Domanda di concordato preventivo presentata dall’organo amministrativo, senza alcun conferimento di potere dall’assemblea
Domanda di concordato preventivo presentata da una s.r.l. e ritenuta inammissibile dal Tribunale, che ne dichiarava il fallimento con sentenza poi confermata dalla Corte d’Appello adita da alcuni soci ed ex amministratori della società fallita – Domanda presentata dall’organo amministrativo, senza alcun conferimento di potere dall’assemblea – Carenza di interesse a rimuovere gli effetti della domanda di concordato, che non avrebbe, in ogni caso, rimosso gli effetti della dichiarazione di fallimento – Inammissibilità del concordato liquidatorio - Corte di Cassazione, sez. I, sentenza n. 10888 dell’8 giugno 2020, a cura di Riccardo Redivo, già presidente di sezione della Corte d’Appello di Roma.
Fatto. Il Tribunale, ritenuta inammissibile la domanda di concordato preventivo presentata da alcuni soci ed ex amministratori di una s.r.l., senza l’autorizzazione dell’assemblea, dichiarava il fallimento della società con una sentenza, impugnata dagli attori e confermata dalla Corte d’Appello.
Avverso tale ultimo provvedimento i ricorrenti soccombenti hanno proposto ricorso per cassazione, rilevando che la Corte territoriale aveva erroneamente omesso di pronunciarsi in merito: alla validità del contratto d’affitto d’azienda dissimulato, che costituiva un elemento determinante per pervenire ad una corretta esclusione della dichiarazione di fallimento; alla valutazione della capacità patrimoniale della società ed alla verifica della natura del’insolvenza (nella specie di carattere meramente transitorio), essendo l’impresa in grado di onorare i propri debiti (cedendo parte dei beni-merci e grazie ai propri flussi di cassa) ed alla valutazione dell’esistenza di un trust, istituito a tutela dei creditori sociali e dimostrativo della temporaneità del dissesto.
Decisione. La Suprema Corte, ha dichiarato inammissibile il ricorso, osservando che correttamente la Corte territoriale aveva rilevato (primo motivo) che i reclamanti non solo non avevano impugnato la decisione del Tribunale sotto il profilo dell’inammissibilità del concordato, ma avevano aderito addirittura alla tesi del tribunale per cui la continuità aziendale costituiva la sola tipologia che potesse giustificare una parziale cessione del patrimonio aziendale, concludendo nel senso che “l’omesso esame di un fatto decisivo, senza curarsi del contenuto della sentenza impugnata,, sollecitando una diversa valutazione dei fatti di causa, già compiuta dal giudice del merito, è insindacabile in sede di legittimità”; che è parimenti inammissibile il secondo motivo “per cui, avendo la Corte d’Appello giustamente rilevato la mancata dimostrazione dell’effettiva sussistenza di valori di attivo utili e sufficienti a ripianare l’esposizione debitoria, nonché lo stato di impotenza strutturale della società a soddisfare i debiti con mezzi normali (emersa dalla prospettazione in sede concordataria della consistente posizione debitoria, cui si sarebbe potuto far fronte solo con la dismissione di parte del patrimonio del complesso immobiliare), affermando, quindi, che la censura mira ad un’inammissibile rivalutazione dei fatti, non consentita in sede di legittimità, implicando una surrettizia trasformazione del giudizio in un nuovo, terzo giudizio di merito”.
Infine, anche il terzo motivo (relativo al mancato esame dell’istituzione di un trust finalizzato alla tutela dei creditori sociali) “così come formulato, si appalesa inammissibile per difetto di autosufficienza, non soddisfacendo l’obbligo di cui all’art. 366, I comma c.p.c., di indicare specificamente gli atti e i documenti su cui lo stesso è fondato”.