La locazione: differenza tra affitto e locazione, aspetti sostanziali e processuali - Corte suprema di cassazione ufficio del massimario
La locazione: differenza tra affitto e locazione, aspetti sostanziali e processuali. - 6.1. Locazione e la novazione del rapporto, presupposti. - 6.2. Il sinallagma contrattuale. 6.3. Indennità di avviamento. - 6.4. Le obbligazioni del locatore. - 6.5. Le obbligazioni del conduttore, restituzione della cosa locata. - 6.6. Locazione non abitativa: la denuntiatio, presupposti. - 6.7. La risoluzione per inadempimento del conduttore, risarcimento danno per il locatore, quantificazione. - 6.8. Locazione di immobile ad uso non abitativo, affitto di azienda: differenze - Rassegna della giurisprudenza di legittimità Gli orientamenti delle Sezioni Civili - Corte suprema di cassazione ufficio del massimario (DI STEFANIA BILLI E STEFANO PEPE) dal sito web della Corte di Cassazione
La locazione: differenza tra affitto e locazione, aspetti sostanziali e processuali.
Con riferimento agli aspetti processuali, la Sez. 3, n. 19632/2020, Gorgoni, Rv. 658692-01, si è occupata della vicenda afferente ad un contratto, dalle parti denominato affitto d’azienda, nel quale era prevista, quale controprestazione, oltre al pagamento dei canoni, che l’ordinaria manutenzione sarebbe stata a carico della affittuaria. In particolare, la vicenda aveva ad oggetto l’individuazione delle opere di manutenzione ordinaria. La Corte, confermando la sentenza di merito, ha affermato che carico di chi affitta un’azienda grava l’obbligo di conservarla in tutte le sue componenti nello stato in cui viene affittata con conseguente obbligo di sostenere tutte le spese necessarie a tale scopo. Sicché la distinzione tra spese di manutenzione ordinaria e straordinaria — a differenza di quanto avviene per il contratto di locazione di beni non produttivi — deve partire da tale premessa, con la conseguenza che ciò che rientra nel novero dei lavori di manutenzione ordinaria va determinato in negativo, escludendo quelle opere che risultino straordinarie perché esulano da quelle volte alla conservazione della destinazione economica originariamente impressa al bene concesso in godimento e al ripristino della sua attitudine produttiva. L’alleggerimento degli obblighi manutentivi a carico del locatore è giustificato dal fatto che il conduttore fa proprio il reddito derivante dalla cosa, perciò sostenere le spese di manutenzione ordinaria mantiene l’equilibrio sinallagmatico. Ne consegue, ai fini della distinzione tra spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, con riferimento al contratto di affitto, deve eventualmente adoperarsi, in via orientativa e in assenza di un criterio discretivo certo, l’elenco esemplificativo delle riparazioni straordinarie di cui all’art. 1005 c.c., norma applicabile anche ad istituti diversi dall’usufrutto.
Con riferimento agli aspetti processuali, la Sez. 6-3, n. 23110/2020, Graziosi, Rv. 659270-01, ha confermato il principio espresso dalla Sez. 6-3, n. 19384/2012, Barreca, Rv. 624207-01, secondo cui il contratto che ha per oggetto l’affitto di un bene produttivo deve essere inquadrato nello schema dell’affitto e non nella diversa figura della locazione, con la conseguenza che ad esso non sono applicabili le leggi speciali riguardanti le locazioni e, dunque, il criterio di competenza del forum rei sitae, dettato dall’art. 21 c.p.c. per i contratti di locazione e affitto di azienda, in quanto la distinzione delle species contrattuali, di natura sostanziale, nel predetto articolo si riverbera sull’interpretazione delle norme processuali sulla competenza, le quali sono in rapporto di strumentalità con i tipi sostanziali. Nel caso di specie il Tribunale di Termini Imerese aveva rigettato l’eccezione di incompetenza territoriale a favore del Tribunale di Palermo sollevata dagli opponenti a decreto ingiuntivo con cui il Tribunale aveva ordinato di pagare la somma di €. 116.962,62, oltre interessi e spese, all’opposto a titolo di canone in relazione a un contratto di affitto. L’eccezione era stata proposta in riferimento all’articolo 21 c.p.c., per avere il contratto ad oggetto un terreno e l’annesso pozzo situati nel territorio del Comune di Palermo. L’opposta si era costituita chiedendo il rigetto dell’eccezione di incompetenza, trattandosi di contratto di affitto di bene produttivo, non assoggettato quindi all’articolo 21 c.p.c.
La Corte ha ritenuto corretta la decisione del Tribunale di Termini Imerese, in quanto l’art. 21 cit., non è applicabile al contratto di affitto di bene produttivo, dovendosi il contratto in esame qualificarsi come contratto di affitto per finalità produttiva. La Corte ha, infatti, osservato che l’art. 21 c.p.c., al primo comma, conferisce al «giudice del luogo dove è posto l’immobile o l’azienda», oltre alle cause ulteriori ivi indicate (cause relative a diritti reali su beni immobili, cause relative ad apposizione di termini e ad osservanza delle distanze relative al piantamento degli alberi e delle siepi), «le cause in materia di locazione e comodato di immobili e di affitto di aziende». Parallelamente, l’art. 447 bis c.p.c. delinea poi il cosiddetto rito locatizio per questo gruppo di cause. È dunque evidente che il contratto di affitto rientra nel cluster che ne deriva esclusivamente se ha per oggetto un’azienda. Non rientra, invece, il contratto di affitto di cosa produttiva di cui agli articoli 1615 ss. c.c., che costituisce ovviamente un paradigma diverso. In particolare, il Collegio nel riportare il precedente citato rileva che la disciplina del codice civile fonda la distinzione tra locazione ed affitto -che fa di questo secondo contratto una species del primo - sulla diversa tipologia dell’oggetto del contratto, definendo come affitto la locazione che «ha per oggetto il godimento di una cosa produttiva, mobile o immobile» (art. 1615 cod. dv.). La peculiarità dell’oggetto connota le obbligazioni dell’affittuario poiché questi «deve curarne la gestione in conformità della destinazione economica della cosa e dell’interesse della produzione» (art. 1615 cod. civ.); connota altresì i suoi diritti, poiché gli «spettano i frutti e le altre utilità della cosa» (art. 1615 cod. civ.). Va perciò ribadito che il contratto che ha per oggetto lo sfruttamento di un bene produttivo, va inquadrato nello schema dell’affitto e non nella diversa figura contrattuale della locazione, con la conseguenza che ad esso non sono applicabili le leggi speciali riguardanti le locazioni urbane, né, in ragione della tassatività della previsione dell’art. 657 cod. proc. civ., lo speciale procedimento di convalida di licenza o di sfratto.
Locazione e la novazione del rapporto, presupposti.
Con Sez. 3, n. 22126/2020. Iannello, Rv. 659241-01, la Corte, dopo aver ribadito il costante orientamento della Corte di cassazione secondo cui, in tema di locazione, non è sufficiente ad integrare novazione del contratto la variazione della misura del canone o del termine di scadenza, trattandosi di modificazioni accessorie, essendo invece necessario, oltre al mutamento dell’oggetto o del titolo della prestazione, che ricorrano gli elementi dell’animus e della causa novandi, il cui accertamento costituisce compito proprio del giudice di merito insindacabile in sede di legittimità se logicamente e correttamente motivato - ha rilevato l’errore di sussunzione in cui era incorso il giudice di merito per avere attribuito rilevanza, ai fini della configurabilità della dedotta novazione, sotto il profilo oggettivo (aliquid novi), a pattuizioni incidenti su aspetti meramente accessori del rapporto. In particolare, la Corte ha ritenuto tali: la previsione della risoluzione di diritto in caso di ritardato pagamento del canone, riguardando situazione meramente eventuale e patologica del rapporto; il prolungamento di un ulteriore seennio del rapporto, in quanto si tratta di effetto incidente su aspetto meramente accessorio del rapporto; la prevista maggiore misura dell’aggiornamento Istat del canone, trattandosi di previsione che, oltre a essere palesemente e incontestatamente nulla per contrasto con l’art. 32 legge eq. can., incide anch’essa su aspetto del rapporto (ossia l’ammontare del canone) che non può comunque considerarsi, di per sé solo, suscettibile di modificazioni tali da integrare novazione del rapporto.
Il sinallagma contrattuale.
La Corte d’appello di Milano, nel rigettare la domanda volta a dichiarare la risoluzione di alcuni contratti di locazione commerciale, poneva a fondamento di tale decisione la circostanza che la circostanza che gli immobili concessi in locazione fossero risultati affetti da abusi di carattere edilizio non fosse valsa a impedire il pieno godimento degli stessi immobili da parte della società conduttrice, che ne aveva fatto uso senza alcun tipo di pregiudizi e senza alcuna forma di ingerenza, di controllo o di limitazione da parte dell’autorità amministrativa, con la conseguente persistente integrità del sinallagma contrattuale, dovendo, in ogni caso, escludersi che la concessione in godimento di immobili abusivi integrasse gli estremi di una nullità contrattuale. La Sez. 3, n. 17557/2020, Dell’Utri, Rv. 658684-01, nel rigettare il ricorso proposto dalla conduttrice ha condiviso la decisione dei giudici di merito rilevando che, sul terreno dei prospettabili inadempimenti delle parti, il discorso sulla natura abusiva dell’immobile locato chiede di risolversi nell’analisi degli interessi disposti in sede contrattuale, potendo individuarsi un eventuale inadempimento del locatore solo là dove il carattere abusivo dell’immobile concesso in godimento abbia in qualche misura inciso su un qualche concreto profilo di interesse del conduttore.
Ciò posto - finché nessuna limitazione, contestazione o turbativa del godimento abbia condizionato la sfera del conduttore - spetterà a quest’ultimo allegare e fornire la prova del concreto pregiudizio subito per effetto di tale particolare caratteristica giuridica del bene, dovendo escludersi il ricorso di alcun inadempimento del locatore, in ragione della mera circostanza, in sé, del carattere abusivo dell’immobile locato, non costituente, in quanto tale, un pregiudizio in re ipsa per il conduttore.
Sempre con riferimento al profilo del sinallagma contrattuale in tema di contratto di affitto risulta di particolare rilievo la Sez. 3, n. 14240/2020, Scrima, Rv. 65832901, che si è occupata di una fattispecie avente ad oggetto la domanda di risoluzione di un contratto di affitto per mancato pagamento dei canoni di affitto da parte dell’affittuaria. Avverso tale domanda l’affittuaria, non contestava il pagamento tardivo delle rate trimestrali, ma sosteneva l’inoperatività della clausola risolutiva espressa, azionata dalla proprietaria in mala fede, considerata la tolleranza dimostrata sin dall’inizio della gestione dalla concedente nel ricevere i pagamenti dei canoni ben oltre il termine stabilito, essendo la stessa consapevole delle difficoltà di gestione ed economico- finanziarie che interessavano tutti gli esercenti del centro commerciale. Così ricostruita la fattispecie, la Corte di cassazione, ha affermato che la valutazione sull’esistenza, o meno, di una prassi di tolleranza del ritardo nel pagamento dei canoni locativi costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità ed il mancato esercizio, da parte del locatore, del potere potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per l’inadempimento del locatario, in virtù della previsione di una clausola risolutiva espressa, è l’effetto conformante della buona fede nella fase esecutiva del detto contratto. In ragione di ciò, la Corte, nel rigettare il ricorso avverso la sentenza che aveva respinto la domanda di risoluzione, ha affermato che il rispetto del principio di buona fede impone che il locatore, contestualmente o anche successivamente all’atto di tolleranza, manifesti la sua volontà di avvalersi della menzionata clausola risolutiva espressa in caso di ulteriore protrazione dell’inadempimento e comunque per il futuro, circostanza che non era avvenuta nella fattispecie. In sostanza, nel caso di specie assumeva rilievo il fatto che la concedente, contestualmente o successivamente ai descritti atti di tolleranza, non aveva mai manifestato l’intenzione di avvalersi della clausola risolutiva espressa in caso di ulteriore protrazione dell’inadempimento, circostanza che avrebbe escluso la tacita rinuncia ad avvalersene.
Indennità di avviamento.
Per effetto dell’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale, ex art. 34 della l. n. 392 del1978, il conduttore di un locale ad uso commerciale ha diritto all’indennità per la perdita di avviamento in caso di cessazione del rapporto di locazione non dovuta a risoluzione per inadempimento o disdetta o recesso del conduttore stesso o a una delle procedure di cui al regio decreto n. 267/1942. La previsione legislativa mira, da un lato, a tutelare il conduttore, dai disagi e dalle difficoltà derivanti alla sua attività commerciale a causa della disdetta del contratto di locazione da parte del proprietario/locatore e, dall’altro, a disincentivare il locatore dal recesso anticipato spingendolo ad attendere la scadenza naturale del contratto per evitare di incorrere nell’obbligo del versamento delle somme a titolo di indennità.
Con Sez. 6-3, n. 12405/2020, Scrima, Rv. 658221-02, la Corte ha affermato che l’art. 79 l. n. 392 del 1978, il quale sancisce la nullità di ogni pattuizione diretta a limitare la durata legale del contratto di locazione o ad attribuire al locatore un canone maggiore di quello legale, ovvero ad attribuirgli altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della legge stessa, mira ad evitare che al momento della stipula del contratto le parti eludano in qualsiasi modo le norme imperative poste dalla legge sul cosiddetto equo canone, aggravando in particolare la posizione del conduttore, ma non impedisce che al momento della cessazione del rapporto le parti addivengano ad una transazione in ordine ai rispettivi diritti ed in particolare alla rinunzia da parte del conduttore, dopo la cessazione del rapporto, all’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale di cui all’art. 34 della stessa legge, e, “a fortiori”, ad avvalersi della facoltà di impedire che l’esecuzione si compia senza la corresponsione (o l’offerta nella misura dovuta) della detta indennità.
Le obbligazioni del locatore.
Sez. 3, n. 07574/2020, Graziosi, Rv. 657428-01, ha accolto il ricorso della conduttrice e, per l’effetto, cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto l’art. 1621 c.c. avente natura inderogabile. In ragione di tale assunto i giudici di merito avevano ritenuto nullo l’art. 17 del contatto di affitto con il quale le parti avevano stabilito, in deroga all’art. 1621 c.c., che «ai sensi dell’art. 1621 c.c. le spese di manutenzione e riparazione ordinaria e straordinaria sono a carico dell’affittante, mentre le spese di piccola manutenzione ordinaria sono a carico della parte affittuaria». La Corte ha osservato che l’art. 1621 c.c., sorge esclusivamente dalla ratio di colmare eventuali carenze del regolamento negoziale in ordine alle “Riparazioni”, ma non inibisce alle parti di scegliere direttamente, al riguardo, la disciplina, lasciando quindi integra l’autonomia negoziale.
Sempre nel corso del 2020 la Corte (Sez. 3, n. 08466/2020, Scarano, Rv. 657801 - 01) ha affermato che il conduttore ha diritto alla tutela risarcitoria nei confronti del terzo che, con il proprio comportamento, gli arrechi danno nell’uso o nel godimento dell’immobile locato, avendo un’autonoma legittimazione per proporre l’azione di responsabilità contro l’autore di tale danno, ai sensi dell’art. 1585, comma 2, c.c.
Le obbligazioni del conduttore, restituzione della cosa locata.
Sez. 3, n. 08526/2020, Gorgoni, Rv. 657811 - 01 ha affermato che l’inadempimento o l’inesatto adempimento dell’obbligazione contrattuale è di per sé un illecito, ma non obbliga l’inadempiente al risarcimento se, in concreto, non è derivato un danno al patrimonio del creditore, neppure nell’ipotesi disciplinata dall’art. 1590 c.c. Applicando tale principio alla fattispecie oggetto di scrutinio, la Corte ha rilevato che il conduttore non è tenuto al risarcimento se dal deterioramento della cosa locata, superiore a quello corrispondente all’uso della stessa in conformità del contratto, per particolari circostanze non è conseguito un danno patrimoniale al locatore. In particolare, nella specie, la riconsegna era avvenuta per consentire che l’immobile, destinato ad attività alberghiera, fosse sottoposto a ristrutturazione, sulla quale il deterioramento non aveva avuto alcuna incidenza economica.
Locazione non abitativa: la denuntiatio, presupposti.
Sez. 6-3, n. 17992/2020, Dell’Utri, Rv. 659011-01, ha cassato la sentenza della Corte d’Appello di Palermo che, in accoglimento dell’appello proposto e in riforma della decisione di primo grado, aveva ordinato il trasferimento, ai sensi dell’art. 2932 c.c., della quota di un terzo indiviso di proprietà di un’area condotta in locazione dalla appellata e appartenente agli appellanti, con la contestuale condanna della prima al pagamento, in favore degli appellanti, del prezzo dovuto. Tale pronuncia si fondava sul diritto dell’appellata a godere della prelazione spettante, ai sensi dell’art. 38 della legge n. 392 del 1978; diritto rispetto al quale non assumeva alcun rilievo la mancata coincidenza tra il bene immobile condotto in locazione (nella sua interezza) e quello offerto in prelazione dalle controparti che non aveva impedito l’incontro effettivo della volontà negoziale delle parti con conseguente condanna dell’appellata, ex art 2932 c.c., al trasferimento pro quota del suindicato immobile. Diversamente la Corte di cassazione nel confermare il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui la comunicazione del locatore al conduttore dell’intenzione di vendere l’immobile locato per uso non abitativo - cosiddetta denuntiatio, prevista dall’art. 38 della l. n. 392 del 1978 - è atto dovuto non negoziale, volto a consentire l’esercizio del diritto di prelazione, ha, poi, precisato che ciò vale purché però sussistano già i presupposti per la sua esistenza. Di talché, prosegue il Collegio, in carenza di questi è inefficace l’adesione del conduttore alla suddetta denuntiatio. Alla luce di tale principio, la Corte ha escluso che nel caso di specie sussistessero i presupposti per l’esercizio del diritto di prelazione, attesa l’oggettiva diversità tra la quota offerta nella denuntiatio e l’intero bene condotto in locazione dal conduttore.
La risoluzione per inadempimento del conduttore, risarcimento danno per il locatore, quantificazione.
Nel corso di un rapporto di locazione commerciale, la conduttrice agiva proponeva domanda volta ad ottenere la risoluzione del contratto per inadempimento di controparte chiedendone anche la condanna al risarcimento del danno. La locatrice resisteva, deducendo l’inadempimento della conduttrice al pagamento dei canoni, per i quali aveva chiesto ed ottenuto decreto ingiuntivo, opposto dall’altra società. Riuniti i procedimenti, il Tribunale rigettava le domande della conduttrice e condannava l’ingiunta al pagamento delle somme maturate fino alla data di riconsegna formale dell’immobile, respingendo la domanda della locatrice con la quale chiedeva, a titolo risarcitorio, anche il pagamento dei canoni ulteriori, maturati e maturandi successivamente al rilascio fino alla scadenza naturale del contratto, originariamente stipulato per sei anni. Tale ultima domanda trovava parziale accoglimento dinnanzi alla Corte d’Appello la cui sentenza era oggetto di ricorso dinanzi alla Corte di cassazione.
Sez. 3, n. 08482/2020, Iannello Rv. 657805 - 01 è stata investita, dunque, investita sulla risarcibilità del danno rappresentato dai canoni non riscossi dopo lo scioglimento del rapporto e fino all’eventuale rilocazione del bene e sulla sua quantificazione nei limiti della eventuale differenza tra il canone originariamente pattuito e quello della nuova locazione. La Corte premette richiamando i principi generali in tema di risoluzione e segnatamente dall’art. 1453 c.c., che configura l’obbligo risarcitorio come rimedio ulteriore sia alla manutenzione che alla risoluzione del contratto. Resta tuttavia da chiarire se la norma attribuisca alla parte che subisce l’inadempimento il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione dell’interesse contrattuale positivo.
In proposito, il Collegio riporta le soluzioni giurisprudenziali proposte sul punto. Secondo l’orientamento maggioritario viene riconosciuto al locatore non inadempiente il diritto di pretendere quanto avrebbe potuto conseguire se le obbligazioni fossero state adempiute (detratto l’utile ricavato) o che, con la normale diligenza, avrebbe potuto ricavare dall’immobile nel periodo intercorso tra la risoluzione prematura ed il termine convenzionale del rapporto inadempiuto. In particolare si osserva che l’art. 1453 c.c. fa salvo in ogni caso il diritto al risarcimento della parte adempiente che chiede la risoluzione del contratto per inadempimento della controparte; ciò a conferma che tra i danni risarcibili è compreso anche il mancato guadagno, se e in quanto sia conseguenza diretta ed immediata dell’evento risolutivo, ex art. 1223 c.c. Quanto all’ammontare del danno effettivamente subito dal locatore sarà poi necessario un accertamento concreto, che costituisce indagine di merito riservata al giudice, da farsi caso per caso e non sindacabile se non sotto il profilo del vizio di motivazione.
La tesi opposta esclude invece, già in astratto, che avvenuta la risoluzione per inadempimento del conduttore a seguito del rilascio del bene, il locatore possa lamentare un danno per la mancata percezione dei canoni esigibili fino alla scadenza del contratto o fino alla rilocazione. La mancata percezione dei canoni pattuiti non costituisce una perdita, dato che comunque non avrebbero mai fatto parte del patrimonio del locatore a causa dell’intervenuta risoluzione, ma non configura neppure un mancato guadagno. Secondo tale orientamento, se infatti è vero che il canone rappresenta il corrispettivo della privazione della facoltà di godimento del bene, è altrettanto vero che il locatore, in seguito alla risoluzione del contratto e con il rilascio riacquisita la facoltà di godimento e disponibilità dell’immobile e quindi non può pretenderne la corresponsione.
Con la sentenza in esame la Corte aderisce al primo dei due orientamenti, non reputando convincente l’affermazione secondo cui la riottenuta disponibilità del bene da parte del locatore sarebbe sufficiente a compensare il danno subito.
A sostegno ti tale conclusione depone la circostanza che se è vero che il proprietario dell’immobile è libero di scegliere se goderne, direttamente o indirettamente, o anche di non utilizzarlo in alcun modo, non è altrettanto vero che queste scelte siano realizzabili e abbiano lo stesso valore economico, a prescindere dalle condizioni personali e di mercato e sul solo presupposto di effettiva disponibilità del bene. Se il proprietario non consegue l’interesse contrattuale voluto, consistente nella percezione di un canone a fronte del godimento garantito al conduttore, si determina un danno che non viene meno per la sola riacquistata disponibilità del bene. Il locatore continuerà infatti a subire il pregiudizio derivante dalla risoluzione fino alla successiva rilocazione del bene a terzi, oppure fino al termine del rapporto originariamente pattuito.
Con specifico riferimento al caso di specie, i giudici osservano che la scelta di godere indirettamente dell’immobile attraverso la locazione era già stata fatta liberamente dalla società locatrice, che l’ha preferita sia all’esercitarvi direttamente un’attività produttiva, sia al non utilizzo e che è stata frustrata dall’inadempimento della conduttrice e dalla successiva risoluzione, privandola definitivamente dei crediti derivanti dal rapporto ormai risoltosi.
Locazione di immobile ad uso non abitativo, affitto di azienda: differenze.
Sez. 3, n. 03888/2020, Cricenti, Rv. 657146-01, ha indicato i criteri discretivi tra due distinte fattispecie contrattuali: la locazione ad uso commerciale e l’affitto d’azienda. In proposito assume rilievo il carattere dell’organizzazione, che deve preesistere alla cessione; in difetto, non si è possibile affermare che si è ceduto il godimento di un’azienda o di un suo ramo. Precisa, ancora, la Corte che il bene immobile oggetto del negozio, non deve rivestire un carattere centrale, ma essere uno degli altri elementi dell’azienda.
Nella specie, la Corte ha cassato con rinvio la decisione della Corte d’Appello, la quale, poiché l’immobile oggetto del contratto era situato in un centro commerciale, aveva erroneamente ritenuto l’avvenuta cessione di un’organizzazione aziendale, senza verificare se il cedente avesse in precedenza impresso ai beni interessati dall’accordo una tale organizzazione e valorizzando, invece, il trasferimento in godimento, assieme al locale, di elementi, quali un massetto, un registratore ed un gabinetto, di per sé insufficienti a costituire un’azienda. Va preliminarmente osservato che la locazione ad uso commerciale è disciplinata dagli artt. 7 e ss. (in quanto richiamati dall’art. 41) e dagli 27-42 della legge n. 392 del 1978 (legge sull’equo canone). Il contratto d’affitto d’azienda è invece, previsto dall’art. 2562 c.c., mentre il contratto d’affitto tout court è definito dall’art. 1615 c.c. come il negozio avente ad oggetto un bene produttivo, mobile o immobile. Si tratta del contratto con cui un soggetto (affittante o locatore), dietro corrispettivo, si obbliga a far godere l’azienda ad altro soggetto (affittuario), il quale deve gestirla senza modificarne la destinazione e conservare l’efficienza dell’organizzazione. Alla luce di ciò, la Corte si è soffermata sugli elementi fondamentali che compongono l’azienda. Uno di essi è l’organizzazione come, del resto, si evince dall’art. 2555 c.c. Premesso che l’azienda è composta da una pluralità di beni, il collante è l’attività dell’imprenditore, intesa come organizzazione volta al perseguimento della finalità d’impresa. In ragione di quanto sopra il contratto con cui il cedente conceda al cessionario il godimento di un’azienda presuppone la preesistenza dell’azienda in capo al cedente; di talché è incompatibile con l’affitto d’azienda la cessione in godimento di beni che sarà il cessionario ad organizzare. Da ciò consegue che se oggetto della cessione è solo un complesso di beni, ma non organizzati ai fini dell’impresa, non si ha cessione d’azienda. Conclude la Corte che da quanto sopra l’erroneo convincimento della Corte d’Appello che ha affermato che si ha affitto d’azienda solo allorché sia concesso in godimento un complesso di beni dotato di potenzialità produttiva, anche se l’attività produttiva non sia ancora iniziata al momento della conclusione del contratto.