Provvedimento disciplinare - produzione documenti riservati al fine di difendersi
Lavoro - Provvedimento disciplinare - produzione documenti riservati al fine di difendersi
Lavoro - Provvedimento disciplinare - produzione documenti riservati al fine di difendersi (Consiglio di Stato – Sezione quinta – decisione 11 luglio-31 dicembre 2003, n. 9276)
Consiglio di Stato – Sezione quinta – decisione 11 luglio-31 dicembre 2003, n. 9276
Fatto
Con la sentenza appellata il Tar dell’Emilia Romagna ha respinto i ricorsi nr. 2078/90, 2079/90 e 766/1991 con cui l’odierna appellante aveva gravato, rispettivamente, un provvedimento disciplinare di destituzione, un provvedimento disciplinare di sospensione dalla qualifica ed il provvedimento di estinzione del rapporto di impiego, tutti adottati nei suoi confronti.
Con la stessa sentenza il Tar dell’Emilia Romagna ha dichiarato improcedibile il ricorso nr. 1812/1990 proposto dall’odierna ricorrente in appello avverso gli stessi atti gravati successivamente con i richiamati ricorsi nr. 2078/90, 2079/90.
La sentenza è stata appellata dalla sig.ra Rivaroli Patrizia che contrasta le argomentazioni del Tar dell’Emilia Romagna.
L’Unità Sanitaria Locale di Pavullo nel Frignano n. 18 (oggi Ausl Modena) si è costituita per resistere all’appello.
Alla pubblica udienza del 11 luglio 2003, il ricorso veniva trattenuto per la decisione.
Diritto
L’appello è fondato, e conseguentemente vanno annullati con la pronuncia gravata anche gli atti impugnati.
1. Con il primo motivo di ricorso l’appellante denuncia la mancata disamina, da parte del giudice di prime cure circa i ricorsi di primo grado nr. 2078/90 e 2079/90 Rg, dei rapporti fra i diritti discendenti dalle previsioni costituzionali ex articoli 24 e 32, rispettivamente diritto alla difesa e alla salute, e obblighi di fedeltà e di riservatezza gravanti sul pubblico dipendente.
Il motivo di ricorso pone la delicata questione concernente le relazioni fra situazioni soggettive, attive e passive, che, in relazione ad un concreto episodio di vita, entrano in conflitto fra loro, sì da imporre il quesito concernente quale dei “beni” protetti abbia carattere recessivo e possa (o debba) essere sacrificato in favore del bene ritenuto prevalente.
2. La vicenda per cui è causa vede fronteggiarsi da un lato il diritto di difesa (nella specie da una accusa criminale), dall’altro l’obbligo di fedeltà del lavoratore nei confronti della parte datoriale, che si specifica ulteriormente nell’osservanza della riservatezza sui dati appresi in occasione dello svolgimento dei propri compiti. Pare opportuno, pertanto, definire in via preliminare i contenuti delle situazioni soggettive appena richiamate, sulla base dell’opera di “riempimento” di fonte giurisprudenziale e delle osservazioni della dottrina.
La Costituzione repubblicana, accanto alle garanzie relative alla giurisdizione di diritto oggettivo concernenti la giurisdizione (quali il principio della riserva di giurisdizione e del giudice naturale) proclama veri e propri diritti soggettivi; fra questi, in ordine di importanza, il diritto-potere di agire in giudizio, proclamato dall’articolo 24 Costituzione, nonché il conseguente diritto di difesa definito “inviolabile” dal secondo comma del medesimo articolo. Le due componenti, azione e difesa, danno vita alla situazione complessa denominata “diritto alla tutela giurisdizionale”, quasi ad evidenziare gli stretti legami esistenti fra le due componenti appena richiamate. Dalla giurisprudenza costituzionale si inferisce che il diritto di difesa fa perno sul cosiddetto contraddittorio fra le parti, inteso quale concreta ed effettiva possibilità accordata alle parti di tutelare le proprie ragioni, formulando domande, eccezioni, opponendosi alle domande ed eccezioni delle altre parti, prima che il giudice si pronunci (si vedano, per tutte, le sentenze 46/1957 e 83/1969 della Corte costituzionale). A completare il quadro, così brevemente delineato, si affianca la previsione contenuta nell’articolo 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata dall’Italia con legge 848/55) che contiene una norma la quale afferma, in via generale, il principio di garanzia dei diritti di difesa dell’imputato, che deve essere posto in condizioni di discolparsi dalle accuse che gli vengono mosse.
Sull’altro versante, tra gli obblighi che l’impiegato è tenuto ad adempiere, l’obbligo di fedeltà, che ha rilievo costituzionale e carattere pubblicistico, rappresenta il substrato su cui si sviluppa l’atteggiamento spirituale che lo stesso impiegato deve avere e conservare sempre nei confronti dell’amministrazione, dell’attività che è chiamato a svolgere e della collettività al cui servizio egli si pone, osservando “lealmente la Costituzione e le leggi dello Stato”. Ne costituiscono corollari il dovere di adempiere alle pubbliche funzioni “con disciplina ed onere”, l’obbligo di tenere una “condotta conforme alla dignità delle proprie funzioni”, il giuramento prestato all’atto del passaggio in ruolo, l’obbligo di osservare il segreto d’ufficio. Ma, l’impiegato ha quale ulteriore obbligo fondamentale quello di dedicare le sue energie lavorative alle dipendenze dell’ente pubblico secondo canoni di particolare correttezza e diligenza, improntati alla collaborazione con i superiori e i colleghi, nonchè alla guida e all’esempio dei dipendenti “in modo da assicurare il più efficace rendimento del servizio” e all’obiettivo di “stabilire completa fiducia e sincera collaborazione fra i cittadini e l’amministrazione” (articoli 54 e 98 Costituzione e articolo 11 e ss. t.u. delle disposizioni concernenti lo Statuto degli impiegati civili dello Stato, approvato con Dpr 3/1957).
3. L’attualità della questione è dimostrata dalla frequenza dei casi sottoposti alla giurisdizione ordinaria e amministrativa. Pare opportuno, a tal proposito, richiamare una recente sentenza della Corte di Cassazione chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di un provvedimento disciplinare adottato da un Istituto di credito nei confronti di un proprio dirigente che nell’ambito di un giudizio intentato avverso il datore di lavoro aveva prodotto documenti aziendali riservati (corrispondenza e schede attinenti alla clientela) di cui aveva la materiale disponibilità per ragioni d’ufficio. Al riguardo ha ritenuto la Suprema corte che l’articolo 2105 Cc non deve essere considerato come una norma rigida; in particolare, con la sentenza della Suprema corte, 4952/98, era stata sancita la riconduzione dell’articolo 2105 Cc nel novero delle c.d. norme elastiche norme strutturate come clausole generali, «il cui contenuto richiede giudizi di valore in sede applicativa, in quanto la gran parte delle espressioni giuridiche contenute in norme di legge sono dotate di una certa genericità la quale necessita, inevitabilmente, di un’opera di specificazione da parte del giudice che è chiamato a darvi applicazione». In precedenza, peraltro, la Corte di cassazione con le pronunce n. 6328/96 e n. 1144/00, aveva ritenuto legittimo il comportamento del lavoratore subordinato che prende nota, eventualmente fotocopiandola, di documentazione aziendale nella propria materiale disponibilità al fine di produrla in un giudizio a tutela dei propri diritti. Partendo da tali presupposti, la Corte di cassazione giunge a suggerire una chiave di lettura del contenuto dell’obbligo di fedeltà non riferito alla sola posizione rivestita dalla parte datoriale, ma strutturata in maniera tale da permettere una valutazione concreta anche della posizione del lavoratore, dei suoi comportamenti, delle situazioni che, in concreto, ne hanno caratterizzato l’agire.
4. Dette considerazioni sono pienamente condivise dal Collegio, il quale evidenzia che da tempo la giurisprudenza di questo Consesso è stata chiamata a risolvere i problemi discendenti dalla ricerca di un delicato equilibrio nei rapporti fra diritto di difesa e di azione e situazioni soggettive confliggenti. È necessario ricordare quanto statuito da questo Consesso secondo cui in virtù dell’articolo 16 Dl 135/99 - che integra la previsione di cui all’articolo 22, comma 3, legge 675/96 - il diritto di accesso, ancorché nella forma meno incisiva della sola visione, senza estrazione di copia, prevale rispetto a quello sulla riservatezza anche intesa nel suo nucleo più intimo costituito dai dati sensibili: ovviamente a condizione che la conoscenza degli stessi sia necessaria per provvedere alla cura o difesa di interessi giuridici (Consiglio di Stato, sezione sesta, 1882/01). In maniera ancora più nitida è stato affermato che nel conflitto tra principio di riservatezza o pregiudizio eventuale del terzo, ed esigenze di difesa di un proprio diritto, deve consentirsi l’esercizio del diritto d’accesso alla documentazione amministrativa, a garanzia di dette esigenze di difesa, sia pure nella forma più attenuata della visione degli atti. (Consiglio di Stato, sezione sesta, 65/1999).
Orbene, nel caso che ci occupa il Collegio ritiene che l’osservanza dell’obbligo di fedeltà dovuto dalla sig.ra Rivaroli alla amministrazione-datore di lavoro, non poteva comportare la compressione del suo diritto di difesa (di fonte costituzionale, come detto sopra) considerando, inoltre, che nella vicenda in esame non si trattava (come nel riportato caso al vaglio della Suprema corte di Cassazione) di mera azione risarcitola intentata nei confronti del datore di lavoro, ma di esercizio del diritto di difesa in relazione ad un fatto costituente reato. Se è pur vero, come è stato correttamente affermato, che l’obbligo di fedeltà dell’impiegato non può certo qualificarsi come sola affermazione di un principio etico, posto che alla sua base c’è, in positivo, il dovere dell’impiegato di assolvere ai compiti del proprio ufficio nell’interesse dell’amministrazione, e, in negativo, quello di astenersi da qualsiasi azione o comportamento che comunque possa essere pregiudizievole per l’amministrazione stessa, non può disconoscersi che il concreto contenuto di tale obbligo (id est, i contegni che la parte datoriale può esigere) dipende dall’insieme delle circostanze modali, soggettive ed oggettive del caso concreto. Nel caso che ci occupa, pertanto, non può essere ravvisata una violazione dell’obbligo di fedeltà (e del connesso dovere di riservatezza) da parte della dipendente che utilizzò il materiale sottratto alla parte datoriale per produrlo in giudizio.
5. Va inoltre accolto l’altro motivo di ricorso proposto dall’appellante che invoca il disposto dell’articolo 53 del Dpr 221/50 - Approvazione del regolamento per la esecuzione del decreto legislativo 233/46, sulla ricostituzione degli Ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina dell’esercizio delle professioni stesse - Capo V – il quale stabilisce che «I ricorsi alla Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie sono proposti dall’interessato o dal prefetto o dal procuratore della Repubblica, nel termine di trenta giorni dalla notificazione o dalla comunicazione del provvedimento. Il ricorso dell’interessato ha effetto sospensivo quando sia proposto avverso i provvedimenti di cancellazione dall’Albo o avverso i provvedimenti disciplinari, ad eccezione di quelli previsti dai precedenti articoli 42 e 43» per dedurre l’illegittimità degli atti impugnati. Invero risulta che il provvedimento di estinzione del rapporto di pubblico impiego fu adottato dall’amministrazione sanitaria in data 12 febbraio 1991 e, dunque, in un tempo in cui la cancellazione dall’albo (presupposto del provvedimento estintivo del rapporto) non era ancora definitiva, posto che il ricorso interposto dalla sig.ra Rivaroli in data 15 marzo 1991 esplicava effetto sospensivo dell’efficacia dell’atto gravato.
Per le ragioni esposte, assorbito quant’altro, l’appello va accolto. Sussistono giuste ragioni per compensare le spese di giudizio.
PQM
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione quinta) accoglie l’appello e per l’effetto annulla la sentenza gravata nonché, in accoglimento del ricorso di I grado, gli atti impugnati in tale grado. Compensa le spese di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.