Regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile. Condanna alle spese: principio di soccombenza e Liquidazione
Le pronunce della Suprema corte di Cassazione del 2021 in merito alla condanna alle spese: principio di soccombenza e Liquidazione (Le spese e la responsabilità’ processuale aggravata (di Cecilia Bernardo) – articolo estratto dalla Rassegna della giurisprudenza di legittimità Ufficio del Massimario pubblicata sul sito della Corte di Cassazione.
La condanna alle spese. (di Cecilia Bernardo - Magistrato)
1. Il principio di soccombenza.
La regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile si basa sul generale principio della causalità, che fa gravare sulla parte soccombente l’onere di rimborsare le spese di lite sostenute dalla controparte.
Con riferimento al principio della soccombenza, Sez. 1, n. 21823/2021, Parise, Rv. 662354-02, in linea di continuità con i precedenti orientamenti sul punto, ha ribadito che la soccombenza costituisce un'applicazione del principio di causalità, in virtù del quale non è esente da onere delle spese la parte che, con il suo comportamento antigiuridico (in quanto trasgressivo di norme di diritto sostanziale) abbia provocato la necessità del processo. Pertanto, essa prescinde dalle ragioni - di merito o processuali - che l'abbiano determinata e dal fatto che il rigetto della domanda della parte dichiarata soccombente sia dipeso dall'avere il giudice esercitato i suoi poteri officiosi, (conf. Sez. 3, n. 19456/2008, Finocchiaro, Rv. 604625-01).
Inoltre, al fine di attribuire l'onere delle spese processuali, Sez. 6-3, n. 13356/2021, Valle, Rv. 661563-01, ha precisato che il criterio della soccombenza non deve essere frazionato a seconda dell'esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito unitariamente all'esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi definitivamente soccombente abbia conseguito un esito ad essa favorevole, (conf. Sez. 6-3, n. 6369/2013, Ambrosio, Rv. 625486¬01).
Il principio della causalità ha portata generale, con la conseguenza che il criterio della soccombenza trova applicazione in ogni tipo di processo senza distinzioni di natura e di rito. Ed infatti, nell’ambito di un’azione revocatoria volta a far valere l'inefficacia dell'intero atto di costituzione di un fondo patrimoniale, Sez. 6-3, n. 18194/2021, Positano, Rv. 661675-01, ha affermato che, qualora la domanda abbia trovato accoglimento limitatamente ai beni immobili di proprietà del debitore, solo quest’ultimo può essere ritenuto soccombente e condannato alla rifusione delle spese di lite, mentre non possono essere condannate al pagamento delle spese di lite le altre parti del fondo patrimoniale, sebbene convenute in giudizio.
Tale principio è stato affermato sulla base dell’orientamento, secondo cui i beneficiari di un fondo patrimoniale o di un trust non titolari di diritti attuali sui beni non sono legittimati passivi e litisconsorti necessari nell’azione revocatoria, (in tal senso, Sez. 3, n. 19376/2017, Barreca, Rv. 645384-01).
Il principio di responsabilità e causazione riguarda anche la fase dell’esecuzione. Infatti, Sez. 6-3, n. 09877/2021, Tatangelo, Rv. 661155-01, ha ritenuto che il debitore sia tenuto a rimborsare al creditore le spese sostenute per il pignoramento, qualora abbia provveduto al pagamento degli importi intimati con il precetto solo dopo la consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario per la sua notifica al debitore e al terzo pignorato, atteso che in tale ipotesi le spese necessarie per il pignoramento devono ritenersi causate dal suo inadempimento. Non è, dunque, precluso al creditore procedere esecutivamente per tali spese, in forza del medesimo titolo esecutivo, a meno che non sia accertato che egli abbia compiuto tale attività in violazione del dovere di lealtà processuale.
La Suprema Corte è, poi, intervenuta in tema di spese processuali relative al giudizio di appello, osservando che, qualora la causa venga rinviata al primo giudice ai sensi dell'art. 354 c.p.c. per integrare il contraddittorio nei confronti di un litisconsorte necessario, il giudice di appello deve provvedere in ordine alle spese del processo di secondo grado, condannando al pagamento delle stesse la parte riconosciuta soccombente per avere dato causa alla nullità che ha determinato il rinvio. Inoltre, ove abbia elementi sufficienti per stabilire a chi debba essere attribuita l'irregolarità che ha dato luogo alla rimessione, può decidere anche sulle spese di primo grado. In applicazione di tale principio, 6-2, n. 11865/2021, Scarpa, Rv. 661476-01, ha cassato la decisione di appello, che aveva posto le spese di lite del primo grado a carico delle parti convenute, per non avere queste eccepito il difetto di integrità del contraddittorio, laddove l'imperfetta individuazione dei litisconsorti dipende, piuttosto, dalla negligenza o da un errore dell'attore ovvero da un difetto di attività del giudice, (conf. Sez. 2, n. 16765/2010, Bursese, Rv. 614173-01).
Sempre in relazione al giudizio di appello, Sez. 3, n. 02830/2021, D’Arrigo, Rv. 660521-01, ha fatto applicazione del principio secondo cui la condanna alle spese del secondo grado implica necessariamente il giudizio sulla correttezza di quella pronunciata dal primo giudice. Di conseguenza, pur in mancanza di espresso esame del motivo di impugnazione relativo alle spese di primo grado, non ricorre l’ipotesi del difetto di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato nel caso in cui l’appello sia stato interamente rigettato nel merito con condanna dell’appellante al pagamento integrale delle spese di lite anche del secondo grado. Ciò in quanto il motivo di gravame relativo a tale condanna deve intendersi implicitamente respinto e assorbito dalla generale pronuncia di integrale rigetto dell'impugnazione e piena conferma della sentenza di primo grado.
Inoltre, la Suprema Corte ha avuto modo di evidenziare che l’applicazione della regola della soccombenza presuppone che sia stata acquisita la qualità di parte processuale. Sulla base di tale principio, Sez. 6-2, n. 34174/2021, Tedesco, Rv. 662844-01, ha affermato che, in presenza di cause scindibili ex art. 332 c.p.c., la notifica dell'appello proposto dal convenuto soccombente agli altri convenuti vittoriosi nel giudizio di primo grado non ha valore di vocatio in ius ma di mera litis denuntiatio. Di conseguenza, i predetti non diventano, per ciò solo, parti del giudizio di gravame, nè sussistono i presupposti per la condanna dell'appellante al pagamento delle spese di lite in loro favore, ove gli stessi non abbiano impugnato incidentalmente la sentenza, (conf. Sez. 1, n. 5508/2016, Cristiano, Rv. 639030-01).
Nell’anno in rassegna, è stata affrontata anche la questione relativa alla regolamentazione delle spese di lite nel caso in cui la sentenza definitiva sia preceduta da una sentenza non definitiva. In particolare, la Suprema Corte ha più volte affermato che la riforma o la cassazione di una sentenza non definitiva pone nel nulla le statuizioni successivamente pronunciate, le quali siano dipendenti dalla sentenza riformata o cassata, e ciò anche in presenza di un giudicato formale. Tuttavia, ciò non comporta che il giudice, nel pronunciare la sentenza definitiva, debba seguire il criterio di adeguamento al risultato finale dell'intero processo, indipendentemente dall'esito alterno delle sue varie fasi, ma solamente quello di adeguare la pronuncia sulle spese del giudizio al risultato dello stesso. In applicazione di tale principio, Sez. 6-2, n. 12718/2021, Tedesco, Rv. 661311-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto avverso una sentenza definitiva in cui era stato applicato il criterio della soccombenza sulla base degli esiti del giudizio e che era stata impugnata solo nella parte relativa alle spese, in quanto risultava pendente ancora in cassazione il giudizio sulla sentenza non definitiva.
Come è noto, l'art 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 prevede l’obbligo per l’impugnante soccombente di versare l'ulteriore importo a titolo di contributo unificato. Al riguardo, Sez. 6-1, n. 04731/2021, Campese, Rv. 660741-01, ha chiarito che la sussistenza del predetto obbligo dipende dalla coesistenza di due presupposti, l'uno di natura processuale, e cioè che il giudice abbia adottato una pronuncia di integrale rigetto o di inammissibilità o improcedibilità dell'impugnazione, la cui verifica spetta al giudice ordinario, l'altro di natura sostanziale, ovvero che la parte che ha proposto l'impugnazione sia tenuta al versamento del contributo unificato iniziale, soggetto al sindacato del giudice tributario.
Infine, meritano menzione tre pronunce, in cui la Suprema Corte ha affrontato alcune peculiari questioni in ordine all’applicazione del principio della soccombenza.
In particolare, Sez. 6-3, n. 09862/2021, Dell’Utri, Rv. 661142-01, si è pronunciata in ordine al tardivo deposito della procura speciale a ricorrere da parte del difensore del ricorrente. Dopo aver ribadito, in linea con l’indirizzo consolidato, che ciò comporta l'inammissibilità dell'impugnazione, ha statuito che nel caso di specie le spese andavano poste non a carico del relativo difensore (secondo il principio fatto proprio, ex plurimis, da Sez. 6-1, n. 25435/2019, Iofrida, Rv. 655644-01), ma del suo assistito, in quanto l'avvenuto effettivo rilascio della procura speciale, al di là della tardività del deposito, consentiva di riferire al predetto l'attività processuale compiuta.
Sez. 6-1, n. 01057/2021, Pazzi, Rv. 660408-01, ha affermato che, in caso di costituzione in giudizio in via telematica, rileva non il momento in cui la cancelleria rende visibile l'atto all'interno del fascicolo telematico, ma quello in cui è generata la ricevuta di accettazione che perfeziona il deposito telematico. Di conseguenza, tale parte, se vittoriosa, ha diritto alla liquidazione delle spese processuali.
Infine, nell’ambito di una opposizione alla liquidazione del compenso in favore del difensore di soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato, ex artt. 84 e 170 del d.P.R. n. 115 del 2002, Sez. 6-2, n. 35513/2021, Scarpa, Rv. 663069-01, ha precisato che l'ufficio del P.M., anche qualora abbia attivato il relativo procedimento, non può comunque essere condannato al pagamento delle spese del giudizio nell'ipotesi di soccombenza, trattandosi di organo propulsore dell'attività giurisdizionale cui sono attribuiti poteri, diversi da quelli esercitati dalle parti, di natura meramente processuale, svolti per dovere d'ufficio e nell'interesse pubblico. La pronuncia si pone in linea di continuità con il principio affermato da Sez. U, n. 5165/2004, Paolini, Rv. 571109-01, secondo cui l’ufficio del pubblico ministero, così come non può sostenere l'onere delle spese del giudizio nell'ipotesi di soccombenza, non può neppure essere destinatario di una pronuncia attributiva della rifusione delle spese quando risulti soccombente uno dei suoi contraddittori.
2. Liquidazione delle spese.
Come è noto, il d.m. n. 55 del 2014 attualmente in vigore disciplina le modalità di calcolo del compenso dovuto per le prestazioni professionali rese dall’avvocato.
Il legislatore ha optato per una modalità di calcolo del compenso professionale, distinto a seconda della tipologia del procedimento, del relativo valore e della fase dello stesso, con la fissazione di un parametro minimo e massimo all’interno di ciascuno scaglione di valore della controversia.
Nell’anno in rassegna, la Suprema Corte ha adottato numerose pronunce, in cui vengono chiariti molti principi in tema di liquidazione delle spese processuali.
Con riferimento ai generali criteri di liquidazione previsti dal d.m. n. 55 del 2014, Sez. 3, n. 19989/2021, Scrima, Rv. 661839-03, ha affermato che l'esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo, non è soggetto a sindacato di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella. Per contro, è doverosa la motivazione allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario, in tal caso, che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di questo.
Nello stesso senso, Sez. 3, n. 00089/2021, Tatangelo, Rv. 660050-02, ha ribadito che il giudice deve solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, a loro volta derogabili con apposita motivazione, la quale è doverosa allorquando si decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi affinché siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di questo. Di conseguenza, non trova fondamento normativo un vincolo alla determinazione secondo i valori medi ivi indicati.
Sempre in generale, con riferimento al perimetro temporale di applicazione dei parametri introdotti dal d.m. n. 55 del 2014, Sez. 3, n. 19989/2021, Scrima, Rv. 661839-02, ha affermato che i predetti parametri trovano applicazione ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto, ancorché la prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta nella vigenza della pregressa regolamentazione, purché a tale data la prestazione professionale non sia stata ancora completata. Ne consegue che, qualora il giudizio di primo grado si sia concluso con sentenza prima della entrata in vigore del detto d.m., non operano i nuovi parametri di liquidazione, dovendo le prestazioni professionali ritenersi esaurite con la sentenza, sia pure limitatamente a quel grado. Nondimeno, in caso di riforma della decisione, il giudice dell'impugnazione, investito ai sensi dell'art. 336 c.p.c. anche della liquidazione delle spese del grado precedente, deve applicare la disciplina vigente al momento della sentenza d'appello, atteso che l'accezione omnicomprensiva di "compenso" evoca la nozione di un corrispettivo unitario per l'opera prestata nella sua interezza. Le suddette pronunce si pongono in linea di continuità con il precedente orientamento, affermato ex multis da Sez. 6-L, n. 31884/2018, Spena, Rv. 651920-
Con riferimento alla distinzione delle varie fasi processuali, rilevanti ai fini della liquidazione delle spese, Sez. 3, n. 10206/2021, Tatangelo, Rv. 661243-01, ha chiarito che l'effettuazione di singoli atti istruttori e, segnatamente, la produzione di documenti, in altre fasi processuali (come quella introduttiva e/o quella decisionale) non equivale allo svolgimento della fase istruttoria e/o di trattazione. La S.C. ha, quindi, precisato che nel giudizio di appello si può riconoscere la relativa voce di tariffa unicamente qualora sia effettivamente posta in essere, nel corso della prima udienza di trattazione, una o più delle specifiche attività previste dall'art. 350 c.p.c. ovvero sia fissata un'udienza a tal fine o, comunque, allo scopo di svolgere altre attività istruttorie e/o di trattazione, ma non nel caso in cui alla prima udienza di trattazione sia esclusivamente e direttamente fissata l'udienza di precisazione delle conclusioni, senza il compimento di nessuna ulteriore attività, e questo anche ove siano prodotti nuovi documenti in allegato all'atto di appello ovvero, successivamente, con gli scritti conclusionali.
Vanno, altresì, menzionate alcune pronunce adottate dalla Suprema Corte in ordine alla individuazione del corretto scaglione di valore.
Come è noto, per la determinazione dello scaglione degli onorari di avvocato ai fini della liquidazione delle spese di lite, da porre a carico della parte soccombente ai sensi dell'art. 91 c.p.c., il parametro di riferimento è costituito dal valore della causa, determinato a norma del codice di procedura civile. problema può sorgere nel caso in cui, pur essendo stata richiesta la condanna della controparte al pagamento di una somma specifica, sia stata aggiunta l’espressione ”o di quella maggiore o minore che si riterrà di giustizia” o espressioni equivalenti. Al riguardo, Sez. 1, n. 10984/2021, Nazzicone, Rv. 661238-01, ha innanzitutto ribadito che, in caso di rigetto della domanda, il valore della causa va determinato in base al disputatum, che coincide con quanto richiesto nell'atto introduttivo del giudizio. Tuttavia, qualora sia stata inserita anche l’espressione ”o di quella maggiore o minore che si riterrà di giustizia”, la S.C. ha ritenuto che il valore della controversia vada considerato indeterminabile, in quanto espressioni di tal tipo non possono essere interpretate a priori come mere clausole di stile senza effetti. Anzi, in presenza di tali espressioni, deve presumersi che l'attore abbia voluto indicare solo un valore orientativo della pretesa, rimettendone al successivo accertamento giudiziale la quantificazione. Tale pronuncia si pone in senso parzialmente difforme rispetto a Sez. 6-2, n. 1499/2018, Manna, Rv. 647380-01 (secondo cui non può essere considerata di valore indeterminabile la domanda il cui valore può accertarsi nel corso dell'istruttoria e può essere indicato fino al momento della precisazione delle conclusioni) e rispetto a Sez. 6-L, n. 19455/2018, De Marinis, Rv. 649749-01 (secondo cui la formula "somma maggiore o minore ritenuta dovuta” costituisce una clausola meramente di stile, salvo che vi sia una ragionevole incertezza sull'ammontare del danno effettivamente da liquidarsi. Tuttavia, tale principio non si applica se, all'esito dell'istruttoria, sia risultata una somma maggiore di quella originariamente richiesta).
Sempre in tema di determinazione del valore della controversia, giova ricordare che, nelle cause devolute alla giurisdizione equitativa del giudice di pace, trova solitamente applicazione l’art. 91, comma 4, c.p.c., in base al quale le spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice non possono superare il valore della domanda. Al riguardo, però, Sez. 6-2, n. 09059/2021, Picaroni, Rv. 661118-02, ha precisato che il limite suddetto non si applica alle cause di opposizione a ordinanza-ingiunzione o a verbale di accertamento di violazioni del codice della strada, le quali, pur se di competenza del giudice di pace e di valore non superiore ai millecento euro, esigono il giudizio secondo diritto, che giustifica la difesa tecnica e fa apparire ragionevole, sul piano costituzionale, l'esclusione del limite di liquidazione, (conf. Sez. 2, n. 9556/2014, Petitti, Rv. 630424-01).
Inoltre, il d.m. n. 55 del 2014 prevede che, per gli affari di valore superiore ad Euro 520.000,00, alla liquidazione si applica, "di regola", un incremento fino al 30% dei parametri numerici contemplati dai relativi scaglioni di riferimento (ed individuati, nella specie, dall'art. 22 del citato d.m.). Al riguardo, è intervenuta Sez. 2, n. 29170/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 662703-01, affermando che, nell’ipotesi suindicata, il giudice è tenuto ad una specifica motivazione solo nel caso in cui reputi di non disporre alcun incremento percentuale, restando egli, al contrario, libero di stabilire un aumento in misura anche superiore al massimo del 30%, applicando i criteri generali di cui all'art. 4 del medesimo d.m. n. 55, con decisione non censurabile in sede di legittimità.
Per contro, realizza un’omessa pronuncia la motivazione che non espliciti le ragioni del rigetto della domanda di aumento del compenso dovuto per la redazione degli atti con modalità informatiche idonee ad agevolarne la consultazione che consentano la ricerca testuale e la navigazione all'interno dell'atto. Così ha statuito Sez. 2, n. 23088/2021, Tedesco, Rv. 662069-01, ritenendo che l’autonomia di tale domanda escluda che possa essere ravvisata un’ipotesi di rigetto implicito nel mancato riconoscimento della maggiorazione. Inoltre, in linea di continuità con l’orientamento ormai consolidato, Sez. 2, n. 23132/2021, Oliva, Rv. 662070-02, ha ribadito che il professionista, che intenda contestare l'applicazione di un determinato scaglione, deve, a pena d'inammissibilità, indicare il valore della controversia, trattandosi di presupposto indispensabile per consentire l'apprezzamento della decisività della censura, (conf. Sez. 6-3, n. 2532/2015, Carluccio, Rv. 634324-01).
Il medesimo principio ha trovato applicazione anche in Sez. 1, n. 18584/2021, Tricomi L., Rv. 661816-02, secondo cui la parte, che intenda impugnare per cassazione la liquidazione delle spese, dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, per pretesa violazione dei minimi tariffari, ha l'onere di specificare analiticamente le voci e gli importi considerati in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in errore, con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile il ricorso che contenga il semplice riferimento a prestazioni che sarebbero state liquidate in eccesso rispetto alla tariffa massima.
Quanto al computo delle spese, Sez. 3, n. 20847/2021, Guizzi, Rv. 662052¬01, ha statuito che vanno poste a carico del ricorrente soccombente anche quelle del controricorso tempestivamente notificato nel termine di venti giorni, decorrente dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, fissato in relazione all'ultima notificazione di esso tempestivamente eseguita.
Infine, la Suprema Corte ha adottato una serie di pronunce in cui ha preso in considerazione l’aspetto della liquidazione delle spese processuali in relazione ad ipotesi particolari.
Ed invero, qualora venga dichiarata la nullità della decisione di prime cure il giudice di appello è tenuto ad esaminare nel merito la domanda, comportandosi, di fatto, come giudice di unico grado. In applicazione di tale principio, Sez. 2, n. 23132/2021, Oliva, Rv. 662070-01, ha affermato che, in tal caso, non è possibile confermare alcuna statuizione della pronuncia ritenuta nulla, ivi inclusa quella sulle spese del primo grado. Di conseguenza, il giudice di appello deve procedere ad una nuova liquidazione delle stesse relativamente al doppio grado di merito. Nell’ambito del giudizio instaurato per ottenere il risarcimento del danno conseguente al sinistro stradale, Sez. 6-3, n. 14444/2021, Gorgoni, Rv. 661568¬01, ha preso in considerazione l’ipotesi in cui il danneggiato, in sede stragiudiziale, abbia fatto ricorso all'assistenza di uno studio di consulenza infortunistica stradale. La Suprema Corte ha ritenuto che la spesa per avvalersi di tale assistenza sia configurabile come danno emergente, anche se non abbia fatto recedere l'assicuratore dalla posizione assunta in ordine all'aspetto della vicenda che era stata oggetto di discussione e di assistenza in sede stragiudiziale. E’ necessario, infatti, valutare se la stessa sia stata necessitata e giustificata in funzione dell'attività di esercizio stragiudiziale del diritto al risarcimento. (conf. Sez. 3, n. 997/2010, Frasca, Rv. 611051-01).
La Suprema Corte, poi, è intervenuta con riferimento all’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione disponga l’estinzione del processo. Al riguardo, giova ricordare che, ai sensi dell'art. 310, comma 4, c.p.c., in caso di estinzione del processo di esecuzione, le spese restano a carico delle parti che le hanno anticipate, salvo diverso accordo tra loro. Ebbene, Sez. 3, n. 13176/2021, Valle, Rv. 661384-01, ha ritenuto che non sia ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost. l’ordinanza di estinzione del processo esecutivo che provveda alla liquidazione delle spese processuali senza porle a carico del debitore esecutato, come invece richiesto dal creditore procedente, non trattandosi di provvedimento dotato di contenuto decisorio, ma di mera applicazione della regola generale suindicata, (conf. Sez. 3, n. 16711/2009, D’Amico, Rv. 609145-01).
In tema di procedimento cautelare in corso di causa, nel regime successivo alla novella introdotta con la l. n. 80 del 2005, l'ordinanza di rigetto del reclamo non deve contenere un’autonoma liquidazione delle spese della fase cautelare endoprocessuale, essendo tale liquidazione rimessa al giudice di merito contestualmente alla valutazione dell'esito complessivo della lite. Tuttavia, può accadere che tale liquidazione sia stata comunque effettuata. In tal caso, Sez. 3, n. 12898/2021, Rubino, Rv. 661381-01, ha affermato che la liquidazione delle spese deve essere riconsiderata insieme alla decisione del merito della causa e, ove non lo sia, e sia dedotto uno specifico motivo di appello sul punto, il giudice di appello è tenuto ad una riconsiderazione complessiva delle spese di lite, comprensive delle spese del procedimento endoprocessuale, sulla base dell'esito del giudizio.
Nell’ambito del procedimento di correzione dell’errore materiale, Sez. 6-L, n. 13854/2021, Leone, Rv. 661315-01, ha ritenuto ammissibile la modifica della statuizione sulle spese legali quale conseguenza della correzione della decisione principale cui detta statuizione accede, in quanto coerente con i principi di celerità e ragionevole durata che informano il giusto processo. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che correttamente il giudice dell'omologa ex art. 445 bis c.p.c. avesse fatto automaticamente seguire alla correzione della data di decorrenza dell'assegno di invalidità in senso sfavorevole all'assistito quella sul decisum in tema di spese, le quali, poste a carico dell'Istituto previdenziale nel decreto di omologa, erano poi state, in sede di procedura di correzione, compensate).
In tema di liquidazione delle spese sostenute per l'attuazione coattiva, Sez. 3, n. 00269/2021, Porreca, Rv. 660214-01, ha statuito che il decreto ingiuntivo ex art. 614 c.p.c. può essere ottenuto, durante o dopo l'esecuzione, anche per i compensi del difensore del creditore procedente e del CTU e con riferimento sia agli obblighi di fare sia a quelli di non fare, a nulla rilevando, al riguardo, il disposto dell'attuale art. 611 c.p.c. Nell'ipotesi di opposizione avverso il menzionato decreto, il giudice è tenuto a rilevare d'ufficio l'intervenuta caducazione del titolo presupposto azionato e, quindi, della stessa legittima ragione creditoria, producendosi l'effetto espansivo enunciato dall'art. 336, comma 2, c.p.c., con la conseguenza che le spese di cui sopra resteranno a carico del medesimo creditore procedente.
Merita menzione anche Sez. 5, n. 27634/2021, Dell’Orfano, Rv. 662425-01, che nell’ambito del processo tributario ha ritenuto che alla parte pubblica, assistita in giudizio da propri funzionari o da propri dipendenti, spetti la liquidazione delle spese in caso di vittoria della lite. Tale liquidazione deve essere effettuata mediante applicazione della tariffa ovvero dei parametri vigenti per gli avvocati, con la riduzione del venti per cento dei compensi ad essi spettanti. Ciò in quanto l'espresso riferimento ai compensi per l'attività difensiva svolta, contenuto nell'art. 15, comma 2 bis, del d.lgs. n. 546 del 1992, conferma il diritto dell'ente alla rifusione dei costi sostenuti e dei compensi per l'assistenza tecnica fornita dai propri dipendenti, che sono legittimati a svolgere attività difensiva nel processo.