Skip to main content

Procedimento disciplinare - Il dies a quo della prescrizione dell’azione disciplinare -Procedimento penale e prescrizione dell’azione disciplinare

Agli effetti della prescrizione dell’azione disciplinare di cui all’art. 51 R.D.L. 27/11/1933 n. 1578, occorre distinguere il caso previsto dall’art. 38, in cui il procedimento disciplinare tragga origine da fatti punibili solo in tale sede, in quanto violino esclusivamente i doveri di probità, correttezza e drittura professionale, dal caso previsto dall’art. 44, in cui il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti anche reato e per i quali sia stata iniziata l’azione penale: nel primo caso, in cui l’azione disciplinare è collegata ad ipotesi generiche ed a fatti anche atipici, il termine prescrizionale comincia a decorrere dalla commissione del fatto; nel secondo caso, la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta. Ai sensi dell’art. 2935 c.c., la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere; quindi nel caso in cui il procedimento disciplinare venga aperto per fatti costituenti anche reato e 7 per i quali sia stata iniziata l’azione penale, il termine quinquennale di prescrizione per l’azione disciplinare comincia a decorrere dalla definizione del processo penale, cioè dalla data di irrevocabilità della sentenza penale di condanna. Consiglio Nazionale Forense (Pres. f.f. VERMIGLIO – Rel. PIACCI), sentenza del 15 ottobre 2012, n. 136

Consiglio Nazionale Forense (Pres. f.f. VERMIGLIO – Rel. PIACCI), sentenza del 15 ottobre 2012, n. 136

 

FATTO
La vicenda che qui ci occupa, trae origine dal procedimento disciplinare aperto a carico dell’Avv. R. dal COA di Lecce in data 29/5/2002 con il seguente capo di incolpazione:
"Per essere stato ritenuto responsabile penalmente, con sentenza 325/00 Trib. di Lecce, Sez. Maglie, G. U. dott. Tanisi, delle seguenti condotte:
a) per avere, nel corso delle indagini a carico di L. L., proprio assistito, aiutato quest'ultimo ad eludere le investigazioni preconfezionando falsamente un contratto di locazione di un terreno al fine di far risaltare la titolarità dell'affìtto in capo a tal De
Vito G., e depositando il contratto nel fascicolo del P.M.; b) per aver indotto il De Vito, che poi ha ritrattato, ad incolparsi dei reati di ricettazione commessi dal proprio assistito L. G..
Con gravissimo danno per il decoro e la dignità propri e dell'intera avvocatura salentina.
Al riguardo va premesso che in data 30 aprile 1997, il COA di Lecce aveva ricevuto comunicazione dalla Procura della Repubblica, che nei confronti dell’Avv. R. era stata esercitata azione penale perché imputato "del reato di cui agli artt. 110, 378 c.p., poiché in concorso tra loro (con De Vito G.), dopo che fu commesso il reato dì cui al capo A) (ricettazione di autovetture e di parti di esse) e non avendo concorso nel medesimo, aiutavano L. L. ad eludere le investigazioni in corso preconfezionando falsamente il contratto di locazione del terreno di proprietà del L. ove erano stati rinvenuti i beni ricettati, affinchè risultasse che il De Vito era affittuario del medesimo terreno e conseguentemente che L. era estraneo all'intera vicenda criminosa scoperta, atto che veniva depositato nel fascicolo del pubblico ministero da parte di R.. In Poggiar do in epoca successiva al 2.10.1995
d) "del reato di cui agli arti. 110, 369 e 61, n. 2, c.p., poiché in concorso tra loro (con De Vito G.), al fine di eseguire il reato di cui al capo C) (favoreggiamento personale) si accordavano affinchè il De Vito in sede di interrogatorio innanzi al PM in data 17.10.1995 si incolpasse integralmente dei reati reati commessi da L., scagionandolo completamente, nonché si attribuisse i reati di furto di alcune delle autovetture in oggetto. In Lecce il 17.10.1995.
A seguito della richiesta del COA di Lecce a formulare osservazioni circa il predetto capo di imputazione, e l’avv. R. si dichiarava estraneo alla vicenda così come, a suo dire, sarebbe emerso nel giudizio.
In data 7/10/2000 il procedimento penale veniva definito dal GM del Tribunale di Lecce, Sezione Distaccata di Maglie, con sentenza di condanna dell’Avv. R., il quale, convocato dal Consiglio dell’Ordine, in data 16/11/2000 dichiarava di essere stato condannato, ribadiva la sua innocenza e preannunciava l’appello avverso la sentenza sopra detta.
Il COA dava quindi luogo all’apertura del procedimento disciplinare con il capo di incolpazione già riferito e citava l’Avv. R. per l’udienza del 18 settembre 2002.
Tale udienza, nonché quella successiva, veniva rinviata su richiesta dell’Avv. R., attesa la pendenza del giudizio di Appello, che veniva deciso con sentenza del 9 giugno 2003 dalla Corte d’Appello di Lecce, che confermava la decisione di primo grado.
Il Consiglio riteneva quindi necessario acquisire gli atti relativi all’istruttoria svoltasi in primo grado, che venivano forniti dalla Corte d’Appello, in uno al contratto di locazione sottoscritto da L. L..
Fissata la nuova udienza per il 3 aprile 2004, la stessa veniva rinviata per consentire all’Avv. R. di munirsi di nuovo difensore ed a quella successiva veniva prodotto certificato di pendenza di giudizio in Cassazione, avverso la sentenza della Corte d’Appello, con richiesta di sospensione del giudizio.
Vi erano poi ancora due udienze, in cui il procedimento veniva rinviato, per giungersi infine all’udienza del 13 maggio 2006 in cui si dava luogo al procedimento disciplinare, venendo rigettata la richiesta prova testimoniale ed infine deciso il procedimento con la sospensione per mesi tre dall’esercizio della professione.
A sostegno della predetta decisione, il COA di Lecce osservava che l'attività istruttoria espletata nel giudizio penale aveva consentito una corretta e precisa ricostruzione dei fatti che provvedeva ad esporre sulla scorta di quanto contenuto nella sentenza emessa dal Giudice Monocratico.
E così, il COA di Lecce precisava che in data 2.10.1995 personale della Polizia di Stato in servizio presso il Commissariato di Galatina si recava presso il deposito di autodemolizioni di L. L., ubicato in Poggiardo, ove, all'esito di un'accurata ricognizione, procedevano al sequestro di due autovetture di provenienza delittuosa, di numerosissimi motori e pezzi di autovetture demolite, tutti di provenienza delittuosa, nonché di materiale vario, che rimandavano a persone estranee al L., risultate vittime di furti d'auto.
Parte dell'area oggetto di ricognizione era già stata interessata da altro provvedimento di sequestro, con apposizione di sigilli, in relazione ad altro procedimento penale a carico del medesimo L. L..
In data 4.10.1995, il G.I.P. Presso il Tribunale di Lecce emetteva ordine di custodia cautelare nei confronti del L. per i delitti di ricettazione e violazione di sigilli.
Il L., però, si dichiarava estraneo ai reati contestatigli, asserendo di aver concesso in affitto i terreni di sua proprietà a De Vito G. e Cogli Oronzo, a far tempo dai primi giorni del 1994, con regolare contratto scritto di cui riservava la produzione.
Detti contratti, datati 1.1.1994, furono, poi, effettivamente prodotti al PM dall'allora difensore del L., avv. R..
Tale versione dei fatti fu confermata dal Cogli ed inizialmente anche dal De Vito (interrogatorio innanzi al P.M. del 16.10.1995), il quale si autoaccusava di innumerevoli furti d'auto, escludendo ogni responsabilità del L..
Successivamente, però, il De Vito si presentava spontaneamente al P.M. In data 16.12.1996, ritrattando quanto precedentemente dichiarato.
In particolare, il predetto, dopo aver chiarito la reale natura dei propri rapporti con il L., escludeva di essere mai stato affittuario del terreno in questione e faceva presente che il contratto d'affitto richiamato dal L. in realtà gli era stato fatto firmare dall'avv. R. qualche giorno dopo l'arresto del L., con la promessa che se egli si fosse accollato tutte le responsabilità, il L. gli avrebbe ceduto gratuitamente le quote maggioritarie della società M.P.L. S.r.l., con sede in Poggiardo, e la somma di L. 20,000.000 (ventimilioni), che gli avrebbe consentito di ripianare i propri debiti. Quanto ai furti ed alle modalità descritte nell'interrogatorio 16.10.1995, il De Vito riferiva di ave "lavorato di fantasia" ovvero di aver rappresentato circostanze apprese dall'avv. R..
Il De Vito si era determinato alla ritrattazione a seguito del venir meno del L. alla promessa fattagli.
Il COA di Lecce osservava quindi che all’esito dell’ampia disamina dei fatti e degli elementi probatori esistenti, il Giudice Penale aveva ritenuto che la versione dei fatti fornita dal L. fosse del tutto infondata e per converso, fosse giusti ritenere che il contratto d’affitto datato 1/1/1994 tra il L. e il De Vito fosse falso.
Allo stesso modo, mutuando le deduzioni e le conclusioni del Giudice Penale, il COA osservava come anche la versione dei fatti fornita dall’Avv. R. fosse risultata infondata ed invece come, al contrario, fosse risultato provato che l’Avv. R. avesse preconfezionato falsamento il contratto di locazione del terreno di proprietà del L. ove erano stati rinvenuti i beni ricettati, avesse depositato poi lo stesso nel fascicolo del P.M. e avesse, ancora, poi indotto il De Vito affinché si incolpasse integralmente dei reati commessi dal L., scagionandolo completamente.
La condotta complessivamente valutata, nonché la considerazione dell’esistenza di altro procedimento disciplinare per il quale era stata irrogata la sanzione della censura, induceva il COA ad adottare la sanzione della sospensione per tre mesi.
Avverso tale decisione ha interposto ricorso l’Avv. R., sostenendo che, avendo avuto conoscenza il COA dell’apertura dell’azione penale, in data 30/4/1997 ed avendo deliberato l’apertura del procedimento disciplinare in data 29/5/2002 si era compiuta la prescrizione quinquennale.
Ha poi aggiunto che il Tribunale di Lecce, Sezione distaccata di Maglie lo aveva assolto dal delitto di cui all’art. 378 c.p., (favoreggiamento) con la formula perché il fatto non sussiste, e poiché il capo A) di incolpazione era stato mutuato dall’imputazione relativa al favoreggiamento, ne conseguiva che anche il COA avrebbe dovuto proscioglierlo perché “il fatto non sussiste”.
Al riguardo, ha sostenuto che nel rapporto tra giudizio disciplinare e giudizio penale definito con sentenza assolutoria non poteva essere considerato illecito disciplinare il medesimo fatto che fosse stato ritenuto non costituire illecito penale.
In relazione a tanto, ha chiesto annullarsi il provvedimento impugnato per intervenuta prescrizione; in via subordinata prosciogliere esso ricorrente relativamente al capo A) dell’incolpazione perché “il fatto non sussiste”, con irrogazione di una sanzione disciplinare meno grave di quella irrogata ovvero con riduzione dell’entità della stessa.
DIRITTO
Il ricorso è infondato e va pertanto rigettato.
Non è fondata l’eccezione di prescrizione formulata in ricorso, tenuto conto che nel caso di specie non è in alcun modo decorsa la prescrizione, ove si consideri che la comunicazione della Procura della Repubblica è pervenuta al CAO di Lecce il 30 aprile 1997 e che la sentenza del Giudice Monocratico presso il Tribunale di Lecce, Sezione di Maglie, è del 7 ottobre 2000 (successivamente inviata al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati in data 17 aprile 2002) ed ulteriormente che il COA di Lecce ha deliberato l’apertura del procedimento disciplinare a carico dell’Avv. R. in data 29 maggio 2002, citandolo a comparire per la seduta del 18/09/2002 con atto notificato il 09/07/2002.
Orbene, nel caso di specie, trattandosi di procedimento disciplinare aperto ai sensi dell’art. 44 Legge Professionale (R.D.L. 1578/1933), la prescrizione relativa al procedimento disciplinare non decorre dal fatto, giacché la stessa decorre invece, e per l’intero, dall’intervenuta definitività della sentenza penale.
Va poi osservato come nel caso di specie, sia pacifico che avverso la sentenza del G.M. del Tribunale di Lecce, Sezione Distaccata di Maglie, sia stato interposto appello e il relativo giudizio sia stato definito con sentenza n. 667 del 09/06/2003, con cui la Corte d’Appello di Lecce rigettava il predetto appello.
Avverso la sentenza della Corte di Appello, l’Avv. R. ha promosso ricorso in Cassazione e come si legge nella decisione del COA di Lecce, all’udienza disciplinare del 07/07/2004 il difensore dell’incolpato produceva certificazione attestante la pendenza del ricorso, richiedendo la sospensione del procedimento disciplinare in attesa della definizione di quello penale.
Il giudizio di cassazione, come è indicato anche nel ricorso dell’Avv. R. a questo Consiglio, è stato deciso dalla Cassazione VI Sezione Penale con sentenza pronunciata all’udienza del 04/11/2005.
Pertanto, poiché soltanto dalla sentenza della Cassazione ha iniziato a decorrere la prescrizione, l’eccezione è priva di pregio, tenuto conto che, proseguito il procedimento disciplinare, lo stesso si è concluso con la impugnata decisione in data 13 maggio 2006.
Al riguardo, è consolidata giurisprudenza di questo Consiglio che: “Relativamente agli effetti della prescrizione dell’azione disciplinare, occorre distinguere il caso in cui il procedimento disciplinare tragga origine da fatti punibili solo in tale sede, dal caso in cui il procedimento disciplinare che ai sensi dell’art. 44 è obbligatorio, abbia luogo per fatti costituenti anche reato e per i quali sia stata iniziata l’azione penale. Mentre nella prima ipotesi il termine quinquennale di prescrizione decorre dal giorno della consumazione del fatto, nella seconda ipotesi il termine decorre dalla definizione del processo penale e cioè dal giorno in cui la sentenza penale diviene irrevocabile, restando irrilevante il periodo decorso dalla commissione del fatto all’instaurazione del procedimento penale anche se il C.D.O. venuto a conoscenza del fatto, abbia avviato il procedimento disciplinare per poi sospenderlo per l’avvenuto inizio dell’azione penale. Tale disciplina, peraltro, non è mutata per effetto del nuovo testo dell’art. 653 c.p.p. Pertanto, non può dichiararsi prescritta l’azione disciplinare obbligatoria ex art. 44 L.P.F., instaurata nel temine di cinque anni dalla decisione penale divenuta definitiva a nulla rilevando l’eventualità che il fatto per cui si procede sia stato commesso precedentemente o che l’azione disciplinare sia stata iniziata e poi sospesa in attesa della decisione penale definitiva”. Consiglio Nazionale Forense 08/10/2007 n. 137.
Principi ribaditi da questo Consiglio, anche con sentenza del 09/04/2009 n. 6, secondo cui in riferimento all’azione disciplinare ex art. 44 L.P.: “…..la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta, restando irrilevante il periodo decorso dalla commissione del fatto all’instaurazione del procedimento penale, e ciò anche nel caso in cui il Consiglio dell’Ordine, avuto notizia del fatto, abbia dapprima deliberato l’apertura e disposto poi la sospensione del procedimento disciplinare”.
Conformi Consiglio Nazionale Forense 10/12/2007 n. 191 e 04/07/2007 n. 73, nonché Cons. Naz. Forense 16/03/2011 n. 36, secondo cui: “Ai sensi dell’art. 2935 c.c., la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere; quindi nel caso in cui il procedimento disciplinare venga aperto per fatti costituenti anche reato e per i quali sia stata iniziata l’azione penale, il termine quinquennale di prescrizione per l’azione disciplinare comincia a decorrere dalla definizione del processo penale, cioè dalla data di irrevocabilità della sentenza penale di condanna”.
Principi del tutto conformi anche a quanto ancora da ultimo affermato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con sentenza 09/05/2011 n. 10071, secondo cui: “Agli effetti della prescrizione dell’azione disciplinare di cui all’art. 51 R.D.L. 27/11/1933 n. 1578, recante l’ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore, occorre distinguere il caso previsto dall’art. 38, in cui il procedimento disciplinare tragga origine da fatti punibili solo in tale sede, in quanto violino esclusivamente i doveri di probità, correttezza e drittura professionale, dal caso previsto dall’art. 44, in cui il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti anche reato e per i quali sia stata iniziata l’azione penale”.
Precisando che: “Nel primo caso, in cui l’azione disciplinare è collegata ad ipotesi generiche ed a fatti anche atipici, il termine prescrizionale comincia a decorrere dalla commissione del fatto…”, laddove nel secondo caso: “…la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta”.
Con il secondo motivo il ricorrente sostiene che poiché il Tribunale di Lecce, Sezione distaccata di Maglie lo aveva assolto dal delitto di cui all’art. 378 c.p., (favoreggiamento) con la formula perché il fatto non sussiste, e poiché il capo A) di incolpazione era stato mutuato dall’imputazione relativa al favoreggiamento, ne conseguiva che anche il COA avrebbe dovuto proscioglierlo perché il fatto non sussiste.
Al riguardo, ha quindi sostenuto che nel rapporto tra giudizio disciplinare e giudizio penale (definito con sentenza assolutoria) l’art. 1 della legge 27/3/2001 n. 97, nel modificare l’art. 653 c.p.p., aveva inteso ridurre l’autonomia dell’organo disciplinare, non potendosi considerare illecito disciplinare il medesimo fatto che il Giudice Penale abbia già irrevocabilmente ritenuto non costituire illecito penale.
Su tali premesse, sosteneva di doversi adottare sanzione disciplinare meno grave di quella irrogata, ovvero ridursi l’entità della stessa.
Orbene, è necessario chiarire che la sentenza del G.M. del Tribunale di Lecce, Sezione distaccata di Maglie, che ha assolto l’Avv. R. dal delitto di favoreggiamento “perché il fatto non sussiste”, è stata adottata dal Tribunale stesso non per escludere il fatto materiale - che invece il Giudice Penale ritiene che il R. abbia senz’altro commesso - ma solo perché, avendolo ritenuto colpevole anche del reato di autocalunnia di cui all’art. 369 c.p., in base al criterio di specialità tale delitto “prevale sul generico e sussidiario delitto di favoreggiamento personale” (così a pag. 14 della sentenza).
Correttamente il Tribunale di Lecce (pagina 12 della sentenza) aveva premesso che l’Avv. R. era chiamato a rispondere di due reati: “favoreggiamento personale” (artt. 110 e 378 c.p.) per avere in concorso col De Vito, quale avvocato del L., “aiutato quest’ultimo ad eludere le investigazioni, preconfezionando falsamente il contratto di locazione del terreno…… affinché risultasse che il De Vito era affittuario del medesimo terreno” – e “autocalunnia in concorso” (artt. 110, 360 e 61 n. 2 c.p.) per aver indotto il De Vito ad incolparsi integralmente dei reati di ricettazione commessi dal L..
Al riguardo, il Tribunale di Lecce formulava ampia disamina dei fatti – (che come detto venivano poi fatti proprio e riportati pressoché integralmente nella propria decisione dal COA di Lecce) – e dopo aver osservato al riguardo che “Sulla sostanziale falsità del contratto d’affitto in data 01/01/1994 fra il L. e il De Vito si è detto in precedenza e qui non resta che richiamare le considerazioni sopra esposte…”, esponeva che lo stesso De Vito aveva affermato che era stato l’Avv. R. a confezionare il contratto per alleggerire la posizione processuale del suo assistito, gravato da numerosi precedenti penali, a differenza dello stesso De Vito, sostanzialmente incensurato.
Ed ancora osservava che l’Avv. R., nel negare tale circostanza, aveva invece sostenuto che circa 20-30 giorni dopo l’arresto del L., si era casualmente incontrato con il De Vito, il quale gli aveva rappresentato di essere lui l’affittuario del terreno, chiedendogli come comportarsi e che pertanto l’Avv. R. gli aveva manifestato l’incompatibilità ad essere difensore di entrambi e quale difensore di L. di produrre il contratto al PM.
In merito a tanto, il Giudice Penale riteneva che: “…..tale versione dei fatti sia assolutamente inattendibile, perché smentita da altre risultanze processuali e comunque illogiche ed incongrue avuto riguardo alla “normalità” dei comportamenti umani. Ed invero:
a) Il R. dichiara di aver appreso solo dal De Vito, nel colloquio sopra menzionato, dell'esistenza del contratto di locazione. Ciò, tuttavia, non risponde certamente al vero, ove si consideri che il L., già al momento della perquisizione e del successivo sequestro - cui era presente l'avv. R. (vedi relativi verbali) - si dichiarò estraneo alla vicenda per aver dato in affitto l'immobile che si andava a sequestrare; -"
b) Non poteva il De Vito aver avvertito l'avv. R. dell'esistenza del contratto 20-30 giorni dopo l'arresto del L. dal momento che già il 6.10.1995, appena dodici giorni dopo l'arresto del coimputato, egli si era presentato al P.M., assistito da altro difensore, per dichiararsi affittuario ed autoaccusarsi dei reati oggi contestati al L.;
c) È comunque illogico ed incongruo che il L., ristretto in custodia cautelare, a distanza di un mese dal suo arresto (stando alla versione del R.) non avesse ancora avvertito il suo difensore dell'esistenza di un contratto che, se autentico, avrebbe potuto scagionarlo o, quanto meno, alleggerirne la posizione processuale consentendogli, con ogni probabilità, di uscire dal carcere e che, addirittura, sia stato il R. - reso edotto proprio da chi non aveva alcun interesse a che quel contratto uscisse fuori - a parlarne col L., il quale ne avrebbe confermato l’esistenza, così consentendo al difensore di produrlo al P.M. (v. f. 6, verbale 27/5/00). La verità anche in questo caso è che l’Avv. R. probabilmente motivato dall’intento di allontanare il più possibile da sé i sospetti circa il preconfezionamento del contratto, nel dichiarare di non averne saputo nulla fino a che non ne fu informato dal De Vito, ha raccontato una serie di bugie, che finiscono con l’ulteriormente confermare l’ipotesi accusatoria”.
Alla stregua di quanto esposto, appare evidente come non sia invocabile il proscioglimento dell’Avv. R. in sede penale (perché il fatto non sussiste), relativamente al reato di favoreggiamento, giacché lo stesso, accertato come avvenuto nella sua entità materiale, risulta assorbito – ma solo sotto il profilo penalistico – dalla specialità del reato di autocalunnia.
Ne consegue che ai fini del procedimento disciplinare correttamente il COA di Lecce abbia valutato anche questo aspetto del comportamento posto in essere dall’Avv. R. e comunque va evidenziato come il COA abbia effettuato una valutazione complessiva, ai fini disciplinari, del comportamento tenuto dall’incolpato.
Ed infatti, ha dapprima osservato il COA di Lecce che il Giudice Penale aveva escluso il delitto di favoreggiamento a carico dell'Avv. R., "in quanto la sua condotta, essendosi concretizzata sostanzialmente nel delitto di cui all’art. 369 c.p., in base al criterio di specialità, prevale sul generico e sussidiario delitto di favoreggiamento personale" ed ha poi rilevato che: “Indipendentemente da ciò, l’Avv. R. ha agito in evidente e stridente contrasto con i canoni deontologici. L'aver concorso nella commissione del reato di autocalunnia da parte del De Vito, che si autoaccusava falsamente al fine di favorire il L., nonché aver partecipato alla formazione ed all'utilizzo di un documento (contratto di locazione) clamorosamente falso, rappresenta inequivocabilmente una volontaria e palese violazione del codice deontologico. E' dovere dell'avvocato, infatti, ispirare la propria condotta ai doveri di probità, dignità e decoro (art. 5 del Codice Deontologico Forense, in prosieguo C.D.F.). Tale dovere è stato pacificamente violato dall'incolpato con la condotta posta in essere, per la quale il prevenuto ha riportato condanna penale irrevocabile.
Peraltro emerge ictu oculi che il comportamento dell’Avv. R. concretizzi una violazione anche dei seguenti doveri deontologici:
Dovere di lealtà e correttezza (art. 6 C.D.F.):
Dovere di fedeltà (art. 7 C.D.F.) giova, a tal proposito ricordare che il De Vito fosse, all’epoca dei fatti per cui è procedimento cliente dell’Avv. R.;
Dovere di verità (art. 14 C.D.F.) avendo nel procedimento penale a carico del L. introdotto intenzionalmente prove che conosceva essere false”.
Valutazioni assolutamente esatte e condivise da questo Consiglio anche in riferimento alla logica e congrua motivazione delle stesse.
De tutto correttamente - ed in linea con tutto quanto sin qui esposto - il COA ha poi osservato che quando siano mossi più addebiti la sanzione applicata deve essere unica, irrogando all’Avv. R. quella della sospensione per tre mesi dall’esercizio della professione.
Anche sotto quest’ultimo aspetto, la decisione del COA appare assolutamente esatta e condivisibile, ove si consideri che - come da consolidata giurisprudenza di questo Consiglio - “Il procedimento disciplinare comporti un giudizio complessivo sulla condotta dell’incolpato, cui va irrogata una pena unica, la maggiore assorbendo la minore, ancorché siano vari gli addebiti; tale sanzione non è la somma di altrettante pene singole sugli addebiti contestati, ma la valutazione della condotta complessiva dell’incolpato” (Cons. Nazionale Forense 25/03/2002 n. 38).
Le osservazioni sin qui formulate, consentono di ritenere del tutto immune da censure la decisione impugnata anche sotto il profilo della congruità, dovendosi ritenere assolutamente corretta la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per tre mesi irrogata dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce all’Avv. R., con conseguente rigetto del ricorso e conferma della predetta decisione.
P.Q.M.
Il Consiglio Nazionale forense, riunito in Camera di Consiglio;
visti gli artt. 50 e 54 del R.D.L. 27.11.1933 n. 1578 e 59 e segg. del R.D. 22.01.1934, n. 37;
respinge il ricorso.
Così deciso in Roma lì 26 maggio 2011.
IL SEGRETARIO IL PRESIDENTE f.f.
f.to Avv. Andrea Mascherin f.to Avv. Carlo Vermiglio
Depositata presso la Segreteria del Consiglio nazionale forense,
oggi 15 ottobre 2012