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Mediazione e deontologia

Mediazione e deontologia - Brevi riflessioni a cura di Carlo Bartolini Avvocato del Foro di Tivoli - Già Presidente del Consiglio dell'Ordine

Mediazione e deontologia forense - Brevi riflessioni a cura di Carlo Bartolini Avvocato del Foro di Tivoli - Già Presidente del Consiglio dell'Ordine

1. E' sorta questione in ordine all'interpretazione del secondo comma dell'art. 8 del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28, il quale così dispone:
“Il procedimento si svolge senza formalità presso la sede dell'organismo di mediazione o nel luogo indicato dal regolamento di procedura dell'organismo”.
E' stato al riguardo sostenuto che il procedimento ben può svolgersi presso lo studio dell'avvocato che svolge anche la funzione di mediatore.
Per quanto riguarda gli organismi presso i Tribunali, è da escludere che ciò possa avvenire, atteso che l'art. 18 del citato decreto legislativo n. 28/2010 prevede specificamente che i consigli dell'ordine debbano utilizzare i locali messi a disposizione dal Presidente del Tribunale.
Va da sè che i C.O.A. territoriali ben possono svolgere l'attività di mediazione presso le proprie sedi o in altri locali a loro disposizione, ove ritengano che l'ampiezza dei locali messi a disposizione dal Presidente del Tribunale non permettano un confortevole e dignitoso esercizio della mediazione.
E ciò in quanto ogni attività che coinvolge la figura ed il ruolo dell'avvocato deve essere improntata a dignità e decoro secondo quanto prescrivono gli articoli 12 e 38 del R.D.L. 1578/33, meglio conosciuto come Legge Professionale.
Questi valori fondamentali trovano collocazione nel titolo primo del Codice Deontologico Forense, dedicato ai principi generali, e segnatamente all'art. 5.
Sempre a proposito dei locali nei quali svolgere l'attività di mediazione, si potrebbero presentare esigenze straordinarie ove le parti interessate siano in numero rilevante; in tal caso, i C.O.A. territoriali potranno con apposita deliberazione (a contenuto particolare o generale) stabilire che lo svolgimento della mediazione possa avvenire presso una sala convegni o altro locale idoneo allo scopo.
Non si ritiene applicabile agli organismi presso i tribunali l'art. 7, primo comma, del decreto ministeriale 18.10.2010 n. 180 (“il regolamento contiene l'indicazione del luogo dove si svolge il procedimento, che è derogabile con il consenso di tutte le parti, del mediatore e del responsabile dell'organismo”), atteso che il luogo dove svolgere la mediazione è stabilito per legge (art. 18 del decreto lgs. n. 28/10, interpretato estensivamente nel senso prospettato).

2. Altra e diversa questione riflette l'ipotesi in cui l'avvocato svolge attività di mediazione in organismi diversi da quelli istituiti dai C.O.A. territoriali e se in tal caso possa utilizzare il proprio studio legale per l'esercizio dell'attività di mediazione.
In primo luogo è da evidenziare che i luoghi nei quali si svolge l'attività di mediazione costituiscono, come abbiamo visto, specifico elemento del contenuto del regolamento dell'organismo, il quale è valutato, quanto all'idoneità (da intendersi in senso giuridico) dal Ministro della Giustizia ai sensi dell'art. 16, comma terzo, del decreto lgs. n. 28/2010.
Di talchè appare evidente come i luoghi deputati allo svolgimento della mediazione debbano essere riferiti e riferibili all'organismo in sé e non già alla figura del mediatore, qualificazione questa che può essere conseguita ai sensi dell'art. 4 del decreto n. 180 del 18.10.2010 dai soggetti in possesso di un titolo di studio non inferiore al diploma di laurea universitaria triennale ovvero, in alternativa, iscritti a un ordine o collegio professionale (ovvero le professioni intellettuali regolamentate ai sensi dell'art. 2229 del codice civile).
Ex adverso, qualunque luogo, da uno studio ad una cantina, potrebbe ospitare lo svolgimento dell'attività di mediazione, in ispreto all'art. 16, comma primo, del decreto lgs. n. 28/2010, secondo il quale solo gli enti pubblici o privati che diano garanzie di serietà ed efficienza, sono abilitati a costituire organismi di mediazione.
Avuto, dunque, riguardo alle finalità perseguite dal Legislatore, è impensabile che il Ministro della Giustizia possa “passare” un regolamento che preveda la possibilità di svolgere l'attività di mediazione presso i locali nella disponibilità dei singoli mediatori.
In secondo luogo, e comunque, gli avvocati non potrebbero svolgere attività di mediazione presso i loro studi, atteso che potrebbe essere ravvisata un'operazione di accaparramento di clientela conseguente al sistematico invio di persone da parte dell'organismo presso gli studi medesimi.
L'art. 19 del Codice Deontologico vieta, infatti, ogni condotta diretta all'acquisizione, anche potenziale, di rapporti di clientela a mezzo di agenzie o procacciatori e con modi non conformi alla correttezza e decoro.
Esente da valutazione deontologica è il caso previsto dall'art. 7, primo comma, del citato decreto ministeriale n. 180/2010, quando, cioè, con il consenso di tutte le parti, del mediatore e del responsabile dell'organismo, la mediazione è svolta presso lo studio del mediatore/avvocato.

3. Di maggior rilevanza deontologica sarebbe, poi, l'ipotesi nella quale la sede dell'organismo di mediazione coincidesse con lo studio dell'avvocato.
In questo caso, infatti, oltre alla violazione del divieto di accaparramento della clientela potrebbe ravvisarsi anche la violazione del dovere all'indipendenza, previsto dall'art. 10 del codice deontologico, potendo l'avvocato subire pressioni e condizionamenti nell'esercizio della sua attività forense.
In ordine alla prima violazione, si richiamano le considerazioni svolte al superiore punto n. 2) precisando che il fenomeno avrebbe una portata superiore rispetto alla fattispecie già esaminata (ossia quella dell'avvocato che svolge attività di mediazione presso il suo studio), dal momento che maggiore sarebbe il numero di persone che potrebbero rivolgersi all'organismo di mediazione.
In ordine alla seconda violazione, si pensi al caso in cui l'avvocato assista o difenda un soggetto che abbia esperito il tentativo di conciliazione presso il suo studio ed emergano responsabilità del mediatore e dell'organismo nello svolgimento del procedimento di mediazione.
Assoluta confusione di ruoli potrebbe, poi, verificarsi qualora l'avvocato che abbia presso il suo studio la sede dell'organismo di mediazione, assuma l'assistenza di una delle parti del procedimento di mediazione.
E' di tutta evidenza che ad una mediazione falsata nell'imparzialità e serenità, segua un immediato vulnus proprio della figura dell'avvocato in senso lato, visto come un soggetto non in grado di adempiere ai suoi doveri professionali con lealtà, onore e diligenza per fini di giustizia e per gli interessi supremi della Nazione (come appunto prevede l'art. 12 della Legge Professionale).

4. Va da sé che l'avvocato il quale abbia svolto le funzioni di mediatore non possa assumere la difesa di una delle parti che hanno partecipato o sono state chiamate al procedimento o di altra parte nel giudizio conseguente a quel procedimento. Appare, infatti, evidente l'assoluta incompatibilità che metterebbe in seria discussione la figura ed il ruolo dell'avvocato sia nell'esercizio della sua attività difensiva che in quella di mediatore.
L'incompatibilità si estende a tutti gli associati o soci dell'avvocato che ha svolto la mediazione e a tutti gli avvocati associati o soci del professionista che ha svolto la mediazione, atteso che quest'ultima non è di esclusiva competenza dell'avvocato. E, com'è noto, le associazioni professionali e le società tra professionisti possono essere costituite da avvocati ed altri professionisti (legge 23.11.1939 n. 1815 – art. 1 – e D.L. 223/2006 – art. 2 -).
I casi di incompatibilità che precedono lo svolgimento o si presentano nel corso del procedimento sono disciplinati dall'art. 14 del Decreto Lgs. n. 28/2010, il quale prescrive che al mediatore (nel nostro caso avvocato) è fatto obbligo di sottoscrivere per ciascun affare una dichiarazione di imparzialità e di informare immediatamente l'organismo e le parti delle ragioni di possibile pregiudizio all'imparzialità nello svolgimento della mediazione.
Potrebbe discutersi sull'estensione dell'incompatibilità con riferimento ai colleghi dell'avvocato/mediatore che esercitino negli stessi locali, come peraltro espressamente previsto in tema di arbitrato dall'art. 55 del codice deontologico forense.
Ritengo che se per un verso è vero che la mediazione è istituto completamente diverso dall'arbitrato in quanto il mediatore non emette un verdetto, per altro verso è altresì vero che il mediatore può influenzare, anche non volutamente, le parti. Si pensi al caso in cui una delle parti della mediazione sia assistita da avvocato, collega di studio del professionista che svolge la mediazione. E' evidente che sussista una situazione di incompatibilità e che la stessa vada immediatamente rimossa, all'esito dell'assolvimento del prioritario obbligo della sua comunicazione a carico dell'avvocato/mediatore e/o dell'avvocato che assiste una delle parti.

5. Com'è noto, l'avvocato è destinatario, rispetto agli altri cittadini, di doveri additivi conseguenti al suo specifico ruolo nell'ambito della società civile, oltre che della giurisdizione, il cui corretto ed efficiente servizio costituisce uno dei segnalatori fondamentali della democraticità di uno stato moderno.
Orbene, proprio in virtù di questo ruolo, l'avvocato/mediatore risponde anche disciplinatamente ove non assolva agli obblighi previsti dal decreto lgs. n. 28/2010.
Ciò posto, se si pensa che la mediazione può essere svolta anche da soggetti in possesso di diploma di laurea universitaria triennale, è possibile operare una distinzione tra mediatori non iscritti in ordini o collegi professionali e quindi non tenuti all'osservanza di alcuna norma deontologica e i mediatori iscritti in albi o collegi professionali, obbligati all'adempimento delle prescrizioni dei vari codici deontologici.
Il codice deontologico forense ha natura regolamentare ai sensi degli artt. 1 e 3 delle disposizioni sulla legge in generale e costituisce un corpus complesso di norme in considerazione della eticità della professione di avvocato, chiaramente espressa nel preambolo del codice deontologico:
“Nell'esercizio della sua funzione, l'avvocato vigila sulla conformità delle leggi ai principi della Costituzione, nel rispetto della Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e dell'Ordinamento Comunitario; garantisce il diritto alla libertà e sicurezza e l'inviolabilità della difesa; assicura la regolarità del giudizio e del contraddittorio”.
La fonte normativa di rango primario è costituita dall'art. 38 del RDL 1578/33 secondo il quale sono sottoposti a procedimento disciplinare gli avvocati che si rendono colpevoli di abusi o mancanze nell'esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale.
Come, dunque, appare evidente sono valutati sotto il profilo disciplinare anche condotte, sia esse positive che negative, che non attengono strettamente all'esercizio della professione ma al ruolo stesso dell'avvocato nella società civile. (cfr. art. 5 del Codice Deontologico, comma secondo, “l'avvocato è soggetto a procedimento disciplinare per fatti anche non riguardanti l'attività forense, quando si riflettano sulla sua reputazione professionale o compromettano l'immagine della classe forense.”)
I comportamenti da osservare sono stabiliti da norme di legge, dal codice deontologico o da specifiche regole enunciate da decisioni sia dei C.O.A. territoriali sia del C.N.F., ai sensi dell'art. 60 del codice deontologico e del citato art. 38 del RDL 1578/33, nei casi in cui una determinata condotta non sia codificata.
Tra le norme di legge si pensi, per fare un esempio, agli artt. 85 e 128 del DPR n. 115/2002 in tema di patrocinio a spese dello Stato, agli articoli 88 e 89 del codice di rito civile, all'art. 598 del codice penale ecc..
Per quanto riguarda la mediazione, il decreto legislativo n. 28/2010 prevede a carico del mediatore:
a) il dovere di riservatezza (art. 9);
b) il divieto di assumere diritti o obblighi connessi, direttamente o indirettamente, con gli affari trattati (art. 14, primo comma);
c) il divieto di percepire compensi direttamente dalle parti (art. 14, primo comma);
d) l'obbligo di informazione sulle ragioni di possibile pregiudizio all'imparzialità (art. 14, secondo comma).
Il dovere di riservatezza si estrinseca rispetto alle dichiarazioni rese o alle informazioni acquisite durante il procedimento di mediazione.
Il dovere di segretezza e riservatezza per l'avvocato è previsto dall'art. 9 del codice deontologico.
Il divieto sub b) si ricollega all'art. 1261 del codice civile, che fa divieto ad una serie di soggetti, tra i quali gli avvocati, di rendersi cessionari, seppure per interposta persona, di diritti sui quali è sorta contestazione davanti all'autorità giudiziaria, nella cui giurisdizione esercitano le loro funzioni sotto pena di nullità e risarcimento dei danni.
Il divieto sub c) è simile al divieto previsto dal citato art. 85 del D.P.R. n. 115/2002 secondo il quale l'avvocato non può chiedere e percepire dal proprio assistito compensi o rimborsi a qualunque titolo, diversi da quelli previsti dal D.P.R. stesso.
L'art. 6, quarto comma, del citato decreto ministeriale n. 180/2010 stabilisce che le violazioni degli obblighi inerenti le dichiarazioni previste nello stesso articolo, commesse da professionisti iscritti ad albi o collegi professionali, costituiscono illecito disciplinare sanzionabile ai sensi delle rispettive normative deontologiche.
Le dichiarazioni sono quelle previste dal precedente art. 4, terzo comma, lettera c), ovvero: a) non aver riportato condanne definitive per delitti non colposi o a pena detentiva non sospesa; b) non essere incorso nell'interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici; c) non essere stato sottoposto a misure di prevenzione o di sicurezza; d) non aver riportato sanzioni disciplinari diverse dall'avvertimento.

6. L'art. 16, terzo comma, del decreto legislativo n. 28/2010 prevede che l'organismo di mediazione, unitamente alla domanda di iscrizione nel registro, deve depositare presso il Ministero della Giustizia il proprio regolamento di procedura ed il codice etico.
Occorre distinguere tra gli organismi dei C.O.A. territoriali e gli altri organismi.
Se l'avvocato svolge attività di mediazione per gli organismi dei consigli degli ordini territoriali, la violazione del codice etico costituirà condotta valutabile direttamente in sede disciplinare ai sensi dell'art. 60 del Codice Deontologico e dell'art. 38 della Legge Professionale.
Se l'avvocato svolge funzioni di mediatore per gli altri organismi, la violazione del codice etico non comporterà l'automatica violazione del codice deontologico forense, ma si dovrà valutare caso per caso se la condotta censurata vada a violare i principi fondamentali della professione, stabiliti dagli articoli 12 e 38 della Legge Professionale e dall'art. 5 del Codice Deontologico Forense.
 

 

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