Avvocato specialista - Sentenza Tar Lazio n. 01278 del 03/02/2022
Il titolo di specialista si può conseguire all'esito positivo di percorsi formativi almeno biennali o per comprovata esperienza nel settore di specializzazione”. - Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sentenza n. 01278 del 03/02/2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1907 del 2021, proposto da
Ordine degli Avvocati di Roma, Ordine degli Avvocati di Napoli, Ordine degli Avvocati di Palermo, Ordine degli Avvocati di Frosinone, Ordine degli Avvocati di Velletri, Ordine degli Avvocati di Civitavecchia, Ordine degli Avvocati di Cassino, Ordine degli Avvocati di Viterbo, Unione degli Ordini Forensi del Lazio, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Massimiliano Mangano, Antonio Messina e Giorgio Leccisi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti
Consiglio Nazionale Forense, non costituito in giudizio;
e con l'intervento di
ad adiuvandum:
A.G.Amm. – Associazione dei giovani amministrativisti, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Massimo Nunziata, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
ad opponendum:
Agi - Avvocati giuslavoristi italiani, Aiaf - Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori, Ami- Associazione avvocati matrimonialisti italiani per la tutela delle persone, dei minorenni e della famiglia, Cammino, Ondif - Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia, Uncat - Unione nazionale camere avvocati tributaristi, Ucpi - Unione delle camere penali italiane, Uftdu - Unione forense per la tutela dei diritti umani, Uncm – Unione nazionale camere minorili, Uncc - Unione nazionale delle camere civili, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Monica Ceravolo, Marco Di Benedetto, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Società italiana degli avvocati amministrativisti - S.I.A.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, e Filippo Lubrano, rappresentati e difesi dall'avvocato Filippo Lubrano, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Flaminia 79;
per l'annullamento,
previa sospensiva,
del decreto del Ministero della Giustizia n. 144 del 12 agosto 2015 “Regolamento recante disposizioni per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista, a norma dell'articolo 9 della legge 31 dicembre 2012”, pubblicato in G.U. in data 15 settembre 2015, così come modificato dal decreto del Ministero della Giustizia n. 163 del 1° ottobre 2020, pubblicato in G.U. in data 12 dicembre 2020, rubricato “Regolamento concernente modifiche al decreto del Ministro della giustizia 12 agosto 2015, n. 144, recante disposizioni per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista, ai sensi dell'articolo 9 della legge 31 dicembre 2012, n. 247”,
nonché di ogni altro atto o provvedimento preordinato, connesso e consequenziale.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia, l’intervento ad adiuvandum di A.G.Amm. – Associazione dei giovani amministrativisti, l’intervento ad opponendum di Agi - Avvocati giuslavoristi italiani, Aiaf - Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori, Ami- Associazione avvocati matrimonialisti italiani per la tutela delle persone, dei minorenni e della famiglia, Cammino, Ondif - Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia, Uncat - Unione nazionale camere avvocati tributaristi, Ucpi - Unione delle camere penali italiane, Uftdu - Unione forense per la tutela dei diritti umani, Uncm – Unione nazionale camere minorili, Uncc - Unione nazionale delle camere civili e Società italiana degli avvocati amministrativisti - S.I.A.A.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 3 novembre 2021 la dott.ssa Francesca Petrucciani e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con il ricorso in epigrafe gli Ordini degli Avvocati indicati in epigrafe e l’Unione degli Ordini Forensi del Lazio hanno impugnato il decreto del Ministero della Giustizia n. 144 del 12 agosto 2015 “Regolamento recante disposizioni per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista, a norma dell'articolo 9 della legge 31 dicembre 2012”, pubblicato in G.U. in data 15 settembre 2015, così come modificato dal decreto del Ministero della Giustizia n. 163 del 1° ottobre 2020, pubblicato in G.U. in data 12 dicembre 2020, rubricato “Regolamento concernente modifiche al decreto del Ministro della giustizia 12 agosto 2015, n. 144, recante disposizioni per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista, ai sensi dell'articolo 9 della legge 31 dicembre 2012, n. 247”.
I ricorrenti hanno esposto che, con la legge n. 247 del 31 dicembre 2012, è stata innovata la disciplina dell’ordinamento della professione forense, con l’istituzione delle c.d. specializzazioni per gli avvocati, demandando al Ministero della Giustizia, previo parere del C.N.F., l’adozione di un regolamento contenente le modalità e i requisiti per ottenere il titolo di avvocato specialista.
Con il D.M. n. 144/2015 è stato approvato il “Regolamento recante disposizioni per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista, a norma dell'articolo 9 della legge 31 dicembre 2012, n. 247”.
Tale decreto è stato parzialmente annullato dal Tar del Lazio con le sentenze nn. 4424, 4436, 4427 e 4428 del 2016, poi confermate dal Consiglio di Stato, con sentenza n. 5575/2017; il Tribunale regionale ha evidenziato che la suddivisione dei settori di specializzazione contenuta nel comma 1 dell’art. 3 risultava irragionevole e incompleta, nonché in contrasto con la finalità, perseguita dalla l. n. 247/2012, di rendere il mercato delle prestazioni legali più leggibile per i consumatori, non risultando rispettato né un criterio codicistico, né un criterio di riferimento alle competenze dei vari organi giurisdizionali esistenti nell’ordinamento, né, infine, un criterio di coincidenza con i possibili insegnamenti universitari, più numerosi di quelli individuati dal decreto (sentenza n. 4424/2016).
Il Consiglio di Stato, nel confermare la decisione del TAR, ha rilevato che “l’elenco prende le mosse dalla tripartizione tradizionale fra diritto civile, penale e amministrativo. Tuttavia, esso poi dilata ampiamente il primo settore e non introduce nessuna differenziazione nell’ambito degli altri, laddove è ben noto che quanto meno il diritto amministrativo conosce sotto-settori autonomi nella pratica, nella dottrina e nella didattica, che – al pari di quelli del diritto civile – meriterebbero di essere considerati settori autonomi di specializzazione; mentre, per converso, appare discutibile, in termini di ragionevolezza, la analitica suddivisione per il diritto civile. In altri termini, la previsione regolamentare presenta una intrinseca incoerenza laddove sembra prescegliere criteri simmetricamente diversi nella individuazione delle articolazioni interne ai settori” (Cons. St., sez. IV, n. 5575/2017).
Il Ministero della Giustizia ha quindi avviato l’elaborazione di uno schema di decreto “correttivo”, contenente modifiche al D.M. n. 144, in conformità alla sentenza del Consiglio di Stato n. 5575/2017, giungendo all’adozione del decreto impugnato.
A sostegno del ricorso sono state formulate le seguenti censure:
In ordine all’articolo 3 del D.M. n. 144/2015, come modificato dal D.M. n. 163/2020.
L’art. 9 della legge n. 247 del 31 dicembre 2012, recante la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, ha introdotto nell’ordinamento italiano la possibilità per gli avvocati di conseguire il titolo di specialista, all'esito positivo di percorsi formativi almeno biennali o per comprovata esperienza nel settore di specializzazione.
Il D.M. 144/15, a seguito delle modifiche introdotte dal D.M. n. 163/2020, prevede, all’art. 3, che l’avvocato possa conseguire il titolo di specialista in non più di due dei settori di specializzazione indicati e che, nei macrosettori del diritto civile, penale e amministrativo, il titolo di specialista si possa acquisire a seguito della frequenza con profitto dei percorsi formativi ovvero dell’accertamento della comprovata esperienza relativamente ad almeno uno degli indirizzi di specializzazione indicati nei commi 3, 4 e 5 dell’art. 3.
Il successivo art. 5, dopo le modifiche introdotte dal D.M. n. 163/2020, stabilisce, a sua volta, che l’avvocato può chiedere che nell’elenco siano specificati l’indirizzo o gli indirizzi fino ad un massimo di tre per ciascun settore tra quelli di cui ai commi 3, 4, 5 dell’art. 1 del medesimo decreto (di seguito, anche, i “settori tradizionali” del diritto civile, penale e amministrativo).
Tale disposizione consente, quindi, che l’avvocato possa iscriversi all’albo di un determinato settore come specialista (fino ad un massimo di due settori), senza specificare alcuno degli indirizzi in cui si suddivide il settore ovvero, in alternativa, indicando altresì gli indirizzi di specializzazione (fino ad un massimo di tre).
Tuttavia, per i settori tradizionali, l’avvocato deve necessariamente “qualificarsi” tramite uno degli indirizzi in questione.
La scelta di individuare tredici settori e, tra quelli del diritto civile, penale e amministrativo, ulteriori indirizzi (undici per il civile, sette per il penale e otto per l’amministrativo), sarebbe illegittima perché l’introduzione degli indirizzi quali segmenti di specializzazione nei settori del diritto civile, penale e amministrativo sarebbe priva di copertura legislativa; la carenza di una previsione legislativa avrebbe valenza sostanziale, atteso che gli indirizzi hanno rilevanza esterna sia in quanto determinano l’oggetto del percorso formativo necessario all’acquisto del titolo, sia in quanto sono oggetto di pubblicità e/o comunicazione nei confronti di terzi.
La scelta del Ministero in ordine all’individuazione dei nuovi settori e alla specificazione dei settori c.d. “tradizionali” in indirizzi sarebbe, inoltre, immotivata e in contrasto con le statuizioni del giudicato amministrativo di annullamento del precedente decreto, poiché, a differenza di quanto affermato nella relazione illustrativa, non si sarebbe tenuto conto della omogeneità tra le materie e della giurisdizione applicabile.
Per esempio, nel settore del diritto amministrativo, gli indirizzi individuati non coprirebbero tutti gli ambiti della materia, non essendo state menzionate le materie di cui all’art. 119 c.p.a., quelle degli atti delle autorità militari, o delle amministrazioni dell’Interno, il demanio e patrimonio statale e non statale, non riconducibile né nell’edilizia o urbanistica né nei servizi di interesse generale, la materia del commercio, industria ed artigianato, le autorità indipendenti, le espropriazioni, gli impianti pubblicitari, la disciplina degli stranieri e delle professioni, mentre altri ambiti, pur afferendo al diritto amministrativo, secondo il D.M. costituirebbero settori autonomi (quali il diritto della concorrenza, il diritto dei trasporti e della navigazione, il diritto dello sport).
Per tali ambiti di attività l’avvocato amministrativista sarebbe discriminato, poiché, potendo conseguire il titolo di specialista solo in due settori, svolgendo attività in tali materie non potrebbe ottenerne il riconoscimento ai fini del titolo di specialista di settore (poiché il titolo, per i settori tradizionali, si acquista con l’esperienza nell’indirizzo).
L’art. 1, comma 1, lett. b) del D.M. 163/20 sarebbe poi illegittimo nella parte in cui ha mantenuto la previsione della possibilità di conseguimento del titolo in non più di due settori di specializzazione.
Tale previsione, pur se già contenuta nel precedente decreto, sarebbe illegittima in relazione alla nuova e diversa articolazione dei tredici nuovi settori di specializzazione rispetto a quella precedentemente delineata dal D.M. 144 (che ne prevedeva diciotto).
Infatti, se un avvocato può optare per il titolo di specialista nel diritto amministrativo, o nel diritto civile o diritto penale, senza dover indicare i relativi indirizzi, non si comprenderebbe per quale ragione si debba limitare a soli tre indirizzi la relativa specializzazione per l’ipotesi in cui l’avvocato svolga la propria attività in tutti gli altri indirizzi in cui è suddiviso il settore di appartenenza; sarebbe inoltre contraddittorio prevedere che sia sufficiente dimostrare la propria attività professionale in un solo indirizzo per ottenere il titolo di avvocato specialista di settore e poi negare la possibilità di indicare un numero di indirizzi superiore a tre per l’avvocato la cui attività contempli tutte, o parte, delle materie in cui si suddivide il settore in questione e quindi in cui si compone la sua attività.
Del pari illegittima sarebbe la previsione della specializzazione nei settori tradizionali tramite gli indirizzi, poiché la mancata valorizzazione o il mancato riconoscimento di un indirizzo da parte del Regolamento non consentirebbe di conseguire il titolo di specialista al professionista effettivamente operante in un determinato settore.
In ordine all’articolo 7, comma 4 del D.M. n. 144/2015 come confermato dal D.M. 163/2020.
Con riferimento ai percorsi formativi da seguire per ottenere il titolo di avvocato specialista, la legge n. 247/2012, all’art. 9, dispone che i percorsi formativi sono “organizzati presso le facoltà di giurisprudenza, con le quali il CNF e i consigli degli ordini territoriali possono stipulare convenzioni per corsi di alta formazione per il conseguimento del titolo di specialista”.
Al riguardo, il decreto impugnato, all’art. 7, comma 4, prevede: “I consigli dell’ordine stipulano le predette convenzioni d’intesa con le associazioni specialistiche maggiormente rappresentative di cui all'articolo 35, comma 1, lettera s), della legge 31 dicembre 2012, n. 247.”; il comma 3 del medesimo articolo, invece, dispone: “Il Consiglio nazionale forense può stipulare le convenzioni anche d'intesa con le associazioni specialistiche maggiormente rappresentative di cui all'articolo 35, comma 1, lettera s), della legge 31 dicembre 2012, n. 247”.
Tale disposizione introduce quindi un obbligo per ciascun C.O.A. di una previa intesa con le associazioni specialistiche per poter stipulare le predette convenzioni, in contrasto con il richiamato art. 9 della legge n. 247/2012, dove, invece, è previsto solo e soltanto che “…il Consiglio nazionale forense o i consigli degli ordini territoriali possono stipulare convenzioni per corsi di alta formazione per il conseguimento del titolo di specialista”.
Non vi sarebbe dunque alcuna base normativa dell’obbligo in capo agli Ordini di accordarsi con le associazioni specialistiche per stipulare convenzioni con le facoltà di giurisprudenza.
In ordine all’art. 2 comma 3 del D.M. 163/2020.
La disposizione citata sarebbe illegittima in quanto consente l'attribuzione del titolo in favore di chi abbia ottenuto un dottorato di ricerca, e ciò a prescindere dal fatto che l’istante sia o meno ancora avvocato o che lo sia da un tempo limitato e, in ogni caso, senza alcuna garanzia di certezza in ordine all’esperienza pratica del medesimo nell’esercizio della professione.
In ordine all’art. 6 comma 4 del D.M. n. 144/2015, come modificato dal D.M. n. 163/2020.
Per il conseguimento del titolo per comprovata esperienza già il decreto ministeriale del 2015 ha previsto la necessità di sostenere un colloquio; tuttavia tale disposizione è stata oggetto di annullamento in sede giurisdizionale in quanto le caratteristiche del colloquio sono state ritenute dal Tar e dal Consiglio di Stato troppo generiche.
Anche nella nuova disciplina, tuttavia, il colloquio sarebbe stato delineato in modo vago, non essendo stato precisato l’oggetto del colloquio, né il tipo di valutazione affidata alla Commissione.
L’assenza di chiari limiti al potere discrezionale della Commissione emergerebbe anche dal comma 2 dell’articolo 8, sopra riportato, che introduce una deroga al numero di incarichi necessari a poter ottenere il titolo di avvocato specialista, prevedendo che “Anche in deroga al previsto numero minimo di incarichi per anno, la commissione tiene conto della natura e della particolare rilevanza degli incarichi documentati e delle specifiche caratteristiche del settore e dell'indirizzo di specializzazione.”
Alla Commissione sarebbe quindi attribuita, in modo assolutamente generico, la facoltà di derogare al numero minimo di incarichi per anno, in base ad una non meglio precisata rilevanza degli stessi.
Infine sarebbe illegittima la previsione sulla composizione della commissione valutativa, nella parte in cui non richiede che i componenti professori universitari siano anche avvocati.
Si è costituito in giudizio il Ministero della Giustizia resistendo al ricorso.
Hanno spiegato intervento ad opponendum Agi, associazione degli avvocati giuslavoristi italiani, Aiaf - Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori, Ami- Associazione avvocati matrimonialisti italiani per la tutela delle persone, dei minorenni e della famiglia, Cammino, Ondif - Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia, Uncat - Unione nazionale camere avvocati tributaristi, Ucpi - Unione delle camere penali italiane, Uftdu - Unione forense per la tutela dei diritti umani, Uncm – Unione nazionale camere minorili, Uncc - Unione nazionale delle camere civili e Siaa, società italiana degli avvocati amministrativisti; ha invece proposto intervento ad adiuvandum Agamm, associazione dei giovani avvocati amministrativisti.
All’udienza pubblica del 3 novembre 2021 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
Preliminarmente deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla Siia con riferimento alla omessa notifica dell’atto introduttivo agli eventuali controinteressati.
Al riguardo si osserva che a fronte dell’impugnazione di un decreto ministeriale di contenuto regolamentare, quale quello in esame, non sono ravvisabili posizioni di controinteressati individuati o facilmente individuabili, atteso che l'interesse qualificato, che costituisce la premessa per il riconoscimento della posizione di controinteressato, deve essere espressamente tutelato dal provvedimento ed oggettivamente percepibile come un vantaggio, indipendentemente dall'interesse perseguito dal ricorrente (Cons. Stato, sez. IV, 1 settembre 2015, n. 4092).
L’eccezione deve quindi essere disattesa.
Nel merito il ricorso è infondato.
I ricorrenti hanno contestato, in primo luogo, la rilevanza assegnata, ai fini dell’acquisizione del titolo di avvocato specialista, nell’ambito di ciascuno dei tre settori individuati (civile, penale e amministrativo), agli indirizzi nei quali si specifica ogni settore, “quali segmenti di specializzazione nei settori del diritto civile, penale e amministrativo”; tale individuazione sarebbe priva di copertura legislativa.
La censura è infondata.
L’articolo 9 della legge n. 247/2012 dispone che “È riconosciuta agli avvocati la possibilità di ottenere e indicare il titolo di specialista secondo modalità che sono stabilite, nel rispetto delle previsioni del presente articolo, con regolamento adottato dal Ministro della giustizia previo parere del CNF, ai sensi dell'articolo 1.
Il titolo di specialista si può conseguire all'esito positivo di percorsi formativi almeno biennali o per comprovata esperienza nel settore di specializzazione”.
Come è agevole rilevare dalla lettura della disposizione la stessa non disciplina specificamente “il settore di specializzazione”, determinandone caratteristiche o ampiezza, ma si limita a menzionarlo genericamente, di tal che deve ritenersi che il riferimento al settore non precluda la possibilità di articolare quest’ultimo, al suo interno, in più indirizzi, al fine di meglio descrivere e circoscrivere l’ambito di specializzazione, che è poi la finalità di tale disciplina; ciò tanto più se si considera che l’indicazione dell’indirizzo di specializzazione non è imprescindibile, ma costituisce una facoltà per il professionista, che ben potrà optare per l’indicazione più generale della specializzazione nel macro-settore.
Come già evidenziato da questo Tribunale nella sentenza n. 4424/2016 sul D.M. n. 144/2015, peraltro, il mero dato dell’assenza di puntuali previsioni legislative che corrispondano alla successiva normazione di dettaglio non integra, di per sé, un vizio idoneo - in assenza di ulteriori profili di intrinseca irragionevolezza o di contrarietà alla norma sovraordinata – a provocare l’annullamento delle disposizioni censurate.
Il settore in generale potrà quindi essere legittimamente indicato da chi abbia ottenuto, attraverso un apposito percorso formativo o una comprovata esperienza, una adeguata qualificazione rispetto ad almeno uno degli indirizzi, rimanendo nella disponibilità del singolo avvocato la scelta tra l’indicazione del settore senza specificazioni ovvero con la contestuale indicazione di uno o più indirizzi.
Del resto l’individuazione degli indirizzi ha superato il vaglio di legittimità all’esito dei precedenti giudizi che hanno visto parzialmente annullato il precedente decreto ministeriale del 2015, avendo il Consiglio di Stato censurato proprio l’omessa articolazione del diritto amministrativo, a differenza del diritto civile, in più specifici segmenti specialistici, affermando che “Come osserva il parere del C.N.F., l’elenco prende le mosse dalla tripartizione tradizionale fra diritto civile, penale e amministrativo. Tuttavia, esso poi dilata ampiamente il primo settore e non introduce nessuna differenziazione nell’ambito degli altri, laddove è ben noto che quanto meno il diritto amministrativo conosce sotto-settori autonomi nella pratica, nella dottrina e nella didattica, che - al pari di quelli del diritto civile - meriterebbero di essere considerati settori autonomi di specializzazione; mentre, per converso, appare discutibile, in termini di ragionevolezza, la analitica suddivisione per il diritto civile. In altri termini, la previsione regolamentare presenta una intrinseca incoerenza laddove sembra prescegliere criteri simmetricamente diversi nella individuazione delle articolazioni interne ai settori”.
L’articolazione dei tre principali settori in indirizzi, non investita da rilievi da parte del Consiglio di Stato in sede consultiva, deve pertanto ritenersi legittima.
In secondo luogo è stata contestata la carenza dei criteri in base ai quali sono stati individuati i settori e gli indirizzi di specializzazione.
Al riguardo la citata decisione del Consiglio di Stato ha ritenuto, confermando sul punto la sentenza del Tar, che la precedente suddivisione delle specializzazioni fosse irragionevole e trascurasse illogicamente alcune discipline giuridiche.
Successivamente il Ministero ha dato corso ad un’approfondita istruttoria, mediante la consultazione del Consiglio Nazionale Forense e, per il suo tramite, degli ordini circondariali e delle associazioni forensi specialistiche, e l’analisi dell’impatto della regolamentazione svolta, dopo l’audizione davanti alla Sezione Consultiva per gli Atti Normativi del Consiglio di Stato, nell’ambito dell’Osservatorio nazionale permanente sulla giurisdizione.
In particolare, con il parere interlocutorio n. 1347/2019, il Consiglio di Stato ha richiesto lo svolgimento dell’Analisi dell’impatto della regolazione, raccomandando, altresì, modifiche allo schema di decreto al fine di una puntuale ottemperanza alle indicazioni formulate dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale.
In relazione alla Analisi di impatto della regolamentazione la Sezione consultiva ha sottolineato la necessità di svolgere una analisi della domanda e dell’offerta dei servizi legali, indicando nella necessità di colmare il gap tra offerta e domanda una delle principali ragioni della regolamentazione della specializzazione.
A seguito del parere interlocutorio è stata svolta l’AIR, mediante una consultazione in osservanza delle prescrizioni contenute nel Regolamento 169/2017, che richiede una base di dati ed una ricognizione delle opinioni delle categorie maggiormente interessate al fine di perseguire un elevato livello qualitativo dell’intervento regolamentare. La consultazione, realizzata attraverso questionari in forma telematica e focus group, ha avuto ad oggetto tre profili: le dimensioni del gap tra domanda ed offerta di servizi legali, le cause di tali gap e gli elementi di contesto.
Gli esiti della consultazione, sintetizzati nella relazione AIR, sono contenuti nel rapporto predisposto dall’Osservatorio nazionale permanente per l’esercizio della giurisdizione (ONPG).
Da tali analisi è emersa l’esistenza di un disallineamento tra offerta e domanda dei servizi legali, ed è stata rilevata la stretta correlazione tra specializzazione della professione, qualità dell’offerta dei servizi e potenziale riduzione dei tempi del contenzioso quale necessaria risposta regolatoria a tale disallineamento.
Nell’AIR si è sottolineata, in particolare, la correlazione tra specializzazione ed integrazione delle competenze, al fine di evitare che un eccesso di specializzazione si traduca in un aumento dei costi di coordinamento tra competenze, addossati in ultima analisi sul cliente.
L’intervento regolamentare in esame è stato ritenuto giustificato, dunque, in ragione di un evidente fallimento del mercato dei servizi legali, dove l’asimmetria informativa tra professionisti e clienti si traduce spesso in fenomeni di selezione avversa. La specializzazione ed un’adeguata organizzazione del coordinamento tra le diverse specializzazioni tra studi legali dovrebbero contribuire ad aumentare la qualità dell’offerta, riducendo gli effetti negativi dell’asimmetria informativa anche attraverso l’uso di tecnologie dirette alla semplificazione.
Ciò premesso, nel parere espresso all’esito di tali passaggi procedimentali il Consiglio di Stato ha ritenuto che le modifiche adottate fossero idonee ad eliminare le criticità precedentemente evidenziate in sede giurisdizionale e che le indicazioni concernenti gli indirizzi riflettessero adeguatamente gli ambiti attuali di specializzazione dell’offerta dei servizi legali.
Naturalmente, trattandosi di distinzioni e classificazioni di natura opinabile e per definizione non esaustive, potranno pur sempre ravvisarsi delle materie non adeguatamente menzionate o disciplinate; tuttavia, l’attuale assetto della suddivisione in settori e indirizzi, frutto come detto di approfondita analisi e di un compiuto contraddittorio procedimentale con le parti interessate, ed incentrato sull’omogeneità disciplinare e sulla specialità della giurisdizione, non evidenzia ulteriori profili di irragionevolezza o illogicità, sottraendosi così alle censure proposte, tenuto conto, come detto, della inevitabile opinabilità della categorizzazione.
Con il secondo motivo i ricorrenti hanno contestato i limiti posti dall’articolo 3, comma 1, secondo il quale “L’avvocato può conseguire il titolo di specialista in non più di due [dei seguenti] settori di specializzazione” e di cui all’articolo 5, comma 1, secondo periodo: “L’avvocato specialista può chiedere che nell’elenco siano specificati l’indirizzo o gli indirizzi di cui all’articolo 3, comma 2, sino a un massimo di tre per ciascun settore”.
La censura si palesa tardiva poiché concerne una disposizione che è stata introdotta dal D.M. 144/2015 e non è stata in alcun modo modificata dal D.M. n. 163/2020.
Né può sostenersi, al riguardo, come dedotto dai ricorrenti, che il regolamento “acquista significato (e anche effettiva efficacia) solo nel suo complesso e solo a seguito dell’introduzione della normativa assunta dopo la sentenza del Consiglio di Stato n. 5575/17: anche le clausole già conosciute assumono nuovo rilievo proprio perché e in quanto lette in combinato disposto con le novità regolamentari assunte con DM 163/20”.
L’esame del decreto impugnato, infatti, evidenzia come lo stesso sia intervenuto a modificare solo in alcune parti il precedente provvedimento, apportando modifiche specifiche nel solco di quanto emerso dalle pronunce giurisdizionali e dalla successiva istruttoria, senza in alcun modo toccare le disposizioni che non erano state oggetto di annullamento.
Di conseguenza, le censure concernenti le disposizioni introdotte nel 2015 ed esenti da successivi interventi devono ritenersi inammissibili in quanto tardive.
Peraltro il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 5575/2017, ha affermato che “La censura concernente il numero massimo di specializzazioni conseguibili è fondata non in sé, in quanto può essere opportuno frenare una ‘corsa alla specializzazione’ che rischierebbe di svilire il valore della specializzazione stessa e di andare contro l’interesse del cliente-consumatore, ma alla luce della acclarata irragionevolezza della suddivisione relativa che individua ambiti contermini e settori affini, tanto da far apparire egualmente irragionevole la limitazione impugnata. È evidente che rivisitazione dell’elenco e individuazione di un limite ragionevole e congruo dovranno andare di pari passo”.
Quanto alla deduzione secondo cui “non si coglie la ragione per la quale si debba limitare a soli tre indirizzi la relativa specializzazione per l’ipotesi in cui l’avvocato svolga la propria attività in tutti gli altri indirizzi in cui è suddiviso il settore di appartenenza”, si rileva che è proprio l’esigenza di individuare gli ambiti di specializzazione che è alla base dei limiti indicati, risultando evidente che l’attività svolta in tutti gli indirizzi enucleati corrisponde al profilo più generale del settore, comprendendone tutti gli ambiti, senza manifestare una competenza più specifica in uno o più degli indirizzi e risultando di scarsa utilità rispetto all’obiettivo di ridurre le asimmetrie informative nei rapporti tra avvocati e clienti.
Per le medesime considerazioni è infondato anche il terzo profilo di censura, relativo alla previsione della necessità di opzione per almeno un indirizzo di specializzazione al fine dell’acquisizione del titolo di avvocato specialista in uno dei tre settori principali (diritto civile, penale, amministrativo).
I ricorrenti hanno sostenuto che la mancata valorizzazione o riconoscimento di un indirizzo impedirebbe all’avvocato che esercita in quel settore di ottenere, in relazione a quel particolare indirizzo, il titolo di specialista.
Tuttavia, tenuto conto del fatto che la selezione delle specializzazioni è volta ad offrire un orientamento alla clientela, deve ritenersi che la mancata individuazione di una autonoma specialità per determinate materie non significa che non esistano esperti in quel settore, ma che il mercato non richiede che l’avvocato che opera in quell’ambito di competenza debba essere individuato attraverso il riconoscimento di una specializzazione, ben potendo far rilevare, a tal fine, un altro ambito di competenza.
Quanto alla possibile discriminazione dei giovani professionisti con riferimento al conseguimento del titolo di specializzazione, dedotta nel ricorso e sostenuta anche dall’Agamm, si rileva, innanzitutto, la tardività della censura, giacché l’ipotetica lesione, derivante dalla prescrizione relativa ai titoli di valutazione, è riconducibile alla disposizione originaria e non al d.m. n. 163/2020; ed infatti tale censura è stata già respinta da questo Tribunale con la sentenza n. 4424/2016, confermata dalla sentenza n. 5575/2017 del Consiglio di Stato, che ha rilevato che “neppure può essere seguita la censura che il sistema delineato dalla legge penalizzerebbe inammissibilmente i professionisti giovani, perché è ragionevole che la specializzazione sia un quid pluris e quindi richieda l’acquisizione e l’accertamento di competenze ulteriori rispetto a quella certificata dalla sola iscrizione all’albo professionale”.
Il quarto motivo, con il quale i ricorrenti hanno censurato l’articolo 7, comma 4, del D.M. n. 144/2015, a norma del quale “I consigli dell’ordine stipulano le predette convenzioni d’intesa con le associazioni specialistiche maggiormente rappresentative di cui all’articolo 35, comma 1, lettera s), della legge 31 dicembre 2012, n. 247”, deducendo l’illegittimità della necessaria intesa con le associazioni specialistiche, è anch’esso inammissibile, poiché concerne una disposizione che è stata introdotta dal D.M. 144/2015 e non è stata in alcun modo modificata dal D.M. n. 163/2020.
Con il quinto motivo è stato impugnato l’articolo 2, comma 3, del decreto, laddove si prevede che “Il titolo di avvocato specialista può essere conferito dal Consiglio nazionale forense anche in ragione del conseguimento del titolo di dottore di ricerca, ove riconducibile ad uno dei settori di specializzazione di cui all’articolo 3 del decreto del Ministro della giustizia 12 agosto 2015, n. 144, come sostituito dall’articolo 1, comma 1, lettera b), del presente decreto”.
La disposizione non evidenzia i profili di illegittimità contestati, giacché l’equiparazione dell’avvocato che abbia completato il percorso formativo post-universitario nell’ambito di un dottorato di ricerca conseguendo, dopo le previste verifiche annuali e finale, il titolo di dottore di ricerca in una materia o curriculum riconducibili ad uno dei settori o indirizzi di specializzazione di cui all’articolo 3 del decreto ministeriale, può ritenersi equiparato, ai fini del conseguimento del titolo di avvocato specialista, all’avvocato che abbia frequentato i corsi, di durata almeno biennale, di alta formazione specialistica conformi ai criteri previsti dall’articolo 7, comma 12, del regolamento, senza che tale parificazione comporti alcuna illogicità della normativa.
La disposizione non può, evidentemente, essere interpretata nel senso che il dottorato di ricerca sostituisca il titolo di avvocato, come paventato dai ricorrenti, giacché il titolo universitario nel contesto della disciplina in esame assume rilevanza unicamente al fine di evidenziare l’ambito specialistico in cui la professione viene esercitata.
Con il sesto motivo è stata contestata la disciplina del riconoscimento del titolo per comprovata esperienze (articolo 8) e la nuova disciplina della commissione istituita a tal fine.
L’articolo 6, comma 4, del decreto prevede, al riguardo: “Nel caso di domanda fondata sulla comprovata esperienza il Consiglio nazionale forense convoca l’istante per sottoporlo ad un colloquio per l’esposizione e la discussione dei titoli presentati e della documentazione prodotta a dimostrazione della comprovata esperienza nei relativi settori e indirizzi di specializzazione a norma degli articoli 8 e 11. Il colloquio ha luogo davanti a una commissione di valutazione composta da tre avvocati iscritti all’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori e da due professori universitari di ruolo in materie giuridiche in possesso di documentata qualificazione nel settore di specializzazione oggetto delle domande sottoposte a valutazione nella singola seduta. Il Consiglio nazionale forense nomina un componente avvocato, i restanti componenti sono nominati con decreto del Ministro della giustizia. In previsione della seduta della commissione, il Consiglio nazionale forense e il Ministro della giustizia individuano i componenti in possesso della necessaria qualificazione nell’ambito di un elenco tenuto presso il Ministero della giustizia comprendente tutti i settori di specializzazione. L’inserimento nell’elenco è disposto per gli avvocati su designazione del Consiglio nazionale forense e, per i professori di ruolo, su designazione del dipartimento di afferenza.
Gli avvocati e i professori universitari rimangono iscritti nell’elenco per un periodo di quattro anni. La commissione di valutazione è presieduta da uno dei membri nominati dal Ministro della giustizia e delibera a maggioranza dei componenti una proposta motivata di attribuzione del titolo o di rigetto della domanda. Il colloquio è diretto ad accertare l’adeguatezza dell’esperienza maturata nel corso dell’attività professionale e formativa nel settore di specializzazione in conformità ai requisiti e ai criteri di cui all’articolo 8”.
Secondo i ricorrenti la disciplina regolamentare, con riferimento a tale aspetto, nonostante le modifiche conseguenti alla declaratoria di illegittimità del previgente assetto in relazione al colloquio di accertamento della comprovata esperienza, continua a mancare di chiarezza sull’oggetto del colloquio e sul tipo di valutazione affidata alla Commissione.
Tale assunto è infondato.
I criteri per l’attribuzione del titolo sono specificati sia dall’articolo 9, comma 4, della legge n. 247 del 2012, sia dal regolamento adottato con D.M. n. 144/2015, come modificato dal D.M. n. 163/2020, che ha reso più definiti e meno rigidi i parametri in origine predeterminati.
Con la modifica del 2020, infatti, si è chiarito, al comma 1 dell’articolo 8, che “Il titolo di avvocato specialista può essere conseguito anche dimostrando la sussistenza congiunta dei seguenti requisiti: a) di avere maturato un’anzianità di iscrizione all’albo degli avvocati ininterrotta e senza sospensioni di almeno otto anni; b) di avere esercitato negli ultimi cinque anni in modo assiduo, prevalente e continuativo attività di avvocato in uno dei settori di specializzazione di cui all’articolo 3, mediante la produzione di documentazione, giudiziale o stragiudiziale, comprovante che l’avvocato ha trattato nel quinquennio incarichi professionali fiduciari rilevanti per quantità e qualità, almeno pari a dieci per anno. Ai fini della presente lettera non si tiene conto degli affari che hanno ad oggetto medesime questioni giuridiche e necessitano di un’analoga attività difensiva”.
La nuova disciplina ha pertanto meglio definito i criteri precedentemente indicati, affidando alla commissione il compito di derogarvi motivatamente per tener conto della particolare rilevanza degli incarichi documentati e delle specifiche caratteristiche del settore e dell’indirizzo di specializzazione, soddisfacendo così l’esigenza di maggiore specificazione rilevata dal giudice amministrativo.
La valutazione tecnico-discrezionale della commissione, poi, mira ad evitare che la rigidità dei criteri prefissati conduca a risultati ingiustificati o irragionevoli, consentendo al richiedente di allegare l’esperienza professionale che egli ritenga riconducibile ad un settore e/o ad un indirizzo di specializzazione, e rimettendo all’organo valutatore l’accertamento dei requisiti e la valutazione della “congruenza dei titoli presentati e degli incarichi documentati con il settore e, se necessario, con l’indirizzo di specializzazione indicati dal richiedente”, stabilendo infine che “anche in deroga al previsto numero minimo di incarichi per anno, la commissione tiene conto della natura e della particolare rilevanza degli incarichi documentati e delle specifiche caratteristiche del settore e dell’indirizzo di specializzazione”.
Tale clausola appare una ragionevole mitigazione del riferimento ad un numero fisso di incarichi, consentendo di dare rilievo anche al profilo tipologico e qualitativo degli stessi al fine di derogare al numero minimo previsto.
Per quanto concerne la disciplina della composizione della commissione di cui all’articolo 6, comma 4, il regolamento impugnato ha previsto che la stessa sia composta da tre avvocati iscritti all’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori e da due professori universitari di ruolo in materie giuridiche in possesso di documentata qualificazione nel settore di specializzazione oggetto delle domande sottoposte a valutazione nella singola seduta e, per i tre principali settori, nei relativi indirizzi.
Il Consiglio nazionale forense nomina un componente avvocato, i restanti componenti sono nominati con decreto del Ministro della Giustizia.
In previsione della seduta della Commissione, il Consiglio nazionale forense e il Ministro della Giustizia individuano i componenti in possesso della necessaria qualificazione nell’ambito di un elenco tenuto presso il Ministero della Giustizia comprendente tutti i settori di specializzazione.
L’inserimento nell’elenco è disposto per gli avvocati su designazione del Consiglio nazionale forense e, per i professori di ruolo, su designazione del dipartimento di afferenza.
La Commissione è presieduta da uno dei membri nominati dal Ministro della Giustizia e delibera a maggioranza dei componenti una proposta motivata di attribuzione del titolo (o di rigetto della domanda) con provvedimento del C.N.F., a norma dell’articolo 9, comma 5, della legge n. 247 del 2012.
L’esame della composizione della commissione induce a ritenere che la stessa garantisca una equilibrata partecipazione di vari soggetti che apportano una diversa valutazione, in parte sotto il profilo dell’esperienza universitaria, in parte sotto quello della capacità professionale, assicurando così che la determinazione conclusiva corrisponda ad una considerazione complessiva del profilo professionale da più punti di vista.
In conclusione il ricorso deve essere respinto.
Le spese di lite, data la peculiarità e complessità delle questioni controverse, possono essere compensate.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Compensa le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 novembre 2021 con l'intervento dei magistrati: