro nullità, trattandosi dell'applicazione di atti la cui validità rappresenta un elemento costitutivo della domanda” (Cass. 305/2016).
Altro principio fondamentale è stato espresso dalla Corte la quale ha precisato che “la sospensione necessaria del processo ex art. 295 cod. proc. civ., nell'ipotesi di giudizio promosso per il riconoscimento di diritti derivanti da titolo, ricorre quando in un diverso giudizio tra le stesse parti si controverta dell'inesistenza o della nullità assoluta del titolo stesso, poiché al giudicato d'accertamento della nullità - la quale impedisce all'atto di produrre "ab origine" qualunque effetto, sia pure interinale - si potrebbe contrapporre un distinto giudicato, di accoglimento della pretesa basata su quel medesimo titolo, contrastante con il primo. Detto principio di inesecutività del titolo impugnato a seguito di allegazione della sua originaria invalidità assoluta è derogato, nella disciplina del condominio, da un sistema normativo che mira all'immediata esecutività del titolo, pur in pendenza di controversia, a tutela di interessi generali ritenuti prevalenti e meritevoli d'autonoma considerazione, sicché il giudice non ha il potere di disporre la sospensione della causa di opposizione a decreto ingiuntivo, ottenuto ai sensi dell'art. 63 disp. att. cod. civ., in relazione alla pendenza del giudizio in cui sia stata impugnata la relativa delibera condominiale, restando riservato al giudice dell'impugnazione il potere di sospendere ex art. 1137 comma secondo cod. civ. l'esecuzione della delibera. Non osta a tale disciplina derogatoria il possibile contrasto di giudicati in caso di rigetto dell'opposizione all'ingiunzione e di accoglimento dell'impugnativa della delibera, poiché le conseguenze possono essere superate in sede esecutiva, facendo valere la sopravvenuta inefficacia del provvedimento monitorio, ovvero in sede ordinaria mediante azione di ripetizione dell'indebito” (Cass. Sez. Un. 4421/2007).
L’assenza di rapporto di pregiudizialità tra delibera assembleare e giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo investe anche eventuali eccezioni di continenza che potrebbero determinare la sospensione necessaria del processo a norma dell’art. 295 c.p.c.
4. L’esecutività del decreto ingiuntivo ed i problemi della solidarietà verso i terzi
L’art. 63 disp.att.c.c., premessa la sussistenza dei requisiti necessari, consente l’emissione di decreto ingiuntivo condominiale immediatamente esecutivo.
L’ opposizione non sospende l’esecutività, a meno che non sia il giudice a farlo nella prima udienza di trattazione della causa di merito.
La pronuncia del giudice sul punto (sospensione o conferma della provvisoria esecuzione) determina il momento in cui, essendosi passati dalla fase sommaria del giudizio a quella di merito, si deve avviare la procedura di mediazione obbligatoria.
Rilevante in questa sede evidenziare che secondo la Corte di Cassazione “in tema di opposizione a decreto ingiuntivo, l'onere di esperire il tentativo obbligatorio di mediazione verte sulla parte opponente poiché l'art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 deve essere interpretato in conformità alla sua "ratio" e, quindi, al principio della ragionevole durata del processo, sulla quale può incidere negativamente il giudizio di merito che l'opponente ha interesse ad introdurre” (Cass. 24629/2015).
Nel caso del condominio, pertanto, sarà il condomino/moroso ad avere interesse a procedere con la mediazione per non vedere consolidato il decreto in suo sfavore.
Sussiste, per i debiti contratti dal condominio nei confronti dei terzi, una solidarietà che, prima dell’entrata in vigore della legge di riforma del 2012, potevano far valere, indiscriminatamente, nei confronti di uno qualsiasi dei condomini anche se adempiente e che, in seguito alla novella legislativa, è stata diversamente regolamentata.
Non si può prescindere dall’importanza determinante di una decisione dei giudici di legittimità che ha segnato un nuovo punto di partenza per determinare le graduazioni di tale sussidiarietà.
Si è, infatti, affermato che “in riferimento alle obbligazioni assunte dall'amministratore, o comunque, nell'interesse del condominio, nei confronti di terzi - in difetto di un'espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, trattandosi di un'obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro, e perciò divisibile, vincolando l'amministratore i singoli condomini nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote, in conformità con il difetto di struttura unitaria del condominio - la responsabilità dei condomini è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ. per le obbligazioni ereditarie” (Cass. Sez. Un. 9148/2008).
Il dibattito che ne è nato ha portato il legislatore a emendare l’art. 63 introducendo due modifiche:
• l’amministratore è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti, e che lo interpellino, i dati dei condomini morosi(co.1);
• i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini (co. 2).
La modifica incide, evidentemente, nella fase di esecuzione allorché perduri la morosità del/dei condomini anche dopo la notifica del decreto ingiuntivo e del precetto.
La questione, che continua a far discutere dottrina e giurisprudenza, riguarda la circostanza se il creditore possa subito procedere al pignoramento nei confronti del moroso, oppure se debba prima tentare di acquisire quanto di suo diritto dal Condominio.
Secondo un profilo logico, peraltro supportato da argomentazioni giuridiche, il terzo deve, in prima istanza, tentare di recuperare i soldi dal condominio, poi dai morosi ed in ultima battuta da coloro che hanno già adempiuto alla loro obbligazione. Il tutto, quindi, con una graduazione più che coerente.
Senza prescindere dalla scarsa chiarezza della norma, non può evitarsi di rilevare che il condominio, ente sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini, è il debitore principale, considerato che la capienza del conto corrente condominiale permette al creditore di soddisfare il proprio credito.
Altri elementi di rilevanza considerevole sono che:
• l’assunzione di qualsivoglia obbligazione con i terzi avviene tramite sottoscrizione del relativo contratto da parte dell’amministratore;
• il decreto ingiuntivo – titolo per l’esecuzione - viene richiesto nei confronti del condominio e non dei singoli partecipanti ad esso;
• il precetto è notificato al condominio.
A ciò si aggiungono ulteriori osservazioni significative tratte dalla prima giurisprudenza, per ora solo di merito.
Secondo un orientamento maggioritario, infatti, è stato evidenziato che le somme versate dai condomini, nel momento in cui affluiscono sul conto corrente condominiale, sono sottratte alla disponibilità dei singoli, in quanto trattasi di importi destinati a realizzare interessi comuni, attuali o preventivati oppure che saranno individuati ed approvati in seno alle singole assemblee.
Con tale operazione, pertanto, in ordine alla c.d. “proprietà” delle somme, qualsivoglia legame giuridico tra i due soggetti si interrompe (Trib. Ascoli Piceno 22/12/2015). Tanto è vero che il singolo condomino non può vantare alcun titolo per una eventuale restituzione (Trib. Reggio Emilia 16/05/2014).
Inoltre è stato affermato che nessuna norma, e quindi neppure l’art. 63 cit., stabilisce l’onere di preventiva escussione del condomino rispetto ad un’azione esecutiva validamente intrapresa nei confronti del condominio (Trib. Pescara 08/05/2014).
Non mancano, tuttavia, sporadiche decisioni di senso contrario, per cui è necessario attendere i futuri orientamenti della giurisprudenza.
In questo contesto assume grande rilievo la disciplina della privacy.
Il Garante per la protezione dei dati personali più volte ha avuto modo di chiarire che il condominio, in quanto titolare del trattamento, può trattare solo informazioni personali e necessarie per la gestione e l’amministrazione delle parti comuni.
Né il condominio, né l'amministratore, né il portiere, né il singolo condomino od inquilino che (per ragione del ruolo, per la vicinanza, per la condivisione delle parti comuni o per semplice casualità) che venga a conoscenza di un dato personale può farlo conoscere ad altro partecipante del condominio oppure a terzo.
Il Garante ha anche affermato che “salva la presenza di una causa giustificatrice (quale il consenso dell'interessato o uno degli altri presupposti previsti all'articolo 24 del Codice), è illecita la comunicazione a terzi di dati personali riferiti ai partecipanti: ciò potrebbe avvenire, ad esempio, mettendo a disposizione di terzi dati personali riportati nei prospetti contabili o dei verbali assembleari” (Provvedimento 18 maggio 2006, in Gazzetta Ufficiale 152 del 2 luglio 2006).
La riforma del condominio del 2012, di recente formulazione, ha generato le prime decisioni di merito in relazione all’interpretazione dell’art. 63, nella parte in cui stabilisce a carico dell’amministratore l’obbligo di comunicare ai creditori che ne facciano richiesta i “dati dei condomini morosi”.
Dalle prime sentenze emerge che tale obbligo non si ferma alla comunicazione dei nominativi ma vada oltre.
1) Trib. Tivoli, ord., 21/04/2016: il giudicante ha affermato che non è sufficiente, ai fini della corretta applicazione dell’art. 63, che l’amministratore comunichi solo il nome e cognome dei morosi essendo necessario, per la completa tutela del terzo, che siano resi noti anche gli altri dati anagrafici dei debitori, ovvero data e luogo di nascita nonché residenza. Tutti elementi traibili dall’anagrafe condominiale.
2) Trib. Monza, ord., 03/06/2015: è stato ritenuto che la morosità deve riguardare specificamente il debito del creditore istante.
Ha aggiunto il giudicante che anche se l’art. 1136, n. 6, c.c., trattando dell’anagrafe condominiale, non menziona le quote millesimali di ciascun condomino, il termine “dati” di cui all’art. 63 deve intendersi comprensivo anche di queste. Si è ritenuto sul punto che “la sussidiarietà implica che non vi è solidarietà, e che quindi vale l’idea dell’azione pro quota del terzo creditore, ex Cass. Sez. Un. 9148/2008, verso il singolo moroso”.
E’ pacifico, inoltre, in quanto esula dall’ambito di applicazione della norma in esame, che l’amministratore non può esporre “nella bacheca dell'androne condominiale il dato personale concernente le posizioni di debito del singolo condomino va al di là della giustificata comunicazione dell'informazione ai soggetti interessati nell'ambito della compagine condominiale; tale affissione, infatti, avvenendo in uno spazio accessibile al pubblico, non solo non è necessaria ai fini dell'amministrazione comune, ma, soprattutto, si risolve nella messa a disposizione di quei dati in favore di una serie indeterminata di persone estranee e, quindi, in una indebita diffusione, come tale illecita e fonte di responsabilità civile, ai sensi degli artt. 11 e 15 del codice” (Cass. 186/2011).
Quali, infine, le conseguenze per l’amministratore che non ottemperi al dettato dell’art. 63, co.1, disp.att.c.c.?
In una recente decisione (Trib. Palermo 05/05/2016) si è affermato che l’obbligo dell’amministratore/mandatario sancito dall’art. 63 si configura come dovere di collaborazione nei confronti dei terzi titolari di crediti derivanti dalla gestione condominiale, rendendone, giocoforza, sanzionabile la colpevole inerzia.
La mancata comunicazione dei dati in questione non metterebbe, infatti, il creditore in grado di realizzare, parziariamente, il proprio credito.
Ed a tale fine già in anni precedenti lo stesso giudicante aveva ravvisato in tale comportamento una responsabilità del condominio, ed in via indiretta dell’amministratore rispetto agli obblighi assunti ex lege, per il pregiudizio del ritardo patito dal creditore al quale era stato negata la comunicazione dei dati dei condomini morosi (Trib. Palermo 19/03/2014).
CAPITOLO DECIMO
IL REGOLAMENTO DI CONDOMINIO
1. In generale
Il regolamento di condominio in dottrina è stato definito come “lo statuto contenente le norme che regolano la vita interna di quel gruppo sociale, costituito dai soggetti giuridici che, nell’ambito di un medesimo edificio, sono proprietari dei singoli piani o di porzioni di essi” (G.Alpa, P.Zatti: La nuova giurisprudenza civile commentata, Milano, 2010).
Per la redazione del regolamento è richiesta la forma scritta “ad substantiam”, trattandosi di atto che deve essere allegato al registro di cui al numero 7 dell’art. 1130 c.c.
Il regolamento deve essere rispettato non solo dai condomini, ma anche dai loro inquilini.
In caso di locazione è stato affermato che il conduttore di un immobile sito nel fabbricato condominiale può obbligarsi nei confronti del condominio, mediante accordo con lo stesso, a rispettare un regolamento di condominio non impegnativo per il condomino locatore. La Corte di Cassazione, tuttavia, ha escluso la configurabilità di detto accordo in presenza di una sottoscrizione unilateralmente apposta dal conduttore sul contratto di compravendita relativo all'unità immobiliare locata e contenente il richiamo al regolamento, non costituendo tale sottoscrizione l'accettazione di una proposta proveniente dal condominio ed a quest'ultimo comunicata (Cass. 10185/2012).
Per i giudici di legittimità (Cass. 11383/2006) il condomino/locatore risponde nei confronti degli altri condomini delle ripetute violazioni al regolamento condominiale consumate dal proprio conduttore qualora non dimostri di avere adottato, in relazione alle circostanze, le misure idonee, alla stregua del criterio generale di diligenza posto dall'art.1176 cod. civ., a far cessare gli abusi, ponendo in essere iniziative che possono arrivare fino alla richiesta di anticipata cessazione del rapporto di locazione (nella fattispecie, in cui il conduttore di un locale violava ripetutamente l'orario di chiusura previsto dal regolamento condominiale, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che aveva mandato assolto il condomino locatore, osservando che egli avrebbe potuto porre fine alle violazioni agendo in giudizio per la risoluzione del contratto di locazione).
Le infrazioni al regolamento possono essere sanzionate con l’applicazione di una multa dell’importo da € 200,00 ad € 800,00 (in caso di recidiva) che sarà devoluta al fondo di cui l’amministratore dispone per le spese ordinarie (art. 70 disp.att.c.c.).
L’entità dell’importo è rimessa alla decisione dell’assemblea.
L’art. 1138, co.1, c.c. stabilisce che quando in un edificio il numero dei condomini sia superiore a dieci, deve essere formato un regolamento, che contenga le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione.
L’obbligatorietà prevista dalla legge non esclude che condominii di dimensioni inferiori si possano dotare di regolamento.
Si tratta di un onere posto esclusivamente a carico dei condomini e non anche del venditore delle singole unità immobiliari, pur se questi sia il costruttore dello stabile (Cass. 2742/2012).
Se il numero dei condomini si riduce a meno di dieci, il regolamento esistente resta in vita e continua ad essere obbligatorio per tutti.
Il regolamento non può formarsi quando i condomini siano solo due mancando, in tale ipotesi, la possibilità di realizzare una maggioranza qualificata.
Ai sensi dell’art. 1138, co. 2, “ciascun condomino può prendere l’iniziativa per la formazione del regolamento di condominio o per la revisione di quello esistente”.
Questione rilevante: se in un condominio in cui sia obbligatoria la redazione di un regolamento l’assemblea non provveda, il condomino interessato si può rivolgere all’autorità giudiziaria per ottenere un provvedimento giudiziale che si sostituisca all’assemblea?
Sul punto la dottrina è discorde.
Da un lato vi è chi esclude tale possibilità sulla base di alcune considerazioni:
• la normativa prevede che l’assemblea deve approvare il regolamento con la maggioranza prevista dall’art. 1136, co.2, c.c. (maggioranza dei presenti all’assemblea pari a 501 millesimi);
• il regolamento è atto utile ma non indispensabile per il funzionamento della vita condominiale;
• se l’assemblea, regolarmente convocata, si rifiutasse di approvare il regolamento il condomino dovrebbe adire l’autorità giudiziaria impugnando la delibera. In tal caso il giudice adito potrebbe annullare la delibera solo per violazione di legge o eccesso di potere, non potendo egli pronunciarsi su decisioni che rientrano nel pieno ambito discrezionale dell’organo deliberante.
Per altro verso parte della dottrina, sulla base di una interpretazione della norma in esame, ritiene che il condomino possa ricorrere al giudice. Infatti:
• l’art. 1138, co. 1, impone l’obbligo della formazione del regolamento nei condomini con più di dieci unità immobiliari (peraltro senza conseguenti sanzioni) e, contestualmente, riconosce al singolo/i il diritto di attivarsi (co. 2) senza prevedere per esso/i una tutela;
• soprattutto con riferimento a realtà condominiali complesse (ad esempio edifici costituiti da un numero elevato di unità) l’interesse perseguito dal condomino/i non è di natura personale ma generale, poiché il regolamento di condominio, con tutte le sue clausole, è finalizzato a prevenire i facili contrasti che potrebbero insorgere in seno alla collettività.
La giurisprudenza in materia è scarsa.
Con una risalente decisione la Suprema Corte ha ammesso la possibilità di un regolamento adottato tramite via giudiziaria, affermando che «i regolamenti condominiali, non approvati dall’assemblea, ma adottati coattivamente, in virtù di sentenza attuativa del diritto potestativo di ciascun partecipe del condominio (con più di dieci componenti) di ottenere la formazione del regolamento della comunione, hanno efficacia vincolante per tutti i condomini, ai sensi dell’art. 2909 c.c., indipendentemente dalla circostanza che la loro adozione sia avvenuta nel dissenso, totale o parziale, di taluno di essi, allorché la pronuncia che ne abbia sanzionato l'operatività sia divenuta non più impugnabile e, quindi, definitiva ed irretrattabile” (Cass.1218/1993).
Successivamente (Cass. n. 12291/2011) gli stessi giudici, nel ribadire il principio in precedenza espresso, hanno precisato che “il giudice può approvare il regolamento formato su iniziativa di un condomino ex art. 1138, comma 2 c.c., ma non predisporlo a propria cura e che l’estensione di esso anche a coloro i quali non presero parte alla sua formazione è attuata propter rem”.
Quanto al contenuto del regolamento giudiziale è stato affermato che il giudice potrà prendere in esame le norme sull’uso delle parti comuni, sulla ripartizione delle spese, sulla tutela del decoro architettonico dell’edificio e così via.
Nel piccolo condominio, considerata la facoltatività dell’esistenza di tale atto, se l’assemblea rimane inerte, nel senso di non provvedere ovvero di non raggiungere il quorum costitutivo o deliberativo, il condomino interessato non ha spazio per rivolgersi all’autorità giudiziaria.
Da ultimo va evidenziato che con la riforma del 2012 il regolamento deve essere allegato al registro dei verbali di assemblea, mentre in precedenza ne era prevista la trascrizione nel predetto registro.
2. Regolamento contrattuale e regolamento assembleare
E’ di natura contrattuale e, quindi, ha forza vincolante, il regolamento formato dall’unico proprietario (che spesso è lo stesso costruttore dello stabile) prima del trasferimento delle singole porzioni immobiliari ed accettato dai singoli acquirenti mediante specifici atti di adesione al complesso delle norme predisposte (Cass. 19798/2014).
L'obbligo, assunto con il contratto di acquisto di un'unità immobiliare di un fabbricato, di rispettare il regolamento di condominio che sarà predisposto dal costruttore (c.d. regolamento futuro) non vale a conferire a quest'ultimo il potere di redigere un qualunque regolamento, né può comportare l'approvazione di un regolamento attualmente inesistente, atteso che solo il concreto richiamo nel singolo atto d'acquisto di uno specifico regolamento, già esistente, consente di considerarlo, "per relationem", parte di tale atto (Cass. 5657/2015).
Contrattuali sono anche i regolamenti adottati in sede assembleare con il consenso unanime di tutti i condomini (Cass. 1748/2013).
Il regolamento contrattuale (o convenzionale o negoziale), anche se non inserito nel testo del contratto di compravendita dei singoli appartamenti dell’edificio condominiale, fa corpo con esso, ove sia espressamente richiamato ed approvato nei singoli atti di acquisto. Nella specie, trattandosi di relatio perfetta, in quanto il richiamo contenuto nei singoli contratti è opera di entrambi i contraenti, le singole clausole del regolamento di condominio restano fuori della previsione legislativa di cui all’art. 1341, comma 2 c.c. (Cass. 395/1993).
Questo tipo di regolamento potrà contenere, oltre i millesimi di proprietà e le varie tabelle di ripartizione delle spese, norme limitative dei diritti di proprietà sulle cose comuni (es. divieto di usare il cortile comune per parcheggiare le automobili) e su quelle individuali (es. divieto di destinare l’appartamento ad ufficio).
La limitazione dei poteri e delle facoltà del condomino deve essere volta al fine di assicurare un maggior godimento collettivo dell’edificio, non potendo le stesse, se non espressamente approvate, comprimere senza valido motivo il diritto di proprietà esclusiva del condomino.
Si parla, in questo caso di «oneri reali» o «servitù» che, trascritti, vincolano – come si vedrà – anche i successivi acquirenti del singolo appartamento a titolo particolare.
Nei regolamenti contrattuali hanno natura negoziale solo quelle disposizioni che incidono sui diritti soggettivi dei condomini, mentre hanno natura regolamentare quelle concernenti le modalità d’uso delle cose comuni ed in generale l’organizzazione ed il funzionamento dei servizi condominiali (Cass. 17694/2007).
Al contrario il regolamento disciplinato dall’art. 1138 c.c. è di natura assembleare.
Delimitato nel suo contenuto, in quanto le relative norme sono dirette all’uso delle cose comuni ed alla ripartizione delle spese (secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino) nonché alle disposizioni per la tutela del decoro dell’edificio ed all’amministrazione, deve essere approvato dall’assemblea con la maggioranza prevista dall’art. 1136, comma 2 c.c.
Esso non può disciplinare i diritti dei condomini sulle parti comuni dell’edificio e su quelle di proprietà esclusiva.
Il regolamento assembleare può essere impugnato dinanzi all’autorità giudiziaria nel termine di trenta giorni dalla deliberazione che lo ha approvato, con le stesse decorrenze previste per l’impugnativa delle delibere assembleari. Decorso infruttuosamente detto termine il regolamento ha effetto anche per gli eredi e gli aventi causa dei singoli partecipanti (art. 1107 c.c.).
L'interpretazione di un regolamento contrattuale di condominio da parte del giudice di merito è insindacabile in sede di legittimità, quando non riveli violazione dei canoni di ermeneutica oppure vizi logici per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della motivazione. Ne consegue che il ricorrente per cassazione che denunzi un vizio di motivazione della sentenza sotto il profilo dell'omesso e errato esame di una dispostone del regolamento di condominio, deve precisare specificamente nel ricorso, non solo il contenuto del regolamento, almeno nelle parti salienti, ma anche, sia pure in maniera sintetica, quali regole di ermeneutica sono state violate, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività del preteso errore (Cass. 1406/2007. Conf. Cass. 21307/2016).
Nel silenzio della legge si ritiene che la modifica del regolamento, prevista dall’art. 1138 c.c., possa avvenire con le medesime maggioranze necessarie alla sua approvazione (e quindi a seconda del suo contenuto anzi meglio del contenuto da modificare).
Il requisito della forma scritta ad substantiam, elemento essenziale per la validità dell’atto, deve reputarsi necessario anche per le modificazioni del regolamento di condominio, perché esse, in quanto sostitutive delle clausole originarie del regolamento, non possono non avere i medesimi requisiti delle clausole sostituite, dovendosi, conseguentemente, escludere la possibilità di una modifica per il tramite di comportamenti concludenti dei condomini (Cass. 18665/2004).
3. Clausole regolamentari: contenuto e limiti
Si è già accennato che nel regolamento di condominio convivono clausole di natura regolamentare (finalizzate a disciplinare le vita condominiale senza imporre confini ai diritti dei singoli) e contrattuale (ovvero che incidono direttamente sulle prerogative dei condomini).
Il quarto comma dell’art. 1138 c.c. (già ultimo comma) definisce, in questo senso, i limiti del contenuto del regolamento condominiale, ed elenca una serie di disposizioni di legge che non possono essere derogate da tale atto, in quanto tutelano gli interessi fondamentali della collettività e dei terzi, esprimendo principi di ordine pubblico che garantiscono quella disciplina minima uniforme la cui eccezione potrebbe minare la tipicità e la esistenza stessa del condominio.
Trattasi, specificatamente, degli articoli:
- 1118, comma 2 (divieto di sottrazione alle spese di manutenzione dei beni comuni, mediante rinunzia);
- 1119 (indivisibilità delle cose comuni);
- 1120 (innovazioni utili);
- 1129 (nomina e revoca dell’amministratore);
- 1131 (rappresentanza legale dello stesso);
- 1132 (dissenso dei condomini rispetto alle liti);
- 1136 (costituzione dell’assemblea e validità delle delibere) e
- 1137 (impugnazione delle delibere dell’assemblea).
L’art. 72 di cui alla parte attuativa del codice civile prevede, inoltre, che i regolamenti condominiali non possono derogare ad ulteriori e disposizioni, ovvero:
- art. 63 disp.att.c.c. (relativo alla possibilità dell’amministratore di ottenere decreto ingiuntivo verso i morosi; alla solidarietà del nuovo acquirente con il condomino venditore per i contributi dell’anno in corso o di quello precedente ed alla possibilità dell’amministratore di sospendere al condomino moroso l’utilizzazione dei servizi comuni suscettibili di utilizzazione separata se sia previsto dal regolamento);
- art. 66 disp.att.c.c. (concernente le convocazioni straordinarie dell’assemblea);
- art. 67 disp.att.c.c. (riguardante le deleghe) ed
- art. 69 disp.att.c.c. (sulla revisione dei valori millesimali, conseguenza di errore o per mutata condizione di una parte dell’edificio).
Quanto alla modificabilità dello statuto del condominio, si ribadisce che è sempre possibile, con la maggioranza di cui al citato comma 2 dell’art. 1136, variare le singole clausole – anche se inserite in un atto di natura contrattuale - concernenti le modalità d’uso delle cose comuni, nonché l’organizzazione ed il funzionamento dei servizi.
Tutte le altre clausole, che incidono sui diritti dei singoli, saranno modificabili solo con il voto unanime dei condomini.
In questo ambito ed a titolo meramente esemplificativo si rileva che:
- in ordine all’ uso dei beni comuni, la giurisprudenza ha affermato che le clausole che disciplinano orari, giorni modalità del parcheggio nel cortile condominiale hanno natura regolamentare e possono essere adottate a maggioranza, così come le clausole che in genere disciplinano l’uso dei beni comuni garantendo equilibrio fra tutte le possibili concorrenti utilizzazioni da parte dei partecipanti al condominio (giur.costante) mentre
- le clausole che vietano l’uso delle parti comuni a determinati scopi (come ad esempio quelle che introducono il divieto di sosta o parcheggio nel cortile) hanno natura convenzionale e richiedono l’unanimità e la forma scritta (Cass. 17694/2007);
- e ancora la decisione di istituire o sopprimere il servizio di portierato ha natura regolamentare e può esser adottata a maggioranza (Cass. 5400/1997), ma se l’attuazione della decisione implica la necessità di innovazioni o modifiche alla destinazione d’uso, la maggioranza non è più sufficiente necessitandosi la maggioranza qualificata;
- con riferimento alla ripartizione delle spese il regolamento votato a maggioranza non può stabilire criteri di ripartizione difformi da quelli legali, necessitandosi all’uopo la diversa convenzione (vedasi infra) e quindi l’unanimità dei consensi (Cass. 641/2003);
- in ordine all’amministrazione si è affermato che la norma regolamentare approvata a maggioranza può derogare l’articolo 1130 codice civile e sottrarre all’amministratore il potere di compiere atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni (Cassazione 8719/97);
- in merito alla detenzione di animali domestici il legislatore del 2012 ha introdotto, nell’art. 1138, un ultimo comma che stabilisce che le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali di tale natura.
Secondo una interessante decisione di merito (Trib. Cagliari, ord., 22/07/2016 – Rg. 7170/2014) è nulla la clausola di un regolamento contrattuale, anche se adottato in data anteriore alla legge n. 220/2012, che imponga tale divieto per contrarietà della clausola “ai principi di ordine pubblico, ravvisabili, per un verso, nell’essersi indirettamente consolidata, nel diritto vivente e a livello di legislazione nazionale, la necessità di valorizzare il rapporto uomo – animale e, per altro verso, nell’affermazione di quest’ultimo principio anche a livello europeo”.
4. Trascrizione del regolamento
Il comma 3 dell’art. 1138 c.c. nella sua stesura originaria prevedeva, oltre alla maggioranza del comma 2 dell’art. 1136 per l’approvazione del regolamento assembleare, la trascrizione dello stesso nell’apposito registro condominiale (nel quale annotare anche la nomina e la cessazione dell’amministratore ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 1129), nonché la possibilità di impugnare il regolamento stesso a norma dell’art. 1107.
La nuova formulazione della norma ha sostituito la trascrizione con la semplice allegazione nel registro richiamato nell’art. 1130, n. 7, c.c.. La modifica non ha fatto altro che recepire il precedente orientamento giurisprudenziale che aveva affermato la non necessità di tale adempimento integrante un mero onere di pubblicità dichiarativa, la cui inosservanza non comportava e non comporta la nullità o l’inefficacia del regolamento nelle sue diverse forme, ma solo l’inopponibilità ai successivi acquirenti delle singole unità immobiliari comprese nell’edificio delle eventuali clausole limitative dei diritti esclusivi di proprietà spettanti a ciascun condomino (Cass. 714/1998).
Sul punto è stato chiarito che “in tema di condominio negli edifici, per l'opponibilità delle servitù reciproche costituite dal regolamento contrattuale, non è sufficiente indicare nella nota di trascrizione il regolamento medesimo, ma, ai sensi degli artt. 2659, primo comma, n. 2, e 2665 cod. civ., occorre indicarne le specifiche clausole limitative” (Cass. 17493/2014).
Ed ancora: “La clausola del regolamento di condominio di un edificio che impone il divieto di destinare i locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini a determinate attività, ritenute incompatibili con l'interesse comune (nella specie, divieto di destinare gli appartamenti a gabinetto odontotecnico), traducendosi in una limitazione delle facoltà inerenti al diritto di proprietà dei singoli condomini, deve essere approvata all'unanimità e per avere efficacia nei confronti degli aventi causa a titolo particolare dei condomini deve essere trascritta nei registri immobiliari oppure essere menzionata ed accettata espressamente nei singoli atti d'acquisto” (Cass.6100/1993).
CAPITOLO UNDICESIMO
IL SUPERCONDOMINIO
1. In generale
La disciplina sul condominio è stata estesa ai casi in cui più unità immobiliari o più edifici, ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiamo parti comuni ai sensi dell'art. 1117 c.c..
Pur non avendo il codice civile mai definito e disciplinato tale realtà immobiliare la giurisprudenza, nel corso degli anni, ne ha sempre più riconosciuto la valenza giuridica con un costante orientamento.
Ancora in un recente passato, infatti, si era affermato che “ai fini della costituzione di un supercondominio, non è necessaria né la manifestazione di volontà dell'originario costruttore, né quella di tutti i proprietari delle unità immobiliari di ciascun condominio, venendo il medesimo in essere "ipso iure et facto", se il titolo o il regolamento condominiale non dispongono altrimenti. Si tratta di una fattispecie legale, in cui una pluralità di edifici, costituiti o meno in distinti condomini, sono ricompresi in una più ampia organizzazione condominiale, legati tra loro dall'esistenza di talune cose, impianti e servizi comuni (quali il viale di accesso, le zone verdi, l'impianto di illuminazione, la guardiola del portiere, il servizio di portierato, ecc.) in rapporto di accessorietà con i fabbricati, cui si applicano in pieno le norme sul condominio, anziché quelle sulla comunione” (Cass. 19939/2012. Conf. Cass. 19799/2014 che ha precisato che per l’esistenza del supercondominio non è indispensabile l’esistenza di beni comuni a più edifici, compresi in una più ampia organizzazione condominiale, ma è sufficiente la presenza anche di soli servizi comuni, quali ad esempio: l’illuminazione, la rimozione rifiuti, la portineria).
In tal senso, nel merito, è stato affermato che il supercondominio esiste quando risulti non contestata l’effettiva esistenza di aree verdi in comune tra i vari edifici (Trib. Roma, 24 settembre 2015, n. 19313).
La figura del super condominio, peraltro, aveva trovato già un riconoscimento normativo indiretto nella previsione degli artt. 61 e 62 delle disposizioni di attuazione del codice civile che dispongono come, al momento dello scioglimento di un condominio, possa generarsi una realtà unitaria composta da strutture immobiliari autonome dotate, tuttavia, di beni o servizi in comune.
La nuova normativa, in vigore dal 17 giugno 2013, non definisce ancora il super condominio, ma vale a descrivere le tipologie strutturali in cui può articolarsi tale istituto di recentissimo conio, come anche ad individuare la disciplina ad esso applicabile.
L’art. 1117 bis codice civile, infatti, sotto il primo profilo, individua i casi tipici di “più unità immobiliari o più edifici, ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici che abbiano parti in comune ai sensi dell’art. 1117 codice civile”, mentre, sul versante della disciplina di riferimento, viene disposta l’applicazione delle disposizioni relative al condominio negli edifici in quanto compatibili con il nuovo istituto, salvo la previsione di speciali indicazioni di legge relative a singoli istituti del condominio complesso, come avviene in materia di assemblea ai sensi del novellato art. 67 delle disposizioni di attuazione al codice civile.
2. La disciplina applicabile
Salva la compatibilità tra i due istituti (condominio e supercondominio) il legislatore ha fatto riferimento a tutte le norme comprese tra gli artt. 1117 e 1139 c.c., da un lato e, dall’altro, gli artt. 61, 62 e 72 delle disp.att.c.c., ivi compreso l’art. 155 bis.e a questa forma di compagine.
In tal modo la novella del 2012, con un chiaro riconoscimento del prevalente orientamento giurisprudenziale (da ultimo Cass. 13883/2010), ha composto un contrasto dottrinale che, pur se in parte minoritaria, aveva ritenuto essere applicabile alla fattispecie la normativa generale in tema di comunione.
Particolare attenzione deve essere riservata al regolamento del supercondominio ed alle tabelle millesimali.
Quanto al regolamento, super condominio e sub-condominii possono essere disciplinati da un unico atto, che individui sia i beni di appartenenza dell’intero complesso (strade, impianti fognari, luce dei viali, recinzioni, aree destinate ai parcheggi delle autovetture, spazi dedicati al verde modalità di utilizzazione, con imposizione anche di divieti, ecc.), sia quelli di proprietà delle singole palazzine. Allo stesso modo in detto regolamento troveranno spazio le norme relative all’uso, ai limiti per il loro godimento e più in generale a tutte le dinamiche nelle quali si sviluppa l’organizzazione e gestione delle diverse realtà che compongono il supercondominio.
Anche in questo caso il regolamento può essere predisposto, in via unilaterale, dall’unico originario proprietario che, in genere, è il costruttore dell’intero sistema edilizio e recepito nei singoli atti acquisto, divenendo obbligatorio per l’acquirente medesimo e per i suoi aventi causa.
Secondo la giurisprudenza il regolamento del supercondominio:
- può contenere il divieto “di apportare modifiche strutturali, funzionali ed estetiche alle proprietà individuali rende superfluo, allorché si lamenti la sua violazione, l'esame giudiziale circa il rispetto, o meno, del decoro architettonico dell'intero complesso immobiliare” (Cass. 14898/2013);
- “predisposto dall'originario unico proprietario del complesso di edifici, accettato dagli acquirenti nei singoli atti di acquisto e trascritto nei registri immobiliari, in virtù del suo carattere convenzionale, vincola tutti i successivi acquirenti senza limiti di tempo, non solo relativamente alle clausole che disciplinano l'uso ed il godimento dei servizi e delle parti comuni, ma anche per quelle che restringono i poteri e le facoltà sulle loro proprietà esclusive, venendo a costituire su queste ultime una servitù reciproca” (Cass. idem).
Quanto alle tabelle millesimali nel supercondominio dovranno essere presenti due tipi di tabelle: la prima quale espressione del valore proporzionale di ogni singolo edificio in rapporto all’intera struttura complessa, talché la ripartizione delle spese avvenga tra gli edifici che costituiscono l’intero plesso edilizio. La seconda tabella, invece, suddividerà gli oneri di competenza di ciascun edificio tra i vari condomini dello stesso ed in misura proporzionale alla proprietà di ciascuno (Cass. 1206/1996).
Va da ultimo osservato che nulla vieta che anche in tale complessa realtà si possa formare, sempre per volere assembleare, un consiglio del supercondominio, con le funzioni consultive e di controllo previste dall’art. 1130bis, co. 2, c.c. Tuttavia, per non appesantire l’organico del supercondominio tale compito potrebbe essere affidato dall’assemblea di ciascun di ciascun condominio al proprio rappresentante, obbligatoriamente eletto – come vedremo – ai sensi dell’art. 67, co. 3, disp.att.c.c. quando i partecipanti sono, complessivamente più di sessanta.
3. Tipologie di supercondominio e figure affini
Le singole tipologie di “supercondominio” sono le più varie.
Le singole unità immobiliari possono articolarsi in un'unica struttura dotata di più corpi di fabbrica con scale e coperture comuni oppure in un complesso formato da più edifici o separati fabbricati condominiali non collegati da opere murarie, cosa che avviene, tipicamente, nel caso delle cosiddette villette a schiera che configurano, infatti, un’ipotesi definita “condominio orizzontale”.
Sul punto la giurisprudenza ha affermato che “la nozione di condominio è configurabile anche nel caso di immobili adiacenti orizzontalmente in senso proprio, purché dotati delle strutture portanti e degli impianti essenziali indicati dal citato art. 1117” (Cass. 18344/2015).
A tale insieme può accedere una differente tipologia di beni comuni, identificabili sia in strutture semplici ed aventi in comune un numero limitato di beni necessari (quali le vie di accesso, la portineria e gli impianti di riscaldamento), sia realtà dimensionate sulla base di una molteplicità di infrastrutture estremamente complesse (che comprendono impianti di fornitura dell’acqua, del gas e dell’energia elettrica; impianti eolici destinati alla produzione di energia e strutture di interesse collettivo in genere, quali gli spazi verdi, le aree destinate a parcheggio, i luoghi comuni di svago, i luoghi di sorveglianza e i servizi di vario genere quale il soccorso sanitario e la manutenzione dell’intera complessa organizzazione).
Tutto ciò fino a realizzare compagini di vastissime dimensioni, aventi un carattere polifunzionale tanto di natura residenziale abitativa, quanto di valenza “commerciale e direzionale”, dove la gestione del complesso edilizio coinvolge aspetti non solo di carattere tecnico amministrativo ma anche di natura economico produttiva.
La disciplina di gestione della “realtà super condominiale” può trovare applicazione, secondo gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, anche in realtà giuridiche integranti un fenomeno di carattere associativo, quale il “consorzio tra proprietari di immobili per la gestione di beni o servizi in comune”.
Secondo la giurisprudenza “le disposizioni in materia di condominio possono ritenersi applicabili al consorzio costituito tra proprietari di immobili per la gestione delle parti e dei servizi comuni di una zona residenziale, pur appartenendo il consorzio alla categoria delle associazioni, in quanto non esistono schemi obbligati per la costituzione di tale ente, assumendo, per l'effetto, rilievo decisivo la volontà manifestata dagli stessi consorziati con la regolamentazione statutaria, e potendo, peraltro, l'intenzione di aderire al consorzio rivelarsi anche tacitamente, a meno che la legge o - come nella specie - lo statuto richiedano la forma espressa. Ne consegue, altresì, che solo l'adesione al consorzio può far sorgere l'obbligazione di versare la quota stabilita dagli organi statutariamente competenti, legittimando la pretesa di pagamento dell'ente” (Cass. 22641/2013).
4. Gli organi del supercondominio
Da quanto a momenti rilevato emerge la tipologia strutturale del supercondominio, sia se costituito ab origine, sia se conseguente allo scioglimento e/o divisione di una precedente struttura unitaria di condominio.
Ai fini della costituzione di un supercondominio, infatti, non è necessaria né la manifestazione di volontà dell'originario costruttore, né quella di tutti i proprietari delle unità immobiliari di ciascun condominio, venendo il medesimo in essere "ipso iure et facto", se il titolo o il regolamento condominiale non dispongono altrimenti (Cass. 19939/2012).
Il singolo proprietario, pertanto, si troverà a far parte di due distinte realtà organizzative: l’na riguardante la proprietà esclusiva rapportata all’edificio nel quale la stessa è situata, l’altra attinente al legame con i beni comuni afferenti alla struttura del supercondominio.
Questa forma di “dualità soggettiva” si proietta nella disciplina relativa al super condominio dettata in materia di organi, di regolamento, di spese comuni, di tabelle millesimali e di rapporti tra condomini o tra condomini e terzi.
- L’assemblea
La novità introdotta dalla riforma del condominio è rappresentata dall’art. 67 delle disposizioni di attuazione del codice civile, che ha disciplinato un regime speciale per lo svolgimento dell’assemblea in realtà condominiali complesse.
Il legislatore, infatti, preso atto che di norma i supercondominii sono costituiti da un numero più che elevato di soggetti, cui consegue spesso l’impossibilità di deliberare per la mancanza del quorum costitutivo dell’assemblea, ha stabilito che in presenza di specifiche formazioni condominiali complesse, l’entità numerica dei condomini richieda una differente disciplina per lo svolgimento dell’assemblea.
In passato la giurisprudenza aveva dichiarato “la nullità, per contrarietà a norme imperative, della clausola del regolamento contrattuale di condominio prevedente che l'assemblea di un cd. supercondominio sia composta dagli amministratori dei singoli condomini o da singoli condomini delegati a partecipare in rappresentanza di ciascun condominio, anziché da tutti i comproprietari degli edifici che lo compongono, atteso che le norme concernenti la composizione e il funzionamento dell'assemblea non sono derogabili dal regolamento di condominio” (Cass. 15476/2001 ed altre).
Decisione, questa, confermata più recente pronuncia secondo la quale l’assemblea del supercondominio doveva essere composta dai comproprietari degli edifici e non dai singoli amministratori di condominio, riunitisi in collegio (Cass. 4340/2013).
Fermo restando che i meccanismi di convocazione della riunione sono rimasti invariati, il comma 3 del citato art. 67, con struttura non poco farraginosa, pone una serie di adempimenti per il condominio complesso costituito da più di sessanta partecipanti:
• ciascun condominio, con la maggioranza dei partecipanti all’assemblea che rappresenti almeno i 2/3 dei millesimi (art. 1136, co. 5, c.c.), deve nominare un rappresentante in seno all’assemblea generale per la gestione ordinaria delle parti comuni a più condominii (strade, giardini, luce, impianto fognario, portiere unico, ecc.) e per la nomina dell’amministratore;
• in caso di mancato accordo ciascun partecipante può rivolgersi all’autorità giudiziaria (tramite deposito di ricorso) chiedendo la nomina del proprio rappresentante in seno al condominio;
• quando alcuni dei condominii interessati non abbiano provveduto alla nomina del rappresentante, su ricorso anche di uno solo dei rappresentanti già nominati provvede l’autorità giudiziaria;
• in questo caso il deposito del ricorso deve essere preceduto da diffida a provvedere entro un congruo termine;
• diffida e ricorso devono essere notificati al condominio destinatario in persona dell’amministratore o, in mancanza, a tutti i condomini.
• il rappresentante può essere persona estranea al (sub) condominio; l’incarico non può essere affidato all’amministratore e la sua durata è definita dall’assemblea del condominio di riferimento;
• il rappresentante non è soggetto a limiti o condizioni da parte dell’assemblea che lo ha prescelto e se fissati si considerano non apposti. Egli risponde, al condominio che lo ha eletto, secondo le regole del mandato;
• è dovere del rappresentante comunicare all’amministratore del (sub) condominio l’ordine del giorno relativo all’assemblea del supercondominio e le decisioni da questa assunte;
• l’amministratore deve riferire in assemblea di quanto deliberato in sede di assemblea generale.
La prima novità che emerge chiara è la differenza tra gestione ordinaria/nomina dell’amministratore e gestione straordinaria: nel primo caso all’assemblea partecipano i rappresentanti dei singoli condominii, nel secondo caso i condomini ai quali devono essere inviati gli avvisi di convocazione. Questi ultimi, ovviamente, si potranno fare rappresentare per delega, così come avranno diritto di impugnare le relative delibere.
La complessità espositiva della norma ha dato adito a due diverse interpretazioni della stessa.
La prima, strettamente collegata al dato testuale della disposizione, secondo la quale l’impossibilità di porre limiti o condizioni al potere di rappresentanza – come previsto dal quarto comma dell’art. 67 - si considera come un trasferimento integrale dei poteri, sempre nel terreno dell’ordinaria gestione, dall’assemblea al proprio rappresentante.
Infatti, è stato sostenuto che in ordine all’approvazione del rendiconto l’assemblea non può imporgli di non approvarlo, ovvero la stessa assemblea non può imporre al proprio rappresentante di indicare, come amministratore, un soggetto piuttosto che un altro.
Ove, invece, l’art. 67 dovesse essere interpretato secondo la ratio dello stesso, ovvero consentire che nel super-condominio formato da più di 60 partecipanti venga superata, per il gran numero di condomini, l’impossibilità di raggiungere il quorum costitutivo la soluzione logica dovrebbe essere la seguente:
a) l’amministratore indice l’assemblea del supercondominio inviando l’avviso di convocazione solo al rappresentante dei (sub) condominii il quale, a sua volta, lo trasmette ai vari amministratori;
b) l’amministratore convoca l’assemblea del condominio da lui amministrato, ponendo all’ordine del giorno gli stessi argomenti che saranno oggetto di discussione dell’assemblea del supercondominio alla quale parteciperanno i soli rappresentanti, che esprimeranno la volontà frutto delle singole delibere assembleari;
c) l’eventuale violazione, da parte del rappresentante, delle volontà espresse dai singoli (sub) condomini può avere rilevanza solo ed esclusivamente nei rapporti interni tra mandante (sub-condominio) e mandatario, ma non incide nei confronti del supercondominio, rispetto al quale la delibera resta comunque valida.
E’ stato, altresì, correttamente osservato in dottrina (Franco Petrolati, Il supercondominio:gestione e problematiche, Dossier Condominio n. 149/2015, pag. 11) che “il voto espresso da ciascun rappresentante “pesa”, poi, in ragione della consistenza, numerica e millesimale, dei partecipanti al rispettivo (sub)condominio, nel senso, cioè che non vale “uno” nel computo delle teste in quanto l’incidenza deve, comunque, commisurarsi all’intera composizione soggettiva ed all’intera caratura millesimale del relativo edificio, senza alcuna distinzione tra le eventuali maggioranze e minoranze che si siano riscontrate nella designazione del rappresentante o nella formulazione delle direttive al medesimo imposte. Il rappresentate, infatti, partecipa all’assemblea supercondominiale in nome e per conto dell’intero (sub) condominio ed il voto espresso (o non espresso) determina univocamente anche la posizione di tutti i condòmini rappresentati”.
Resta da ultimo osservare che non si comprende l’utilità di avere fissato il limite di 60 partecipanti per l’applicazione dell’art. 67, quando tutta la problematica, comunque, si pone anche nel caso in cui il supercondominio sia formato da un numero di condomini pari a 59. Così come resta da capire chi sia il soggetto legittimato ad impugnare la delibera del supercondominio.
Su queste questioni non possiamo fare altro che attendere l’esito della giurisprudenza che potrà fare lumi su questioni tanto determinate quanto oscure.
- L’amministratore
La nomina dell’amministratore del super condominio è obbligatoria ai fini della corretta e tempestiva gestione della cosa comune. In mancanza di nomina, ciascuno dei condomini può adire l’autorità giudiziaria e chiedere la nomina dell’amministratore ai sensi dell’art. 1129 codice civile.
Si avrà, in questo caso, un delicato rapporto di coesistenza tra super amministratore e amministratori delle singole unità.
La nomina può essere effettuata in capo ad uno degli amministratori dei singoli fabbricati, così come sono ipotizzabili anche altre tipologie di scelta, quale la turnazione annuale o l’affidamento della carica gestionale ad un ente plurisoggettivo.
Sono riservate all’amministratore del condominio complesso tutte le prerogative previste per l’amministratore del condominio semplice, così come sono a suo intero carico gli oneri e le conseguenti responsabilità per una gestione non corretta e trasparente.
La durata dell’incarico è di un anno come previsto dall’art. 1129, co. 10, c.c., salvo la nomina e la revoca tramite l’autorità giudiziaria nei casi previsti dai commi 11 e 12.
Chi è legittimato a chiedere la revoca dell’amministratore del supercondominio?
Secondo una recente decisione di merito, la revoca dell’amministratore non può essere richiesta dai rappresentanti dei (sub) condominii, i quali sono legittimati, ai sensi dell’art. 67, co. 3, disp.att. c.c., solo ai fini della nomina e non della revoca dell’amministratore. Tale atto, infatti, rientrerebbe nell’ambito della gestione straordinaria e non ordinaria (Trib. Milano 9844/2016).
Nel condominio c.d. classico “la revoca dell’amministratore può essere deliberata in ogni tempo dall’assemblea con la maggioranza prevista per la sua nomina, oppure con le maggioranze previste dal regolamento di condominio” (art. 1129, co. 11), tuttavia alcuni interpreti osservano che la ratio ispiratrice dell’art. 67, ovvero quello di consentire di poter agevolmente arrivare alla nomina di un amministratore in tutte quelle realtà complesse in cui sarebbe difficile raggiungere, per il numero dei condomini, il quorum deliberativo, dovrebbe essere applicabile, per analogia, anche alla revoca dell’amministratore del supercondominio.
Va, invece, considerato che la natura dell’assemblea per la revoca del legale rappresentante del condominio complesso è di natura straordinaria, poiché ordinaria è, ai sensi dell’art. 66, co. 1, disp. att. c.c., quella che si tiene annualmente per le deliberazioni di cui all’art. 1135 c.c. Ciò, quindi, esclude che la revoca dell’amministratore rientri negli atti di gestione ordinaria.
CAPITOLO DODICESIMO
IL DISSENSO DEI CONDOMINI RISPETTO ALLE LITI
Come visto, l’amministratore è titolare, per le questioni riguardanti il condominio, di una duplice rappresentanza legale: attiva e passiva (al riguardo si rinvia al Capitolo secondo, paragrafo 2).
Il nostro ordinamento giuridico ha riconosciuto in capo ai condomini il diritto di separare la propria posizione nei confronti delle liti che impegnino il condominio, sia dal lato attivo che da quello passivo.
L’art. 1132 c.c., infatti, il quale disciplina il dissenso del condomino rispetto alle liti: un diritto che, per espressa previsione dell’ultimo comma dell’art. 1138 c.c., non può essere derogato neppure da norma regolamentare. La vita del condominio è caratterizzata dal proliferare di situazioni di contrasto, spesse volte pretestuose, perché originate da conflitti esasperatamente personali che determinano controversie giudiziali tanto numerose e lunghe da intasare le aule giudiziarie. A fronte di questa realtà, tuttavia, non è infrequente che i condomini dissentano sulla convenienza di promuovere una certa azione giudiziaria, ovvero sulla opportunità di resistere ad un’azione iniziata nei confronti del condominio.
In tutte queste ipotesi, il legislatore, con l’articolo richiamato, il cui testo è rimasto invariato rispetto alla precedente versione, si è preoccupato di salvaguardare e, contestualmente, di disciplinare il diritto dei condomini di opporsi alle liti, cercando, tuttavia, sempre di contemperare gli interessi della collettività con quelli del singolo.
1. Oggetto del dissenso
La disposizione in esame limita l’oggetto del dissenso alle ipotesi in cui l’assemblea condominiale deliberi di promuovere una lite ovvero stabilisca di resistere ad una domanda proposta avverso l’ente condominiale.
Per quanto concerne il primo profilo (lite attiva) una rigorosa interpretazione del dettato della norma restringerebbe l’ambito di applicabilità della disposizione alle sole controversie riguardanti materie che esulano dalla competenza dell’amministratore e per le quali, quindi, si richiede un’apposita autorizzazione dell’assemblea.
Il contrasto giurisprudenziale sul punto è stato risolto – come visto – dalla nota sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (n. 18331/2010) che ha previsto la necessità del mandato assembleare per le azioni in oggetto.
La questione teoricamente si potrebbe porre anche nell’ipotesi di liti direttamente promosse dall’amministratore, nell’ambito delle sue attribuzioni e, pertanto, svincolate da autorizzazione assembleare.
In questo caso, non potendosi ipotizzare il dissenso ai sensi dell’art. 1132, il/i dissenzienti potrebbero invocare l’art. 1133, che permette di ricorrere all’assemblea «contro i provvedimenti presi dall’amministratore». A tale fine, infatti, si può ritenere che il termine «provvedimento» possa essere interpretato estensivamente, talché anche la decisione dell’amministratore di agire o di resistere in giudizio configurerebbe un atto compiuto nell’ambito dei suoi poteri.
Pertanto, qualora l’assemblea convocata per esaminare la decisione presa in tutta autonomia dall’ amministratore ne ratifichi l’operato, il condomino potrà in quella sede esercitare, per la prima volta, il proprio diritto di dissociarsi dalla delibera adottata, evitando così ogni responsabilità in ordine alle conseguenze della vertenza in caso di soccombenza.
Per quanto concerne, poi, l’oggetto delle liti è in discussione se queste debbano riguardare solo i rapporti tra il condominio e i terzi oppure se si possano estendere anche alle controversie tra l’ente e un singolo condomino. Sebbene vi sia una tendenza interpretativa favorevole a limitare il dissenso del condomino solo al primo tipo di conflitti, non si può non richiamare, ancora una volta, la lettera, estremamente generica, della legge dalla quale si può trarre argomento per una soluzione in senso estensivo della questione.
2. Natura, forma e modalità del dissenso
La dichiarazione del condomino dissenziente di separare la propria responsabilità da quella degli altri condomini per il caso di cui all’art. 1132 c.c. è un atto giuridico ricettizio di natura sostanziale, da portarsi, in quanto tale, tempestivamente a conoscenza dell’amministratore, o di chi altri rappresenti il condominio.
Le modalità per esprimere legittimamente il dissenso in parola sono espresse chiaramente nel comma 1 dell’articolo in esame. In pratica il condomino, che intende dissociarsi dalle decisioni della maggioranza, deve notificare all’amministratore entro trenta giorni dalla conoscenza della deliberazione la sua volontà di dissenso.
Questo diritto è precluso a colui che, con la sua partecipazione all’assemblea, sia personale sia attraverso delega, abbia concorso a formare la volontà maggioritaria. Invece possono dissentire l’assente, l’astenuto e chi abbia votato in senso contrario.
I trenta giorni, inoltre, decorrono dalla data della votazione per coloro che hanno espresso voto sfavorevole ovvero che si sono astenuti, mentre per coloro che non hanno partecipato all’assemblea il termine di cui sopra decorrerà dal momento in cui abbiano avuto notizia, attraverso comunicazione ufficiale o, comunque, con qualunque altro mezzo, della deliberazione stessa.
Per il dissenso non è sufficiente il voto contrario in assemblea.
Per quanto concerne la forma della dichiarazione del condomino di voler separare la propria responsabilità da quella della maggioranza, si osserva che, sicuramente, essa richiede la presentazione di un atto con sottoscrizione dello stesso al solo scopo di assicurare la certezza dell’avvenuta dissociazione.
Come sempre, pertanto, il mezzo più sicuro per rendere nota all’amministratore la propria volontà negativa rispetto alla lite è l’adozione di raccomandata con ricevuta di ritorno, mentre, chiaramente, un’eventuale notifica a mezzo di ufficiale giudiziario, ancor più efficace, non essendo richieste particolari forme solenni allo scopo, è ritenuta ugualmente valida (Cass. 15 giugno 1978, n. 2967).
La notifica dell’atto di dissenso a termine scaduto, infine, comporta la decadenza dal diritto di separare la propria responsabilità da quella del condominio.
Nell’ipotesi di immobile in comproprietà, i giudici di merito (Trib. Firenze 29 gennaio 2016) hanno affermato che la facoltà riconosciuta dalla legge in favore del condomino/proprietario deve essere interpretata, in conseguenza della ratio della norma stessa, come un diritto del proprietario “di quella determinata quota millesimale riferibile all’unità immobiliare nella disponibilità del proprietario”, non interessando, quindi, al legislatore i rapporti interni tra più comproprietari, potendo questi essere risolti con una ripartizione interna delle spese addebitate.
Nella fattispecie, quindi, sotto il profilo della verifica della sussistenza della “legittimazione a proporre valido dissenso”, questo deve essere espresso da tutti i comproprietari dell’unità immobiliare e non solo da uno degli stessi.
3. Effetti del dissenso
Gli effetti del dissenso sono previsti nel commi 2 e 3 dell’art. 1132 c.c. secondo i quali:
«Il condomino dissenziente ha diritto di rivalsa per ciò che abbia dovuto pagare alla parte vittoriosa.
Se l’esito della lite è stato favorevole al condominio, il condomino dissenziente che ne abbia tratto vantaggio è tenuto a concorrere nelle spese del giudizio che non sia stato possibile ripetere dalla parte soccombente».
Si esaminano separatamente le due differenti situazioni venutesi a creare a seguito della conclusione dell’azione giudiziaria.
1) Il condominio è soccombente nella lite promossa nei confronti del terzo (comma 2): il diritto di rivalsa cui fa cenno la norma va riferito esclusivamente alle spese di giudizio ed ai danni eventualmente collegati all’azione e che si sarebbero potuti evitare, sia nel caso in cui questa non fosse stata iniziata, sia nell’ipotesi contraria di mancata resistenza alla medesima.
Occorre, infatti, osservare che la lite impegna verso i terzi tutto il condominio, con la naturale conseguenza che anche il condomino che ha espresso il proprio dissenso è sempre tenuto, «pro quota», a rispondere dell’oggetto principale della domanda della parte vittoriosa nei confronti del condominio. Diversamente il dissenso è atto interno al condominio e, pertanto, non ha rilevanza nei confronti dei terzi.Discutibile è, invece, la questione se il condomino dissenziente debba anticipare all’amministratore, insieme agli altri condomini, le spese per la gestione della lite dalla quale si sia dissociato.
Si è propensi a negare tale obbligo, dal momento che la norma limita gli effetti della dissociazione soltanto a ciò che concerne le conseguenze della lite in caso di soccombenza e sembra far riferimento esclusivamente alle spese ed ai danni che il condominio fosse chiamato a pagare alla parte vittoriosa nei suoi confronti.
Il riferimento alle «conseguenze della lite», in particolare (quali il ristoro dovuto alla parte vittoriosa e le spese inutilmente dovute per la difesa in giudizio), consente di affermare che il singolo condomino dissenziente debba essere esentato dal pregiudizio derivante dagli esborsi effettuati in vista del patrocinio della controversia, talché appare corretto concludere che il medesimo non è tenuto a partecipare ad alcun tipo di anticipazione in relazione alla lite rispetto alla quale ha manifestato la propria dissociazione.
2) La lite ha avuto esito favorevole per il condominio (comma 3): in questo caso la posizione del condomino dissenziente, estraniatosi da essa in vista delle possibili conseguenze dannose del processo, appare indifferente ed identica a quella che ne sarebbe risultata se non avesse separato la propria responsabilità. Infatti, il condomino dissenziente che, al pari degli altri condomini, abbia tratto vantaggio dalla sentenza favorevole, nulla dovrà versare per oneri legali ove il condominio sia stato interamente rimborsato dal soccombente delle spese di lite. Se, tuttavia, il soccombente non sia stato condannato, in favore del condominio, alla intera rifusione delle spese processuali (ad esempio per compensazione totale o parziale delle stesse, ovvero per una condanna alle spese minore rispetto a quella necessaria a coprire quelle della difesa del medesimo condominio), il condomino dissenziente dovrà concorrere ugualmente pro quota per la parte eccedente.
Da ultimo si rammenta che al condomino dissenziente l’art. 1137 c.c. riconosce anche la facoltà di impugnare dinanzi all’autorità giudiziaria le delibere assembleari, se contrarie alla legge o al regolamento condominiale (l’azione, tuttavia, non sospende l’esecuzione del provvedimento se la sospensione non sia ordinata dallo stesso giudice adito) da proporsi entro 30 giorni dalla data della delibera per i dissenzienti ed astenuti e dalla data di comunicazione per gli assenti. Impugnazione della delibera assembleare e dichiarazione di dissenso, infatti, sono mezzi alternativi di dissociazione che addirittura possono coesistere tra loro, dati i loro caratteri ben distinti. Difatti, nell’atto di impugnazione si lamenta la violazione della deliberazione assembleare nei confronti di norme giuridiche o regolamentari, mentre nell’atto di dissenso ci si limita a contestare l’opportunità di instaurare o coltivare un giudizio.
CAPITOLO TREDICESIMO
PERIMENTO DELL’EDIFICIO
L’argomento è di attualità per effetto sia dei ripetuti eventi drammatici che hanno colpito vaste aree del Paese, sia per i recenti crolli parziali di edifici nella Capitale e che, in alcuni casi, hanno richiesto l’abbattimento, per motivi di sicurezza, dell’intero stabile.
1. Perimento totale
Se l’edificio perisce interamente o per una parte di esso, che rappresenti i tre quarti del suo valore, ciascuno dei condomini può chiedere la vendita all’asta del suolo e dei materiali, salvo che sia stato diversamente convenuto (art. 1128, co. 1, c.c.).
La Cassazione ha più volte chiarito che le ipotesi di perimento, totale o parziale, dell’edificio considerate dalla norma comprendono solo i casi di distruzione dovuti ad eventi accidentali estranei alla volontà dei proprietari del bene (terremoto, vetustà, incendio, ecc.) e, quindi, non sussiste in capo al condomino la facoltà di richiedere la vendita all’asta del suolo e dei materiali ove la demolizione sia voluta da tutti i condomini al fine di ricostruire lo stabile condominiale.
Il perimento totale (o comunque superiore ai tre quarti del suo valore) dell’edificio fa venir meno il condominio per mancanza dell’oggetto e fa sorgere una comunione «pro indiviso» tra tutti i proprietari dell’immobile distrutto, avente ad oggetto l’area su cui l’edificio medesimo era posto.
Sul punto, infatti, la Corte Suprema (Cass. 12775/2008) ha dichiarato che “il perimento, totale o per una parte che rappresenti i tre quarti dell'edificio condominiale, determina l'estinzione del condominio per mancanza dell'oggetto, in quanto viene meno il rapporto di servizio tra le parti comuni mentre permane tra gli ex condomini soltanto una comunione "pro indiviso" dell'area di risulta, potendo la condominialità essere ripristinata solo in caso di ricostruzione dell'edificio in modo del tutto conforme al precedente. Ne consegue che, in caso di ricostruzione difforme, la nuova costruzione sarà soggetta esclusivamente alla disciplina dell'accessione e la sua proprietà apparterrà ai comproprietari dell'area di risulta in proporzione delle rispettive quote. (Nella fattispecie, riguardante un palazzo andato distrutto a causa dei bombardamenti nell'ultimo conflitto bellico, la Corte ha confermato la pronuncia di secondo grado che aveva escluso il diritto alla sopraelevazione in capo ad uno dei comproprietari, perché la nuova costruzione era stata edificata con un piano in meno rispetto alla precedente, e non poteva applicarsi il regime giuridico del condominio).
Se un singolo condomino, di propria iniziativa ed a proprie spese, provvede a ricostruire l’intero immobile esattamente com’era, gli altri condomini potranno scegliere se cedere al costruttore le loro quote o se concorrere alle spese di ricostruzione e riavere così le loro unità immobiliari. In questo caso, infatti, non si verifica alcun trasferimento automatico della comproprietà.
Principio generale, valido anche nel caso di perimento e ricostruzione parziale dello stabile, inoltre, è che il singolo, che non intenda concorrere alla ricostruzione delle parti comuni, dovrà cedere agli altri condomini o a terzi i propri diritti, compresi quelli sulla parte di sua esclusiva proprietà, a prezzi di stima fissati da periti incaricati dagli interessati o, nel caso di contrasto, dal consulente tecnico nominato dal giudice (art. 1128, ultimo comma, c.c.).
E’ stato affermato (Cass. 23333/2006) che “nell'ipotesi di perimento dell'edificio in condominio, il rifiuto del condomino a partecipare alla ricostruzione, quale presupposto per ottenere, da parte degli altri condomini, la cessione coattiva della sua quota, ai sensi dell'art. 1128, quarto comma, cod. civ. - norma applicabile non solo all'ipotesi di perimento totale, ma anche a quella di perimento parziale - deve manifestarsi o nella richiesta di vendita del suolo o in una netta opposizione a ricostruire l'edificio ed a sopportare la relativa spesa, non essendo sufficiente, a tal fine, un comportamento meramente inerte o una semplice divergenza in ordine alle caratteristiche del nuovo edificio. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza del giudice di merito, che aveva escluso che la volontà del condomino di procedere alla ricostruzione soltanto a condizione che essa fosse conforme all'edificio preesistente e sulla base di un preciso preventivo di spesa integrasse un rifiuto alla ricostruzione, tale da legittimare gli altri condomini alla richiesta di cessione coattiva)”.
Ad avviso della Corte di Cassazione, poi, qualora a seguito della distruzione quasi totale di un vecchio edificio in condominio, si intenda costruire un manufatto che utilizzi uno dei muri perimetrali e le fondazioni del vecchio stabile, non si può parlare né di conservazione (che presuppone l’esistenza almeno parziale del bene) né di modificazione necessaria per il miglior godimento della cosa comune (che postula il rispetto dell’attuale destinazione del bene), ma di un’innovazione che può disporsi solo con la maggioranza prevista dall’art. 1108 c.c. (Cass. 23 settembre 1970, n. 1691).
Nel caso di distruzione dei tre quarti del valore dell’edificio, permane il rapporto di condominio (che si estingue – come si è detto – in caso di perimento totale, sostituito da un rapporto di comunione in ordine al suolo) tra i proprietari dei piani o delle porzioni di piano non distrutti e gli altri che continuano a partecipare a detto rapporto conservando i propri diritti sul suolo e sulle altre cose comuni.
Se uno dei condomini rinunci unilateralmente al suo diritto, si determina automaticamente l’accrescimento in favore degli altri condomini. La cessione dei diritti di proprietà (esclusiva) e di comproprietà (sulle cose comuni) è di norma onerosa e, in ogni caso, non può essere considerato rinunciante il condomino che, in sede di assunzione di delibera avente ad oggetto la ricostruzione sia assente o si sia astenuto.
L’alienazione non libera il condomino cedente dall’obbligo di concorrere nelle spese già deliberate, ma impegna solidalmente anche il cessionario verso il condominio creditore.
L’art. 1128 c.c. è norma derogabile, come può trarsi dal fatto che non è inserito tra le norme dichiarate espressamente inderogabili dal successivo art. 1138 e dalla stessa espressione usata dal legislatore «salvo che sia stato diversamente convenuto».
La convenzione derogativa potrà derivare o da un accordo unanime dei condomini, ovvero essere prevista nell’ambito di un regolamento condominiale di natura contrattuale e, nel primo caso, si potrà realizzare e definire anche a perimento avvenuto dell’edificio.
Il criterio per determinare il valore dell’edificio distrutto (del tutto o in parte), ai fini della ricostruzione, effettuato sulla base dei millesimi di proprietà è il più semplice e logico, ma potrebbe essere più opportuno seguire quello del valore commerciale del bene, determinato mediante consulenza tecnica d’ufficio.
Per concludere va rilevato che nel caso di perimento totale, se nessuno chiede la vendita all’asta, ogni condomino può ricostruire non solo le parti dell’immobile di sua esclusiva proprietà, ma anche quelle comuni e quelle di proprietà esclusiva degli altri condomini inerti, ove necessarie per la ricostruzione ed il godimento della porzione immobiliare di sua proprietà.
Il comma 3 dell’art. 1128 c.c. prevede, infine, che le indennità corrisposte dall’assicurazione per le parti comuni non possono essere destinate dai condomini o dall’assemblea (in caso di perimento parziale) per scopi diversi dalla ricostruzione di queste. Tuttavia se la maggioranza decide di non ricostruire, le somme in oggetto possono legittimamente ricevere una diversa destinazione.
2. Perimento parziale
Nel caso di perimento di una parte minore dei tre quarti del valore dell’edificio, l’assemblea dei condomini delibera circa la ricostruzione delle parti comuni dell’immobile e ciascuno è tenuto a concorrervi in proporzione dei suoi diritti sulle parti stesse (art. 1128, co. 2).
Le delibere che concernono la ricostruzione dello stabile debbono sempre approvarsi con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell’edificio (art. 1136, commi 2 e 4, c.c.).
Se i poteri dell’assemblea di disporre la ricostruzione concernono solo le parti comuni questa può arrivare ad imporre al singolo condomino la ricostruzione del suo piano, ove la mancata riedificazione dello stesso renda impossibile il ripristino delle parti comuni. Il singolo, quindi, potrà non ricostruire l’unità immobiliare di sua proprietà esclusiva solo ove ciò non danneggi le parti comuni per le quali è stata deliberata la ricostruzione.
Da quanto detto deriva che l’ente condominio viene meno solo in caso di distruzione totale, mentre in caso di perimento parziale l’ente continuerà ad essere amministrato secondo la legge e secondo il regolamento condominiale (non rilevando che uno o più condomini abbiano perso in tutto o in parte la loro proprietà individuale).
Anche i dissenzienti, pertanto, dovranno concorrere alle spese per il rifacimento dei beni comuni (mentre – come si è visto – l’assemblea non potrà decidere a maggioranza la ricostruzione dell’intero edificio, comprese le parti di proprietà esclusiva, vincolando i dissenzienti a sopportarne le spese).
Naturalmente la mancanza della delibera di ricostruzione non impedisce ai singoli condomini di ricostruire le loro unità immobiliari parzialmente distrutte e le parti comuni necessarie al godimento delle stesse.
La giurisprudenza meno recente tendeva a configurare un obbligo, in caso di perimento parziale, dell’assemblea di stabilire la ricostruzione delle parti comuni perite (con possibilità di ottenere una decisione giudiziale di ricostruzione, in caso di illegittimità della delibera assembleare).
Nell’ipotesi che l’assemblea decida di ricostruire le parti distrutte, la maggioranza di cui sopra dovrà naturalmente calcolarsi non rispetto all’intero condominio, ma avendo riguardo ai soli condomini che riedificano ed al valore delle loro quote, formandosi in pratica un condominio più ristretto per l’incombenza.
Va infine osservato che non costituisce perimento parziale la parziale demolizione dell’edificio in esecuzione di un provvedimento di esproprio per pubblica utilità.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
ASCENSORE
1. Proprietà dell’impianto
E’ bene comune salvo titolo contrario (regolamento contrattuale o primo atto di frazionamento in conseguenza del quale si forma il condominio)
Se installato successivamente l’intervento è considerato innovazione ai sensi dell’art. 1120 co.1, cod. civ. e richiede la maggioranza degli intervenuti pari ai 2/3 dei millesimi
È un bene suscettibile di utilizzazione separata, per cui può essere installato anche a cura di uno o più condomini che diventano proprietari dell’impianto, con tutti gli oneri connessi.
L’intervento rientra nell’ambito dell’art. 1121 c.c., sicuramente, infatti, è innovazione gravosa ma non voluttuaria.
Il concetto di gravosità dell’innovazione, inoltre, va considerato in senso oggettivo, ovvero in relazione all’entità della spesa e con riferimento non alle condizioni economiche dei singoli condomini ma alle condizioni e all’importanza dell’edificio.
I condomini che non hanno partecipato all’installazione, come i loro eredi o aventi causa (si parla di un diritto perpetuo potestativo di partecipazione), possono entrare in ogni tempo a fare parte della comunione contribuendo alle spese.
Secondo un indirizzo giurisprudenziale condivisibile, il calcolo si dovrebbe fondare su di una perizia tecnica che tenga conto delle spese effettuate per l’installazione e la manutenzione dell’impianto (rivalutate secondo gli indici ISTAT) ma con il correttivo legato al deprezzamento dell’impianto in conseguenza del suo deterioramento per l’uso.
La situazione che si viene a determinare con l’installazione dell’impianto di risalita da parte di alcuni condomini ha il carattere della transitorietà poiché da un condominio parziale si potrebbe passare ad un condominio del bene in capo a tutti i condomini.
2. Le spese
Come visto in precedenza il regime delle spese non è stato sostanzialmente toccato dalla riforma, ma è stato in essa codificato, in quanto l’art. 1124, prima solo dedicato alle scale, ora include anche gli ascensori, in passato paragonati alle scale in via analogica.
Art. 1124 – le scale e gli ascensori sono mantenuti e sostituiti dai proprietari delle unità immobiliari cui servono, per metà in ragione dei millesimi di proprietà delle singole unità immobiliari (tra le quali rientrano: cantine, soffitte, palchi morti, camere a tetto e lastrici solari di proprietà esclusiva) e per l’altra metà esclusivamente in misura proporzionale all’altezza di ciascun piano dal suolo.
Se l’impianto viene installato ex novo la ripartizione delle spese seguirà i principi di cui all’art. 1123 c.c., mentre nel caso di sostituzione, operazione conseguente a guasti irreparabili o vetustà, la ripartizione segue i dettami dell’art. 1124. Le spese, invece, concernenti l’impianto e destinate al suo adeguamento si ripartiscono tra tutti i condomini in base ai millesimi di proprietà, trattandosi di spese propter rem dirette al conseguimento degli obiettivi della sicurezza della vita umana e dell’incolumità delle persone.
Il maggior uso dell’impianto, invece, non si traduce in un aumento delle spese a carico di chi maggiormente utilizza l’impianto.
3. Uso e manutenzione dell’ascensore
Secondo il disposto dell’art. 1102 c.c. ciascun condomino può usare la cosa comune, anche per un fine particolare, a patto che non ne alteri la naturale destinazione e non pregiudichi il pari diritto d’uso spettante agli altri condomini. È oramai pacifico, per orientamento giurisprudenziale consolidato nel tempo, che il «pari uso» non richiede necessariamente il contemporaneo ed identico uso del bene da parte di tutti i partecipanti alla comunione (ovvero fruizione del bene nella stessa unità di tempo e di spazio), quanto piuttosto la parità di utilizzazione potenziale del bene collettivo. Il principio si applica anche all'utilizzo di ascensore e montacarichi ferma la validità delle norme contenute in un regolamento di condominio, sempre modificabili.
L’assemblea, con la maggioranza semplice prevista dall’art. 1136 c.c., in presenza di particolari e giustificate ragioni di contemperamento dei contrapposti interessi, disciplinare l’uso dell’ascensore anche in modo differente da quello stabilito nel regolamento di condominio.
Ad esempio «l’uso dell’ascensore per il trasporto di materiale edilizio può essere legittimamente inibito al singolo condomino solo qualora venga concretamente e specificatamente accertato che esso risulti dannoso, sia compromettendo la buona conservazione delle strutture portanti e del relativo abitacolo, sia ostacolando la tempestiva e conveniente utilizzazione del servizio da parte degli altri condomini, in relazione alle frequenze giornaliere, alla durata e all’eventuale orario di esercizio del suddetto uso particolare, alle cautele adoperate per la custodia delle cose trasportate, tenendo conto di ogni altra circostanza rilevante per accertare le eventuali conseguenze pregiudizievoli che, in ciascun caso concreto, possono derivare dal suddetto uso particolare dell’ascensore» (Cass. 2117/1982). Con espresso riferimento all’amministratore è stato affermato che questi «... ha tra le sue attribuzioni quella di disciplinare l’uso delle cose comuni in modo che ne sia assicurato il miglior godimento a tutti i condomini; lo stesso può dunque essere convenuto in giudizio dai singoli condomini per regolamentare l’uso dell’ascensore dotando solo i legittimati, condomini e inquilini, del possesso delle chiavi di accesso all’ascensore escludendo i terzi dal possesso delle chiavi stesse» (Giud. Pace Venezia 6 aprile 1997, in Giud. di Pace 1997, 286).
Un eventuale uso più intenso dell’ascensore da parte di alcuni condomini, tuttavia, non può comportare un aggravio di spese per gli stessi.
Sono poi da richiamare quelle disposizioni legislative contenute in leggi speciali quali ad esempio l’art. 17 del D.P.R. n. 162/1999, a norma del quale l’uso di ascensori e montacarichi è vietato ai minori di anni dodici se non accompagnati da persone di età più elevata, ovvero ai ciechi, alle persone con capacità deambulatoria totalmente o parzialmente ridotta, quando trattasi di ascensori a cabine multiple a moto continuo.
L’uso prolungato dell’impianto di risalita comporta una costante manutenzione dello stesso da parte dei condomini proprietari. Ciascuno di essi, pertanto, è titolare del diritto di agire in giudizio nei confronti del condominio per ottenere la sua condanna all’adempimento di tale obbligo, qualora le opere necessarie non siano eseguite o deliberate dall’assemblea o, ancora, quando, pur essendo state oggetto di delibera, questa sia stata negativa.
Gli interventi ai quali nel corso degli anni l’impianto di risalita deve essere sottoposto sono di due tipi: ordinari e straordinari.
Sono considerate ordinarie le opere che richiedono cadenze fisse (come controlli e verifiche periodiche) ovvero i lavori di piccola entità che sono di competenza diretta dell’amministratore che deve «compiere tutti gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio» (art. 1130, n. 4, c.c.). Per tali interventi non è necessaria la preventiva convocazione dell’assemblea.
A questo proposito ricordiamo che l’art. 1 del decreto del Ministero dello sviluppo economico 22 gennaio 2008, n. 37 aveva definito interventi di ordinaria manutenzione degli impianti «tutti quelli finalizzati a contenere il degrado normale d’uso nonché a far fronte ad eventi accidentali che comportino la necessità di primi interventi, che comunque non modifichino la struttura dell’impianto su cui si interviene o la sua destinazione d’uso secondo le prescrizioni previste dalla normativa tecnica vigente e dal libretto di uso e di manutenzione del costruttore».
Ed in precedenza l’art. 31, lett.a), della legge n. 457/1978, secondo il quale rientrano in questa categoria le opere di riparazione e di rinnovamento necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti.
A titolo meramente esemplificativo sono considerati di carattere ordinario interventi quali: la sostituzione dell’argano, delle funi, della pulsantiera, della serratura della porta della cabina; la pulizia e lubrificazione di guide, carrucole, rinvii, ecc.; la pulizia della fossa; la sostituzione di lampade (anche sulla pulsantiera della cabina); la registrazione delle portine scorrevoli (sia automatiche, sia manuali); la verifica delle cerniere delle porte nonché ogni altra simile operazione finalizzata al mantenimento del regolare esercizio dell’impianto.
Gli interventi straordinari possono essere ricondotti nell’ambito di nozione residuale, dal momento che il loro carattere, che è legato anche al naturale deperimento dell’impianto di risalita e dei suoi componenti, esula dalla sfera della quotidianità.
La straordinarietà dell’intervento è sempre stata considerata come sinonimo di lavoro improvviso, imprevedibile, accidentale o dovuto a causa di forza maggiore.
Tale concetto va di pari passo con la nozione che ne viene data in edilizia e che lo identifica anche con un quid di carattere innovativo, purché finalizzato a mantenere in efficienza e ad adeguare all’uso comune l’impianto, senza alterazione della situazione e della tipologia preesistente.
Sono state ritenute di carattere straordinario e non innovativo le opere di adeguamento dell’ascensore alla normativa CEE, poiché dirette a garantire la sicurezza e l’incolumità delle persone e, in quanto tali, attengono all’aspetto funzionale dello stesso. Tutto ciò anche se i lavori richiedano l’introduzione di nuovi elementi strutturali o l’aggiunta di nuovi dispositivi che siano determinati dall’avanzare della tecnologia.
Più limitati sono i poteri dell’amministratore nel campo della manutenzione straordinaria, in quanto egli è sempre legato al consenso dell’assemblea, salvo che i lavori da eseguire sull’ascensore non rivestano il carattere di urgenza. In questo caso l’amministratore vi provvede direttamente e ne riferisce nella prima assemblea utile.
È, altresì, straordinario l’intervento che sia economicamente oneroso, talché la sua approvazione richiede, da parte dell’assemblea, la maggioranza degli intervenuti che rappresenti 501 millesimi.
Da ultimo non si può parlare di manutenzione dell’ascensore senza ricordare che tale costante attività è cadenzata da una serie di controlli periodici, che devono essere effettuati sull'impianto e sulle sue componenti.
La normativa vigente in questo campo è in continuo cambiamento, sia per effetto della tecnologia sempre in evoluzione, sia per la necessità di adeguarsi alle direttive europee in materia di sicurezza degli impianti.
In questo quadro, quindi, l'amministratore dovrà sempre affidare la manutenzione dell'ascensore a personale altamente qualificato e specializzato.
4. Ascensore ed eliminazione delle barriere architettoniche
La prima legge che interessa gli edifici privati è la legge n. 13/89, poi modificata dalla legge n. 62/89, dal DPR n. 380/01 (testo unico dell’edilizia) fino alla legge n. 220/12, che ha modificato la parte concernente le maggioranze necessarie per approvare le delibere assembleari.
Con la legge n. 13/89 la maggioranza assembleare era stata fissata, come previsto dall’art. 1136, co.2 e 3, in seconda convocazione 1/3 dei partecipanti al condominio ed 1/3 del valore dell’edificio).
Con la riforma, il quorum deliberativo è stato elevato a 501 millesimi per la maggioranza degli intervenuti all’assemblea.
L’amministratore è obbligato a convocare l’assemblea entro 30 giorni dalla richiesta anche di un solo condomino che sia interessato all’adozione della delibera. Unitamente alla richiesta il condomino deve comunicarne il contenuto e le modalità di esecuzione dell’intervento. In mancanza l’amministratore deve invitare il condomino a fornire le necessarie integrazioni.
L’art. 1120, co. 2 deve, tuttavia, essere integrato con l’art. 2 della l.n. 13/89 secondo il quale
Se il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta scritta la deliberazione, il portatore di handicap ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà può installare, a proprie spese, servo scala e strutture mobili e facilmente rimovibili anche modificando l’ampiezza delle porte di accesso per rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garage.
Ne consegue che nel condominio le barriere architettoniche si possono superare in vario modo, a seconda della collocazione dell’immobile interessato.
La norma, non esclude che il portatore di handicap possa procedere in via autonoma alla installazione in spazi comuni di un ascensore, anche quando vi sia il rifiuto dell’assemblea.
Trattasi, infatti, di un intervento considerato indispensabile per il superamento delle barriere architettoniche ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento e rientra nei poteri/doveri di cui all’art. 1102, pur nel rispetto dei suoi limiti e con l’osservanza delle norme in materia di distanze legali. Tuttavia tale disciplina non opera qualora si tratti di impianti le cui indicate finalità devono essere intese nell’ambito dell’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e nel contemperamento dei concorrenti interessi” (Cass. 14096/2012).
Quanto ai soggetti legittimati, lo spirito della normativa dovrebbe escludere un rapporto stretto tra soggetto portatore di handicap ed edificio condominiale, dal momento che la giurisprudenza di merito ha costantemente ritenuto che tali soggetti possono avere con l’immobile anche relazioni di natura diversa dalla proprietà (come nel caso di un rapporto di locazione, oppure di lavoro).
Allo stesso modo l’abbattimento della barriera architettonica può essere richiesta per quei soggetti che, pur se non propriamente affetti da menomazione motoria, si trovino in minorate condizioni fisiche (ad es. persone in avanzato stato di età).
Mentre il requisito di condomino è necessario per la richiesta della convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 1120, co.2, c.c. Richiesta che può essere avanzata dal condomino per un portatore di handicap non condomino ma con esso convivente abituale.
CAPITOLO QUINDICESIMO
IL SERVIZIO DI PORTIERATO
1. In generale
La custodia degli stabili è tradizionalmente assicurata dalla presenza del portiere, il quale svolge, unitamente alla pulizia delle parti comuni, una serie di mansioni che vanno dalla vigilanza alla custodia, alla distribuzione della corrispondenza, al ritiro dei pacchi, all’effettuazione della piccola manutenzione, e così via.
Anche se spesso si è propensi nel ritenere che il portiere sia superfluo, tanto da poter essere eliminato e/o sostituito con altre figure ad esso assimilabili, quali il pulitore, una ditta specializzata nelle pulizie e quant’altro, è tuttavia certo che queste non potranno mai svolgere mansioni equiparabili a quelle effettuate dal custode.
Il CCNL, in vigore dal 1° gennaio 2013 e rinnovato tacitamente, all’art. 15 ha classificato i lavoratori che prestano il servizio presso il condominio in tre categorie, alle quali se ne aggiunge una quarta (identificata come categoria «C»), costituita da lavoratori di livello impiegatizio con funzioni amministrative.
La categoria «A» distingue tra portieri che prestano la loro opera per la vigilanza, la custodia, la pulizia e le mansioni accessorie degli stabili adibiti ad uso abitativo (e che possono godere o meno dell’alloggio a seconda del tipo di contratto stipulato); portieri addetti a complessi immobiliari, per la sorveglianza e la pulizia di locali condominiali destinati al parcheggio delle autovetture dei condomini; portieri, con o senza alloggio, responsabili della vigilanza mediante mezzi telematici (sistemi di videosorveglianza, sistemi elettronici di controllo a distanza, ecc.) di particolare complessità ed ampiezza, intendendosi per tali quelli dotati di almeno 6 schermi video nonché, infine, portieri, sempre con o senza alloggio, ai quali, dietro specifico incarico conferito per iscritto, può essere affidato il compito aggiuntivo e continuativo di coordinare gli altri lavoratori del complesso immobiliare.
Nell’ambito della categoria «B», poi, sono stati tra gli altri previsti due tipi di lavoratori che prestano la loro opera per la pulizia e/o conduzione dei campi da tennis e/o piscine e/o spazi a verde e/o spazi destinati ad attività sportive e ricreative in genere, con relativi impianti (tra i quali rientrano anche gli operai specializzati o qualificati addetti alla manutenzione degli immobili e dei relativi impianti ed apparecchiature), ovvero che si occupano esclusivamente della pulizia dell’androne, delle scale e degli accessori.
Nella categoria «D» troviamo indicati i lavoratori addetti all’attività di vigilanza esercitata in modo non discontinuo, anche sussidiari del portiere titolare ed operanti contestualmente con esso o negli orari parzialmente non coperti dal servizio di portineria. Questi sono previsti solo a beneficio di stabili a prevalente utilizzo commerciale, di complessi residenziali o di immobili di notevoli dimensioni.
Nuove figure sono gli assistenti condominiali che, su incarico dei condomini, possono svolgere mansioni relative alla vita familiare degli stessi o di una parte di essi che ne sopportano integralmente la spesa.
Secondo l’art. 18, il portiere, nonché il lavoratore addetto alla vigilanza, può essere assegnato, eccezionalmente, a due o più stabili appartenenti ad uno o più proprietari e/o condomìni, purché aventi un unico ingresso funzionante o più ingressi sorvegliabili da un solo posto di custodia. In tal caso il lavoratore è equiparato, quanto al trattamento economico, al portiere di un unico stabile ed il rapporto di lavoro ha luogo con il consorzio dei proprietari e/o condomini interessati o con altro soggetto analogo.
Il trattamento normativo ed economico varia, invece, con l’aumento di una percentuale, se il portiere presti servizio in uno stabile con più ingressi non comunicanti tra loro e non sorvegliabili da un unico posto. Il tutto a condizione che lo stabile faccia capo ad un’unica proprietà o ad un unico condominio e vi sia un numero massimo di 6 ingressi.
La figura del sostituto del portiere titolare (art. 23) è operativo per tutti o parte dei periodi di assenza di quest’ultimo dal servizio. Il sostituto può essere il convivente del portiere titolare ed ha diritto al trattamento economico previsto dal contratto collettivo mentre, se non sia convivente, gli spetteranno tutte le ulteriori indennità così come indicate nel contratto collettivo.
2. Le mansioni
L’art. 17 disciplina le mansioni differenti che il portiere deve svolgere quotidianamente all’interno dello stabile a seconda che il medesimo goda o meno dell’alloggio.
Sinteticamente si parla di: vigilanza e custodia dello stabile, distribuzione della corrispondenza ordinaria, sostituzione delle lampadine elettriche ed effettuazione di piccole e generiche riparazioni per le quali non sia richiesta alcuna specializzazione e/o qualificazione, sorveglianza degli impianti comuni (ascensore, montacarichi, citofono), altre prestazioni inerenti allo stabile secondo le consuetudini locali, pulizia delle parti comuni e degli spazi a verde, nonché loro innaffiamento.
La vigilanza (da intendersi quale attenta sorveglianza dello stabile, attivamente perseguita durante l’orario lavorativo) si svolge mediante la presenza continua del portiere nelle vicinanze dell’ingresso dello stabile condominiale, in modo da poter garantire un attento controllo sulle persone che entrano ed escono dall’edificio.
La custodia, invece, richiede maggiori obblighi da parte del portiere, sostanziandosi nel generico impegno alla conservazione e tutela dello stabile, tale da comportare eventuali sue attivazioni anche oltre l’orario lavorativo.
Ulteriori mansioni extra dovranno essere retribuite con un’indennità a parte.
Tra queste, a titolo esemplificativo, si ricordano: la conduzione della caldaia di riscaldamento a carbone, oppure dell’impianto centrale di riscaldamento a gasolio od a gas, o ancora di quello di distribuzione dell’acqua calda solo se sia in possesso del relativo certificato di abilitazione; interventi, in casi di emergenza, sull’impianto di ascensore ai fini di sbloccare la cabina, portarla al piano ed aprire la porta solo se abbia seguito un regolare corso di formazione a spese del condominio. Tale incarico, in ogni caso, può essere atteso solo dal portiere che usufruisca dell’alloggio di servizio negli orari previsti dallo stesso art. 17.
Per quanto concerne, poi, il ritiro e la distribuzione della corrispondenza straordinaria (da intendersi tale quella per il cui ritiro è necessaria la firma del ricevente) il portiere lo potrà fare solo su delega del condomino o dell’inquilino.
In questo caso il lavoratore dovrà annotare, su un apposito registro fornitogli dalla proprietà, arrivi e consegne ai destinatari, previa sottoscrizione per ricevuta. Per tale servizio accessorio è dovuta al lavoratore un’indennità economica, il cui ammontare è riferito ad ogni unità immobiliare compresa nell’edificio ed indipendentemente dal volume della corrispondenza ritirata.
Non rientrano nella nozione di unità immobiliare le cantine, le autorimesse, i depositi, i negozi, i magazzini ed i laboratori, a meno che anche per queste entità il servizio di portineria sia reso.
Per la posta straordinaria in contrassegno il lavoratore non è tenuto ad anticipare alcuna somma per conto del destinatario e, di conseguenza, non ritira la corrispondenza, tranne nel caso in cui il destinatario non gli abbia assegnato un fondo spese a ciò destinato.
Il lavoratore non è tenuto a fornire gratuitamente altre prestazioni oltre a quelle affidategli dal contratto collettivo.
I lavoratori addetti esclusivamente alla pulizia dell’androne, delle scale e degli ascensori, con esclusione del servizio di vigilanza e custodia, potranno anche provvedere, nell’ambito dell’orario di lavoro concordato, alla distribuzione della posta ordinaria e straordinaria.
Gli addetti alla videosorveglianza con mezzi telematici, ai quali è riconosciuto il diritto di assentarsi dalla postazione per imprescindibili necessità e per il tempo strettamente necessario, devono segnalare tempestivamente all’amministratore tutte le anomalie che dovessero riscontrare in merito alla sicurezza dello stabile e/o dei suoi occupanti.
Stesso onere incombe sui lavoratori addetti alla vigilanza esercitata in modo non discontinuo nell’ambito di stabili a prevalente utilizzo commerciale o di immobili e/o complessi residenziali.
Al fine di consentire la massima continuità della videosorveglianza gli addetti possono essere muniti di comandi a distanza.
Il servizio deve essere prestato con scrupolo ed accuratezza; il regolamento condominiale deve essere osservato anche dai lavoratori del condominio inquadrati nell’ambito delle categorie indicate nell’art. 15 del contratto collettivo i quali, tra l’altro, devono segnalare all’amministratore eventuali infrazioni da parte degli abitanti dell’edificio.
3. L’alloggio di servizio
Il portiere e i suoi familiari conviventi hanno diritto all’alloggio gratuito, il cui godimento rappresenta parte della normale retribuzione ed è collegato al contratto di lavoro. Secondo il dettato dell’art. 16 del CCNL l’appartamento di servizio deve essere di due o tre ambienti (se all’atto dell’assunzione la famiglia del custode sia composta di quattro persone conviventi), mentre la sua destinazione ad eventuali altre attività lavorative estranee al servizio in parola, sia da parte del portiere che dei familiari conviventi, sarà possibile solo a condizione che non si tratti di attività artigianali o comportanti afflusso di pubblico o che, in ogni caso, arrechino disturbo ai condomini.
Ai sensi dell’art. 1117, n. 2, c.c. la portineria e l’alloggio del portiere sono oggetto di proprietà comune se il contrario non risulta dal titolo.
È opinione prevalente che la presunzione di comproprietà stabilita dal citato art. 1117 sussista quando, per le obiettive caratteristiche strutturali, l’immobile sia destinato al servizio o al godimento collettivo del condominio. Mentre, se i locali nei quali si svolgono i servizi comuni appartengono ad un singolo condomino, essendo comune il servizio e le relative installazioni, si può ritenere che su di essi gravi una servitù a vantaggio degli altri condomini.
Nel caso di licenziamento del portiere, ove il condominio rientri in possesso dell’appartamento da questi usufruito nulla vieta che i predetti vani siano dati in locazione per un uso differente. A ciò, tuttavia, non può procedere autonomamente l’amministratore, il quale può agire solo sulla base di una precisa deliberazione dell’assemblea.
Poiché il licenziamento del portiere non corrisponde alla soppressione del servizio, cui conseguirebbe la cessazione di fatto della naturale destinazione dell’appartamento ad alloggio dello stesso, si può ritenere che il mutamento di destinazione d’uso dei locali utilizzati per la portineria rientri integralmente nella fattispecie disciplinata dall’art. 1117-ter, con la conseguenza che la delibera sarà valida se approvata con la maggioranza dei quattro quinti dei partecipanti al condominio pari ai quattro quinti dei valori millesimali.
È assai comune l’ipotesi in cui, in conseguenza dell’eliminazione del servizio di portierato vero e proprio il condominio conceda in godimento l’ex alloggio del portiere ad un pulitore.
In questo caso è necessario distinguere tra due differenti situazioni a seconda che:
1) l’uso dell’appartamento può costituire il parziale corrispettivo del servizio reso al condominio-locatore. In tal caso, cessato il rapporto di lavoro verrà meno, automaticamente, anche l’utilizzo dell’immobile con la conseguenza che il pulitore diverrà occupante sine titulo, potendo essere allontanato dall’ appartamento senza poter usufruire delle proroghe e delle facilitazioni collegate ai tipici rapporti di locazione;
2) i condomini potrebbero sottoscrivere due contratti del tutto autonomi: uno di lavoro ed uno di locazione. In detta ipotesi il contratto di affitto rivestirà i caratteri della tipica locazione ad uso abitativo e, come tale, sarà soggetto alla legge n. 392/1978 come modificata dalla legge n. 431/1998.
Dopo la soppressione del servizio e in assenza di precise determinazioni dell’assemblea, l’amministratore ha il diritto di detenere le chiavi dell’alloggio al fine di assicurarne l’uso da parte dei singoli condomini in condizioni di parità (Cass. 5076/1983).
Da ultimo, secondo la giurisprudenza “ai sensi degli artt. 1130 e 1131 c. c. all'amministratore del condominio spetta per legge la disciplina della gestione ed uso delle cose comuni e della prestazione dei servizi e così dell’esercizio del servizio comune di portierato ed il potere di risolvere il rapporto di lavoro fra il portiere ed il condominio. Di conseguenza l'amministratore può, anche senza deliberazione della assemblea dei condomini, agire per il rilascio dell'alloggio detenuto senza titolo dal portiere licenziato (cui l'alloggio stesso era stato concesso ad integrazione della retribuzione), dipendendo tale rilascio dalla risoluzione di un rapporto obbligatorio assunto per la gestione del servizio comune ed essendo il recupero di detto alloggio essenziale per l'ulteriore espletamento dello stesso servizio” (Cass. 4780/1985).
4. Istituzione, rinuncia e soppressione del servizio
La decisione relativa all’opportunità o meno di istituire, sopprimere o riattivare il servizio in questione spetta di diritto all’assemblea, mentre all’amministratore compete occuparsi di tutte le questioni che riguardano il portiere, trattandosi di compito che rientra a pieno titolo tra quelli previsti dell’art. 1130, n. 2, c.c.
Dottrina e giurisprudenza hanno dibattuto, per lungo tempo, la problematica concernente le maggioranze necessarie per istituire o sopprimere il servizio di portierato. Riportiamo, in questa sede, alcune delle decisioni più rilevanti.
- “l'istituzione del servizio di portierato, non previsto dal regolamento di condominio, che comporti la destinazione ad alloggio del portiere di locali di proprietà comune aventi in precedenza una diversa funzione, e la soppressione del medesimo servizio, nella opposta ipotesi in cui questo sia previsto dal regolamento anzidetto con destinazione ad alloggio del portiere di locali di proprietà comune, configurano, derivandone, rispettivamente, la nascita e l'estinzione di un vincolo di destinazione pertinenziale a carico di parti comuni, atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, per la cui deliberazione - attesa l'equiparazione di tale categoria di atti alle innovazioni disposta dal secondo comma dell'art. 1108 c.c. (applicabile al condominio per il rinvio operato dall'art. 1139 dello stesso codice) - è necessaria la maggioranza qualificata (che rappresenti la maggioranza dei partecipanti al condominio e due terzi del valore dell'edificio) prevista dal quinto comma dell'art. 1136 c.c.., il quale non esaurisce la disciplina delle maggioranze in relazione a tutte le deliberazioni assumibili dalla assemblea dei condomini” (Cass. 2585/1988).
Orientamento, seguito per lungo tempo dai giudici di legittimità (si veda Cass. 5083/1993 e 642/1996) fino a quando veniva affermato che “la soppressione del servizio di portierato è validamente disposta dall’assemblea condominiale con la maggioranza prevista dall’art. 1136 c.c., cui l’art. 1138 c.c. fa riferimento, nel caso in cui il regolamento condominiale non preveda il servizio comune come obbligatorio” (Cass. 12481/2002).
In pratica secondo la Suprema Corte se «il regolamento condominiale, ancorché di natura contrattuale, si limiti a disciplinare il servizio di portierato, prevedendo i compiti, le funzioni, l’alloggio del portiere, ecc., ma senza incidere sui diritti dei singoli condomini, in quanto non prescrive che tale servizio deve necessariamente e obbligatoriamente sussistere», la sua soppressione è validamente disposta con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio (art. 1136, comma 2, c.c.).
Decisione discutibile, poiché raramente nei regolamenti condominiali si trova una norma che esplicitamente caratterizzi il servizio in questione come obbligatorio, mentre lo stesso è disciplinato solo attraverso la regolamentazione delle spese ad esso inerenti.
L’istituzione di un servizio aggiuntivo di portineria (secondo portiere e/o portiere notturno), che garantisca all’immobile una vigilanza completa durante la giornata, rappresenta un atto innovativo che richiede di essere approvato con la maggioranza di cui all’art. 1136, comma 5, c.c.
è, infine, pacifico che, rappresentando il portierato un servizio condominiale reso nell’interesse di tutta la comunità e non essendo suscettibile di utilizzazione separata, il singolo condomino non può rinunciare ad esso chiedendo di essere esonerato dalle relative spese.
5. Sostituzione del servizio
Gli alti costi delle spese di portierato hanno spesso indotto i condomini a sostituire tale servizio con altro cd. di «lavascale» che assicura solo le prestazioni relative alla pulizia dell’androne, delle scale e degli accessori (cantine, garage condominiale, ecc.), con esclusione dell’opera di vigilanza e custodia dello stabile, tipiche del portiere (nel contratto collettivo indicato come categoria B5).
Tali lavoratori devono seguire le indicazioni fornite dell’amministratore e ad essi possono essere anche affidati il servizio di distribuzione della posta ordinaria, nonché il ritiro della posta straordinaria secondo le modalità previste per il portiere. I servizi dovranno essere eseguiti nell’ambito dell’orario di lavoro concordato con atto scritto con il datore di lavoro.
Si è ritenuto che una volta istituito un nuovo e diverso rapporto lavorativo per la pulizia dello stabile, il criterio di ripartizione delle spese tra i condomini non può più identificarsi con quello stabilito dal regolamento per le spese del ben differente rapporto di portierato.
Inoltre, qualora nel regolamento di condominio manchi una esplicita disciplina riguardante la predetta sostituzione, l’adozione di un differente sistema di ripartizione delle spese, rispondente alla nuova situazione creatasi, può fissarsi con deliberazione assunta con la maggioranza semplice dei consensi, non risolvendosi questa nella menomazione dei diritti risultanti dagli atti di acquisto o da altra convenzione (si potrebbe ritenere che un valido criterio di ripartizione sia quello indicato dall’art. 1124 c.c., in base al quale le spese vengono suddivise tra i condomini secondo il criterio dell’altezza dei piani).
Il nuovo servizio di pulizia può essere svolto o da una ditta specializzata, regolarmente iscritta alla Camera di Commercio, con la quale viene stipulato un contratto di appalto (con indicazione di partita IVA) ed alla quale le prestazioni vengono pagate a seguito di emissione di fattura; o da un privato che viene assunto come dipendente dell’ente condominiale (come tale avente diritto al trattamento previsto dal CCNL dei pulitori).
6. Poteri e doveri dell’amministratore
La nomina del portiere intesa come assunzione, ovvero come scelta della persona incaricata di vigilare, custodire lo stabile ed esercitare tutte le attività connesse al servizio spetta all’amministratore, il quale stipula il relativo contratto di assunzione.
Il contratto deve indicare: data di assunzione, durata del periodo di prova, qualifica del lavoratore, mansioni e relativa retribuzione, orario di lavoro (settimanale, stabilito in 48 ore così come previsto dal D.Lgs. n. 66/2003 e di norma distribuito su un arco di 6 giornate e giornaliero ed articolato nella fascia oraria che va dalle ore 7 alle ore 20 nei giorni non festivi).
Restano salvi gli accordi territoriali che prevedano un’estensione dell’orario tra le ore 6 e le ore 21, orario di apertura e chiusura del portone, fascia oraria di reperibilità (40 del CCNL), indicazione e descrizione dell’alloggio di servizio.
Copia del contratto di lavoro deve essere consegnato al lavoratore il quale, prima dell’assunzione, deve consegnare all’amministratore i suoi documenti (carta d’identità, stato di famiglia e dichiarazione dell’entità del nucleo familiare convivente, certificati penale e medico, codice fiscale), nonché attestato di frequenza al corso.
Accanto al contratto di assunzione tradizionale, l’amministratore può sottoscrivere sia un contratto a termine, determinato quando sussistono esigenze di carattere tecnico, organizzativo, o sostitutivo, sia un contratto di lavoro ripartito (job sharing). Caso, questo, che si verifica allorché due lavoratori assumono in solido un’unica identica obbligazione lavorativa subordinata. In entrambe le ipotesi i contratti devono essere consegnati al lavoratore.
L’amministratore deve curare tutti gli adempimenti che riguardano la parte retributiva, gli accantonamenti degli importi relativi al TFR, l’iscrizione agli enti pubblici e previdenziali (INPS, INAIL), il versamento dei relativi contributi. La responsabilità per l’omissione di tali incombente è totalmente a suo carico.
Con l’entrata in vigore della legge n. 689/1981 l’amministratore che ometta di versare i contributi commette illecito amministrativo, punibile con il pagamento di una somma di denaro pari al valore dei contributi non versati e delle somme aggiuntive previste dalle leggi vigenti (versamento al quale amministratore e condominio sono tenuti in via solidale).
L’amministratore, deve vigilare che il portiere svolga correttamente le mansioni a lui affidate e può licenziare il lavoratore senza la necessità dell’assenso dell’assemblea, trattandosi di atto che rientra nelle competenze richiamate dall’art. 1130 c.c.
L’assemblea dei condomini – che sia stata invitata dall’amministratore a ratificarne l’operato – può sempre «revocare» il licenziamento (Cass. 4437/1985).
In presenza di proteste avanzate dai condomini sull’operato del portiere, l’amministratore, qualora non sussistano i presupposti per il licenziamento e previo richiamo del soggetto interessato ai suoi doveri, sarà tenuto ad indire apposita assemblea ponendo la questione all’ordine del giorno.
L’amministratore cessato dalla carica e non ancora sostituito, il quale prosegue ad operare per conto del condominio in regime di prorogatio deve «continuare a provvedere ... all’adempimento delle incombenze ed attribuzioni previste dall’art. 1130 c.c. e così a riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’edificio e per l’esercizio dei servizi comuni, compreso quello di portierato, con la conseguenza che, in caso di ritardata presentazione delle denunce contributive e di ritardato pagamento dei contributi previdenziali dovuti per il portiere, l’amministratore è tenuto a rivalere il condominio delle somme da questo versate all’INPS a titolo di sanzioni amministrative» (Cass. 3588/1993).
Mentre per l’instaurazione del rapporto di portierato la giurisprudenza ha affermato che “in materia di rapporto di portierato, in favore di un condominio, l'assemblea dei condomini ha il potere di prestare direttamente il proprio consenso, anche per fatti concludenti, alla conclusione di un contratto. Ne consegue che l'instaurazione del rapporto di lavoro subordinato può essere desunta, oltre che da delibere assembleari, anche dalla esplicazione dell'attività lavorativa, dall'occupazione, da parte del lavoratore, dell'appartamento condominiale assegnato, e dall'accettazione della prestazione di lavoro da parte del condominio” (Cass. 5297/2014).
CAPITOLO SEDICESIMO
IL RISCALDAMENTO
1. Proprietà ed interventi sull’impianto centralizzato
Rif. art.1117/3
È comune fino a titolo contrario (regolamento di condominio recepito negli atti di acquisto, atto costitutivo del condominio che coincide con il primo atto di trasferimento) e fino alle diramazioni dalle quali partono i tubi interni che si collegano ai singoli radiatori.
Sono escluse dalla comproprietà le unità immobiliari che, per motivi strutturali, non sono raggiunte dall’impianto (box, cantine, mansarde, sottotetti). La delibera che ponga a carico di tali soggetti le spese di riscaldamento è nulla (Cass. 22634/2013) poiché concerne i diritti individuali e non la mera determinazione quantitativa del riparto delle spese.
La conseguenza diretta della comproprietà dell’impianto è la responsabilità del proprietario dell’impianto ex art. 2051 c.c. nel caso di danni da infiltrazioni causati da tubi che alimentano l’impianto di sua proprietà.
La canna fumaria è un elemento costruttivo e costitutivo dell’impianto di riscaldamento, che consente di convogliare e smaltire verso l’esterno i fumi prodotti dalla combustione.
E’ di proprietà comune se è a servizio di tutte le unità immobiliari collegate all’impianto condominiale e le spese di manutenzione e messa a norma si ripartiscono in base ai millesimi di proprietà, trattandosi di obbligazioni propter rem.
Se, poi, la stessa canna è a servizio di un gruppo di condomini, rispetto ad essi si forma una sorta di condominio parziale, per cui le spese saranno ripartite tra il gruppo di condomini che se ne serve, sempre in base ai millesimi di proprietà.
Quanto alla installazione della canna fumaria sul muro comune essa è possibile perché la fattispecie rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 1102 c.c.
Secondo alcuni autori per tale intervento occorrerebbe l’autorizzazione dell’assemblea, trattandosi di uso prolungato nel tempo ad opera di un manufatto che occupa uno spazio che impedisce agli altri condomini il pari uso del bene comune.
Sul punto ha affermato la Corte Suprema (sent. n. 17072/2015) che “è esperibile la tutela possessoria ove il singolo condomino abbia alterato o violato, senza il consenso degli altri condomini, lo stato di fatto e la destinazione di una parte comune dell'edificio, sì da impedire o restringere il godimento spettante agli altri compossessori "pro indiviso". (Nella specie era stata eretta, sulla facciata del palazzo, una canna fumaria di dimensioni non trascurabili che, priva di qualsiasi collegamento dal punto di vista architettonico o funzionale con la parete esterna dell'edificio, costituiva un elemento di grave degrado e alterava notevolmente l'estetica del fabbricato)”.
In merito al rispetto delle distanze legali ad avviso della Corte (sent. 4936/2014) le norme relative sono applicabili anche nei rapporti tra condominio e condomini. Tuttavia se sussiste un contrasto tra queste norme e la disposizione di cui all’art. 1102 c.c. (norma speciale), questa prevale determinando l’inapplicabilità della disciplina generale. Ne consegue che, se il giudice accerti che sono stati rispettati i limiti di cui all’art. 1102, una canna fumaria posta in aderenza al muro perimetrale ed a ridosso del terrazzo di proprietà esclusiva di un condomino è lecita anche se in violazione delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà esclusive, distinte e contigue.
La canna fumaria, infine, è oggetto di norme speciali in materia di scarico dei fumi. Per gli impianti termici installati dopo il 31/08/2013 è obbligatorio il collegamento ad appositi camini, canne fumarie o sistemi di evacuazione dei fumi che abbiano una sbocco al di sopra del tetto secondo le norme regolamentari vigenti.
Ove ciò non fosse tecnicamente possibile il progettista deve attestare ed asseverare l’impossibilità di procedere secondo quanto dettato dalla legge. La norma si riferisce anche alla situazione di più impianti autonomi che convogliano gli scarichi in una sola canna fumaria.
Sono pienamente applicabili a tale componente le norme in materia di smaltimento di eternit e quelle relative alle immissioni (art. 844 c.c.).
In via generale gli interventi sull’impianto di riscaldamento si possono definire:
- di manutenzione ordinaria, quando non richiedono una preventiva delibera assembleare rientrando nelle attribuzioni dell’amministratore (art. 1130, nn. 2 e 4, c.c.). Essi sono definiti nel DPR n. 412/93 come le “operazioni specificamente previste nei libretti d’uso e manutenzione degli apparecchi/impianti, che possono essere effettuate in loco e che comportino l’impiego di attrezzature e materiali d’uso corrente” (art. 1/lett. h);
- di manutenzione straordinaria, se si tratti di “interventi atti a ricondurre il funzionamento dell’impianto a quello previsto dal progetto e/o dalla normativa vigente, attraverso l’uso di mezzi, attrezzature, riparazioni, ricambi di parti, ripristini, revisione o sostituzione di apparecchi o componenti dell’impianto termico” (art. 1/lett. i). Vi rientrano, ad esempio, i lavori di adeguamento alle norme in materia di sicurezza, di prevenzione incendi; la sostituzione della caldaia ai fini di utilizzare un diverso sistema di alimentazione nonché la sostituzione della caldaia guasta ed obsoleta.
Per approvare tali opere se l’intervento non rientra nell’ambito delle spese di rilevante entità è sufficiente la maggioranza semplice, in caso contrario sono richiesti 501 mm. e la maggioranza degli intervenuti. Ipotesi analoga a quella prevista dal codice civile in materia di riparazioni di notevole entità.
- di carattere innovativo: in questo caso rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 1120, come modificato dalla legge n. 220/2012. Si può parlare per essi non solo di interventi finalizzati al miglioramento o al maggior rendimento delle cose comuni (co.1), ma anche di opere dirette a migliorare la salubrità degli impianti negli edifici (co.2).
Nella prima ipotesi la loro approvazione richiede la maggioranza degli intervenuti all’assemblea pari ai due terzi dei millesimi di proprietà (art. 1136, co.5), mentre nel secondo caso è sufficiente la maggioranza prevista dall’art. 1136, co. 2 (501 mm. e maggioranza degli intervenuti).
Va ribadito che con l’ingresso della riforma la nozione di innovazione si è ampliato. Prima, infatti, l’innovazione consisteva in un intervento modificativo che alterava l’entità sostanziale del bene o ne mutava la destinazione d’uso, oggi comprende anche le opere e gli interventi finalizzati a migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti.
Da considerare, infine, gli interventi e le verifiche periodiche sull’ impianto che sono strettamente collegate alla vigenza della normativa speciale in materia, come ad esempio il DPR n. 412/93 attuativo della legge n. 10/91 ed ora sostituito quasi integralmente dal DPR n. 74/2013 in materia di esercizio, conduzione, controllo, manutenzione ed ispezione degli impianti termici degli edifici per la climatizzazione invernale ed estiva.
2. I doveri dell’amministratore in relazione alla conduzione degli impianti termici
Per mandato l’amministratore deve svolgere tutti gli atti necessari per assicurare la conservazione delle parti comuni dell’edificio (art. 1130, n. 4, c.c.) ai quali si sommano quelli compresi e previsti dalle norme in materia di sicurezza.
Sono in questo senso rilevanti, in particolare il:
contiene due norme che interessano il condominio per due profili differenti:
Art. 7: Le attività di conduzione degli impianti sono a carico dei proprietari, conduttori, amministratori o terzi responsabili che le devono eseguire a regola d’arte in conformità con le leggi vigenti. Il soggetto incaricato al termine delle operazioni deve redigere un rapporto di controllo tecnico, redatto su moduli prestabiliti e l’amministratore, per conto del condominio deve sottoscriverne copia per ricevuta e presa visione.
Art. 15, co. 5: La violazione dell’obbligo comporta per il condominio la sanzione amministrativa non inferiore ad € 500,00 e non superiore ad € 3000,00. Ne consegue che la sanzione viene erogata al condominio in quanto proprietario dell’impianto centralizzato di riscaldamento, ma i condomini si possono rivalere sull’amministratore personalmente a titolo risarcitorio qualora lo stesso abbia omesso di procedere, attraverso il terzo, all’effettuazione di tutte le operazioni necessarie, nonché il
DPR n. 74/2013
che ha ridefinito i criteri generali per la conduzione degli impianti termici e similari in generale, che si applicano all’edilizia privata e pubblica con particolare riferimento: ai valori massimi della temperatura da rispettare negli ambienti per i vari tipi di impianti, ivi compresi quelli concernenti la contabilizzazione del calore; alle zone climatiche in cui è diviso il territorio e a tutto ciò che concerne la conduzione degli impianti medesimi.
Per quanto concerne più strettamente l’amministratore si pone in evidenza:
l’art. 4, co.7 che prevede l’obbligo dell’amministratore di esporre c/o l’impianto termico una tabella contenente:
- l’indicazione del periodo annuale di esercizio dell’impianto termico e dell’orario prescelto in relazione alle zone climatiche;
- le generalità ed il nome del responsabile dell’impianto;
- il codice dell’impianto assegnato dal catasto territoriale degli impianti termici c/o la regione o le province autonome.
l’art. 6 secondo il quale nel condominio la conduzione dell’impianto termico è delegata ad un terzo responsabile, dotato di tutti i requisiti di legge, ma la delega non può essere conferita nel caso di impianti non conformi alle disposizioni di legge. Ciò sarà possibile nel caso in cui al terzo sia espressamente conferito l’incarico di procedere anche alla messa a norma dell’impianto.
In tal caso l’amministratore deve:
- porre il terzo in grado di procedere alle attività di messa a norma
- garantire la copertura finanziaria per l’esecuzione dei necessari interventi nei tempi concordati, attraverso apposita delibera assembleare (magg. di 1/3 dei condomini e 1/3 dei millesimi).
L’assemblea è ancora chiamata a deliberare, anche sui costi, quando il terzo comunichi la necessità di effettuare interventi non previsti nell’atto di delega ovvero imposti dalle evoluzioni della normativa. La delibera deve essere presa entro 10 giorni dalla comunicazione del terzo ed in caso contrario la delega decade automaticamente.
In sintesi l’amministratore, prima dell’inizio della stagione invernale, deve chiamare il terzo per la verifica annuale dell’impianto e se dai controlli emergano le necessità di cui sopra, deve convocare immediatamente l’assemblea che si dovrà esprimere in merito.
Le conseguenti comunicazioni alla Regione poste a carico del terzo, anche in ordine alla decadenza della delega, lo esentano da qualsivoglia responsabilità che torna in capo al condominio.
L’art. 7 ha stabilito che gli impianti devono essere dotati di un libretto di impianto unico per la climatizzazione, riscaldamento e produzione di acqua calda. Il nuovo modello (al quale devono essere allegate le relazioni precedenti), entrato in vigore il 15 ottobre 2014, deve essere compilato in tutte le sue parti dal terzo responsabile, il quale deve inviare i dati e l’esito dei controlli al Catasto Regionale Impianti. Esso è custodito presso l’amministrazione condominiale.
I controlli, demandati alle regioni, non saranno più effettuati a campione, ma sulla base della mancata ricezione della documentazione relativa agli impianti. Il che dovrebbe presupporre la sussistenza di un censimento sul territorio degli immobili e dei relativi impianti.
L’art. 8 ha disposto che nell’ambito dei controlli e della manutenzione deve essere effettuato anche un controllo di efficienza energetica dell’impianto (anche di climatizzazione estiva), i cui risultati sono riportati dall’operatore in uno specifico “rapporto”, che viene consegnato in copia al responsabile dell’impianto (per il condominio l’amministratore) che lo conserva e lo allega al libretto di impianto. Altra copia, invece, viene trasmessa dal terzo o dal manutentore alla Regione che, a sua volta, effettuerà le ispezioni sugli impianti.
L’art. 11 , con un rinvio al D.Lgs. n. 192/2005, ha previsto l’applicabilità di una sanzione, variabile da € 500,00 ad € 3000,00, nei confronti di coloro che violino le norme in vigore.
Nel caso di trasferimento dell’immobile a qualsiasi titolo (locazione, vendita, usufrutto, ecc.) il libretto di impianto deve essere consegnato all’avente causa, debitamente aggiornato.
3. La trasformazione dell’impianto da centralizzato in autonomo
Le maggioranze assembleari nell’evoluzione legislativa
- Con la legge n. 10/1991 art. 26 co.2 (in relazione all’art. 8, lett. g) per la trasformazione degli impianti da centralizzati a gas unifamiliari e per la contabilizzazione del calore, veniva abbassato per la prima volta il quorum deliberativo, portandolo alla maggioranza delle sole quote millesimali (501 millesimi, là dove in precedenza era pacifico che la maggioranza corretta fosse quella dell’unanimità dei consensi).
- La legge n. 311/2006 art. 7, poi, per la validità della delibera, presa a maggioranza semplice (1/3 dei millesimi) richiedeva il rilascio di un certificato di attestato di certificazione energetica od una diagnosi energetica realizzata da un tecnico abilitato.
- In seguito il D.P.R. n. 59/2009 art. 9 non incideva sulla maggioranza, ma restringeva l’ambito operativo della scelta, stabilendo che negli edifici esistenti con un numero di unità superiori a 4 è preferibile il mantenimento degli impianti centralizzati per caldaie con potenza maggiore od uguale a 100kw. Ciò sia per gli edifici rigorosamente destinati a civile abitazione, sia per quelli destinati ad uffici e simili. In presenza di cause tecniche o di forza maggiore che inducano a scegliere l’autonomo al posto del centralizzato, il motivo deve essere dichiarato nella relazione tecnica di accompagno, che deve attestare che l’intervento di trasformazione corrisponde alle prescrizioni del contenimento energetico.
Inoltre l’art. 10 del medesimo provvedimento aveva stabilito che quando l’impianto centralizzato debba essere ristrutturato o installato ex novo, ove tecnicamente possibile, si dovesse passare alla contabilizzazione e termoregolazione del calore. Eventuali cause ostative, ovvero la scelta di altre soluzioni equivalenti avrebbero dovuto essere indicate nella relazione tecnica predisposta dal progettista.
4. Rapporti tra la legge n. 220/12 e l’art. 26, co.2 legge n. 10/1991
Art. 1120, co.2, n. 2
Le opere e gli interventi volti al contenimento del consumo energetico degli edifici richiedono la maggioranza di 501 mm e la maggioranza degli intervenuti.
In tal caso l’A. deve convocare l’assemblea entro 30 gg, anche su richiesta di un solo condomino, il quale deve indicare il contenuto specifico dell’intervento e le modalità di esecuzione. In mancanza l’A. deve invitare il condomino ad una integrazione.
Art. 26, co.2 L.n. 10/91
Per interventi sugli impianti finalizzati al contenimento del consumo energetico, individuati tramite attestato di certificazione energetica o diagnosi energetica realizzato da un tecnico la delibera è valida con la maggioranza degli intervenuti pari ad 1/3 dei mm
La maggiore agevolazione prevista dalla legge 10/1991, non esclude che nel caso di applicazione della normativa codicistica non debba essere presentata una relazione tecnica che attesti la rispondenza degli interventi alle prescrizioni di legge in materia di contenimento del consumo energetico. Tanto è vero che nel caso in cui la documentazione non sia stata depositata dall’amministratore presso il Comune prima dell’inizio dei lavori, questi vengono sospesi dal sindaco fino al compimento dell’adempimento. Il tutto con l’applicazione di una serie di sanzioni amministrative previste dall’art. 34 della legge n. 10.
E’ stato ritenuto che le norme richiamate non sono incompatibili tra loro.
Andrebbe, infatti, considerato che se il legislatore ha mantenuto in vita l’art. 26 cit. sarebbe dovuto al fatto che il Nostro avrebbe introdotto un diverso favor in relazione a questo tipo di interventi rispetto a quelli previsti dall’art. 1120 co.2, nel senso che nei primi si premia con una maggioranza più bassa la deliberazione, pur sempre volta al contenimento del consumo energetico, ma fondata sul documento di cui sopra, che permette di conoscere, sin dal momento della decisione, gli effetti di ciò che verrà realizzato.
Pur con tale interpretazione delle intenzioni del legislatore resta pur sempre il problema di sapere come possa individuarsi, nei secondi interventi (art. 1120 c.c.) quello volto a quelle finalità contemplate nella norma codicistica senza una valutazione equiparabile all’attestato di certificazione energetica.
5. Rapporto tra delibera e relazione tecnica
Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione la fase decisionale è interna al condominio, mentre la fase attuativa coincide con la finalità di dare efficacia alla volontà di ridurre il consumo di energia (Cass. 862/2015. Conf. Cass. 10680/2014). Da qui la validità della delibera assunta in assenza di relazione tecnica.
I giudici di legittimità (Cass. 16980/2005) hanno anche precisato che nella delibera deve essere specificato il tipo di impianto che andrà a sostituire quello centralizzato, poichè lo scopo della deroga della normativa dell’art. 26 della legge n. 10 è la realizzazione del risparmio energetico attraverso l’uso di particolari forme di energia.
La delibera, pertanto, deve prevedere almeno quale sia il tipo di impianto installato, non essendo sufficiente la mera previsione che l’impianto centralizzato sarà sostituito con altrettanti impianti unifamiliari, in quanto la stessa si tradurrebbe in una mera soppressione dell’impianto comune, presa senza il consenso di tutti i condomini che hanno il diritto di utilizzare il bene comune.
6. Distacco dall’impianto centralizzato
Rif. art. 1118, co. 4 c.c.
Il condomino può rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento se dal distacco non derivino notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. In tal caso chi rinuncia resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la m. straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma.
La problematica ha trovato la soluzione definitiva nella legge n. 220/12 che ha modificato l’art. 1118, co. 4, avendo sostanzialmente recepito l’orientamento costante della giurisprudenza.
La Cassazione (sent. n. 11857/2011), ai fini dell’accertamento dello squilibrio termico, ha affermato che non possono essere prese in considerazione le variazioni in diminuzione che si dovessero verificare nelle circostanti unità immobiliari per effetto del distacco stesso.
Il Tribunale di Roma, invece, con sentenza del 16 giugno 2014 ha affrontato il problema da un punto di vista opposto, che considera l’apporto di calore indiretto di cui un appartamento distaccato potrebbe godere per il solo fatto di essere circondato da unità servite dall’impianto centralizzato.
Come procedere correttamente al distacco.
Poiché la condizione essenziale per installare un impianto di riscaldamento autonomo è quella prevista dall’art. 1118, il condomino interessato pur non dovendo richiedere il consenso dell’assemblea è tenuto ad affidare ad un tecnico l’incarico di redigere una perizia, che poi sarà consegnata all’amministratore, che porterà la questione in assemblea la quale – a sua volta – potrà fare redigere una perizia da un tecnico di fiducia.
Numerose le decisioni della Corte di Cassazione che in merito alla paternità dell’onere della prova ha affermato i seguenti principi:
- se il singolo condomino che procede al distacco vuole essere esonerato dal pagamento delle spese di gestione deve provare la sussistenza dei presupposti di legge. Ne consegue che ove il giudice non possa tecnicamente ed obiettivamente stabilire la sussistenza degli stessi per omessa attestazione da parte del soggetto interessato, la condotta del condomino che non abbia fatto precedere il distacco da una relazione tecnica che fotografasse la situazione precedente rispetto al suo intervento, esclude l’esonero dalle dette spese. Ciò in quanto il condomino non si è precostituita la prova per dimostrare la sussistenza di quanto previsto ex lege (Cass. 23756/2016);
- l’onere della prova a carico del condomino viene meno solo nel caso in cui l’assemblea condominiale abbia effettivamente autorizzato il distacco dall’impianto comune (Cass. 22285/2016);
- nel caso di distacco unilaterale, non supportato dalla prova richiesta dall’art. 1118, il condomino non potrà pretendere di essere tenuto solo a concorrere al pagamento delle spese per la conservazione e della messa a norma dell’impianto, ma dovrà partecipare anche a quelle di gestione (Cass. 22285/2016).
Rapporti tra l’art. 1118, co. 4 ed il regolamento di condominio.
Sulla inderogabilità da parte di un regolamento contrattuale all’art. 1118 nulla è cambiato, rimanendo lo stesso articolo inderogabile solo per il co. 2.
La Corte di Cassazione, pur nel vigore della disciplina previgente, aveva ritenuto che in tema di distacco “non può rilevare, in senso impediente, la disposizione eventualmente contraria contenuta nel regolamento di condominio, anche se contrattuale, essendo quest'ultimo un contratto atipico meritevole di tutela solo in presenza di un interesse generale dell'ordinamento” (Cass. 19893/2011). Principio ribadito anche dal Tribunale di Torino (ord. 20 gennaio 2014) e dal Tribunale di Roma (sent. 22 settembre 2015, n. 18721).
Rapporto tra legge regionale che vieta il distacco e legge statale.
Sempre il Tribunale di Torino, con il citato provvedimento, ha respinto l’eccezione del condominio riferita al divieto del distacco introdotto dalla legge regionale del Piemonte n. 13/2007 che impone, per gli immobili costituiti da un numero superiore a 4, la permanenza dell’impianto centralizzato e pesanti sanzioni a carico di chi operi il distacco comprese tra € 5.000,00 e 15.000,00 fino a quando permanga l’impianto individuale.
Secondo il giudice piemontese la tematica del distacco opera su due fronti: uno privato (disciplina del condominio) ed uno pubblico (ambientale e contenimento dei consumi energetici) e la legislazione statale di settore trova una completa disciplina nelle norme regionali che, pur dovendo adeguarsi ai principi fondamentali delle norme nazionali, possono introdurre principi più rigorosi nell’ambito dei poteri di loro competenza.
Calcolo delle spese in caso di distacco dal riscaldamento centralizzato.
E’ stato ritenuto (Trib. Firenze 19 febbraio 2015, n. 535) che nella fattispecie non è possibile fare riferimento, in astratto, solo ai costi del combustibile (Cass. 9526/2014) per determinare i termini di aggravio o risparmio della spesa, poiché i costi di esercizio di una centrale termica dipendono da diversi fattori, tra cui non solo il combustibile ma anche ad ulteriori costi annualmente vincolati a fattori esterni non dipendenti dalla volontà dei soggetti utilizzatori del servizio, come ad esempio le dispersioni dell’impianto.
Infatti, l’andamento, più o meno rigido, di ogni stagione invernale incide in maniera sostanziale sui costi di esercizio e gestione dell’impianto e, quindi, l’aggravio o un semplice ipotetico risparmio in conseguenza di un distacco non può essere ricondotto ad una semplice operazione aritmetica.
Criterio di riferimento è quello ricavabile dalla norma UNI-CTI n. 10200/2013, per la quale ai fini della spesa concorrono due componenti: 1) il consumo volontario e 2) il consumo involontario. Ed è su quest’ultima componente che si dovrebbe focalizzare l’attenzione per determinare quei costi, non dipendenti dalla volontà del singolo condomino, che determinerebbe un aggravio per i restanti condomini allacciati all’impianto centralizzato.
Il riscaldamento inefficiente o insufficiente non costituisce un motivo valido per esentare il condomino dal pagamento delle relative spese. Il condomino che si venga a trovare in una delle due situazioni deve invitare l’amministratore ad effettuare i necessari controlli sull’impianto per individuare le cause strutturali di tale disfunzione.
L’amministratore, da parte sua, è tenuto a provvedere nell’ambito delle attribuzioni poste a suo carico dall’art. 1130, mentre il condomino, in caso di inerzia, può rivolgersi all’autorità giudiziaria per ottenere un provvedimento in via di urgenza.
7. La contabilizzazione del calore
Prevista per la prima volta con la legge 10/91, art. 26 co.5, secondo il quale in deroga agli artt. 1120 e 1136 si decideva a maggioranza, creando un contrasto giurisprudenziale sull’interpretazione del termine “maggioranza”, la norma è stata modificata dalla legge n. 220/12, che ha previsto per tali delibere la maggioranza degli intervenuti all’assemblea pari a 501 mm.
L’amministratore, quindi, dovrà inserire nel consuntivo di gestione del condominio le quote di consumo attribuite a ciascun condomino, con responsabilità a proprio carico nel caso di ripartizione non effettuata sulla base dei criteri indicati nel provvedimento con sanzione amministrativa a carico del condominio da € 500,00 ad € 2.500,00.
L’evoluzione legislativa sulla contabilizzazione
La legge n. 10/91 (art. 26), per la prima volta, aveva previsto la progettazione per i nuovi edifici di impianti predisposti per l’adozione di sistemi di termo regolamentazione e contabilizzazione del calore, così come la realizzazione di impianti finalizzati all’uso razionale dell’energia.
Il DPR n. 412/93, poi, fissava l’obbligo di passare al contabilizzato per gli edifici la cui concessione fosse stata rilasciata dopo il 30 giugno 2000.
Dopo annose proroghe il D.Lgs. n. 141/2016 (che ha modificato il D.Lgs. n. 102/2014), emanato in attuazione di direttive europee, con l’art. 9, co. 5 fissava come termine per l’installazione del sistema contabilizzato negli edifici il 31 dicembre 2016: termine ancora una volta slittato al 30 giugno 2017 per effetto del D.L. 244/2016 (c.d. “Mille proroghe”). Rinvio subordinato, comunque, al parere favorevole dell’Unione Europea, al fine di evitare procedimenti di infrazione.
Il provvedimento n. 141/2016 ha disciplinato, per quanto di interesse, le modalità per il passaggio dal sistema centralizzato a quello contabilizzato prevedendo ipotesi alternative qualora per la configurazione dell’impianto condominiale non sia tecnicamente possibile procedere secondo la prima indicazione del legislatore di cui all’art. 9, co.5, lett.a).
Il decreto legislativo, inoltre, ha stabilito i criteri da adottate per la ripartizione delle spese che, in via primaria, si dovranno suddividere secondo i criteri indicati dalla norma UNI 10200 e successive modifiche e aggiornamenti.
Solo in caso di impossibilità di tale applicazione le spese potranno essere attribuite in ragione di almeno il 70% ai consumi volontari ed il rimanente 30% secondo i millesimi, metri quadri o metri cubi utili.
Tale ripartizione è facoltativa là dove i condomini, alla data di entrata in vigore del decreto, siano già dotati di contabilizzazione ed abbiano già deliberato in merito alla ripartizione delle spese.
L’applicazione delle sanzioni amministrative, nella misura da € 500,00 ad € 2.500,00 per appartamento sono contenute nell’art. 16 dello stesso decreto.
Da segnalare che la Regione Lombardia non ha recepito tale proroga in quanto emanata in un settore, quello dell’energia, di competenza regionale.