La responsabilità del medico e della struttura sanitaria. Gli orientamenti delle Sezioni Civili - Anno 2023
Rassegna della giurisprudenza di legittimità - Gli orientamenti delle Sezioni Civili - Anno 2023 - Le responsabilità professionali (di Vittoria Amirante) - dal sito web della Corte di Cassazione
Nel corso dell’anno 2023 il sindacato nomofilattico della Corte di cassazione in tema di responsabilità professionali si è appuntato, oltre che sui temi “classici” della colpa e del nesso causale, in particolar modo sul contenuto dell’obbligazione del professionista e sull’ampiezza degli obblighi informativi posti a suo carico.
In via generale Sez. 2, n. 09063/2023, Fortunato, Rv. 667517-01, ha ribadito che il professionista, nell’espletamento della prestazione promessa, è obbligato, ai sensi dell’art. 1176 c.c., ad usare la diligenza del buon padre di famiglia; la violazione di tale dovere comporta inadempimento contrattuale, di cui lo stesso risponde anche per colpa lieve, perdendo il diritto al compenso. Sez. 3, n. 20707/2023, Ambrosi, Rv. 668357-01, ha chiarito, invece, da parte sua, che il nesso causale tra inadempimento (o inesatto adempimento) e danno dev’essere provato dall’attore, in applicazione della regola generale di cui all’art. 2697 c.c., trattandosi di elemento della fattispecie egualmente “distante” da entrambe le parti, rispetto al quale, dunque, non è ipotizzabile la prova liberatoria in capo al convenuto, secondo il principio di cd. vicinanza della prova
(nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, pur avendo accertato l’esistenza di errori nella progettazione delle opere di difesa dalle esondazioni del lago di Como, aveva escluso la responsabilità dei professionisti, per non avere il Comune fornito la prova del nesso causale tra l’inadempimento e i danni patrimoniali lamentati).
In relazione alla peculiare fattispecie del contratto d’opera professionale stipulato con la P.A. (ancorché afferente ad un’attività svolta iure privatorum), Sez. U, n. 13849/2023, Pagetta, Rv. 667736-01, hanno chiarito che la nullità del contratto privo della forma scritta prevista ad substantiam rileva unicamente nel rapporto tra l’amministrazione e il professionista, ma giammai può costituire causa di esclusione della responsabilità di quest’ultimo nei confronti dei terzi.
La S.C. nel 2023 è tornata sul tema della stipula del contratto di spedalità quale fonte di responsabilità della struttura sanitaria, con conseguente riconoscimento della legittimazione passiva della struttura che ha preso in carico il paziente.
Sul punto, Sez. 3, n. 16272/2023, Rubino, Rv. 667819-01, ha chiarito che la presa in carico di un paziente da parte di una struttura sanitaria inserita nella rete del SSN, per la sottoposizione ad un trattamento medico chirurgico, determina l’instaurazione di un rapporto contrattuale atipico a prestazioni corrispettive (il c.d. contratto di spedalità) idoneo a fondare, in caso di esito infausto dell’intervento, la legittimazione passiva dell’ente in relazione all’azione di responsabilità proposta dal paziente o dai suoi eredi, essendo a tal fine irrilevante che, nella organizzazione interna del Servizio Sanitario regionale, la struttura stessa e il suo personale siano stati posti sotto la direzione amministrativa e medica di un’altra istituzione pubblica, la cui responsabilità può eventualmente aggiungersi a quella della struttura sanitaria adita, senza però eliderne la titolarità del rapporto dal lato passivo.
Per quanto attiene al profilo soggettivo della colpa in rapporto alla diligenza richiesta dal professionista, Sez. 3, n. 17410/2023, Porreca, Rv. 667871-01, ha sottolineato come gravi sul sanitario che esegua un esame diagnostico la responsabilità di leggere correttamente le relative immagini, senza che la carenza della necessaria specializzazione possa spiegare rilevanza nel senso di escludere la colpa, dovendo egli, in caso di dubbi, indirizzare il paziente presso strutture in grado di risolvere tempestivamente la criticità diagnostica, nella consapevolezza dei limiti derivanti dalla propria competenza settoriale e della mancanza di ulteriori strumenti di indagine.
Nello stesso senso, anche Sez. 3, n. 25772/2023, Rossetti, Rv. 668882-01, ha precisato che, in relazione al danno iatrogeno subito da un paziente ricoverato in ospedale, la responsabilità del medico non può essere esclusa per il sol fatto che egli fosse addetto a un reparto diverso e che il paziente non gli fosse stato affidato, dovendo la sua diligenza essere valutata non già ex ante in astratto, in base al suo mansionario, bensì ex post in relazione alla condotta concretamente tenuta, comparando le istruzioni terapeutiche da lui impartite con quelle suggerite dalle leges artis e concretamente esigibili, avuto riguardo alle specializzazioni possedute ed alle circostanze del caso concreto.
Il caso riguardava la morte di una paziente ricoverata in un altro reparto a seguito di un intervento chirurgico, in relazione alla quale era stata dedotta la corresponsabilità del medico anestesista di turno; responsabilità che - secondo la Corte di cassazione - era stata erroneamente esclusa dal giudice di merito, in virtù della sola circostanza che quegli non avesse il compito di supervisionarne la degenza, senza verificare se, una volta informato del peggioramento dei parametri ematici della stessa, avrebbe dovuto tenere una diversa condotta, alla stregua delle leges artis concretamente rilevanti in relazione al caso concreto.
La già richiamata Sez. 3, n. 34516/2023, Porreca, Rv. 669530-01, ha, inoltre, indagato la valenza del cd. soft law delle linee guida, precisando, da un lato, che la limitazione della responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o colpa grave, di cui all’art. 2236 c.c., non opera nelle ipotesi di imprudenza (non rilevando, al riguardo, l’astratta conformità della tecnica adottata alle linee guida); e, in secondo luogo (Rv. 669530-02), che le linee guida, non avendo rilevanza normativa o “parascriminante” (in quanto non tassative né vincolanti), pur rappresentando un parametro utile nell’accertamento dei profili di colpa medica, non valgono ad eliminare la discrezionalità del giudice di valutare se le circostanze del caso concreto esigano una condotta diversa da quella prescritta nelle medesime linee guida (nella fattispecie concreta giunta all’esame della Corte, a venire in rilievo era la condotta di alcuni medici, i quali, nell’eseguire un intervento chirurgico di particolare difficoltà, avevano omesso di adottare una tecnica chirurgica - già conosciuta dalla comunità scientifica di settore, sebbene ancora non implementata nelle linee guida - che avrebbe consentito di ridurre in altissima misura il rischio della complicanza, poi in effetti intervenuta).
Quanto, poi, agli oneri probatori in relazione al nesso causale Sez. 3, n. 05632/2023, Porreca, Rv. 666932-01, ha affermato che, in ipotesi di concorrenza nella produzione dell’evento lesivo tra la condotta del sanitario e un autonomo fatto naturale (quale una pregressa situazione patologica del danneggiato), spetta al creditore della prestazione professionale l’onere di provare il nesso causale tra intervento del sanitario e danno evento in termini di aggravamento della situazione patologica, mentre, una volta accertata la portata concausale dell’errore medico, compete al sanitario dimostrare la natura assorbente e non meramente concorrente della causa esterna.
Qualora resti comunque incerta la misura dell’apporto concausale del fattore naturale, la responsabilità di tutte le conseguenze individuate in base alla causalità giuridica va interamente imputata all’autore della condotta umana.
Qualora, poi, l’evento morte del paziente risulti riconducibile al concomitante apporto eziologico dell’errore medico e di una causa naturale (quale, per l’appunto, lo stato patologico non riferibile al primo), secondo Sez. 3, n. 26851/2023, Porreca, Rv. 668759-01, l’autore del fatto illecito risponde in toto dell’evento eziologicamente riconducibile alla sua condotta, in base ai criteri di equivalenza della causalità materiale, potendo l’eventuale efficienza concausale dei suddetti eventi naturali rilevare esclusivamente sul piano della causalità giuridica ex art. 1223 c.c., ai fini della liquidazione, in chiave complessivamente equitativa, dei pregiudizi conseguenti, ascrivendo all’autore della condotta un obbligo risarcitorio che non comprenda anche le conseguenze dannose riferibili alla pregressa situazione patologica del danneggiato.
In relazione agli oneri probatori gravanti, rispettivamente, sul professionista sanitario e sul paziente Sez. 3, 34427/2023, Porreca, Rv. 669738-01, ha precisato che, ove le carenze colpose della condotta del medico, tipicamente omissive e astrattamente idonee a causare il pregiudizio lamentato, abbiano reso impossibile l’accertamento del nesso eziologico, tale deficit, non potendo riflettersi a danno della vittima (pur, in generale, onerata della dimostrazione del rapporto causale), rileva non solo in punto di accertamento della colpa ma anche al fine di ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente.
In ossequio a tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di rigetto della domanda di risarcimento del danno da ritardo diagnostico e terapeutico di una neoplasia, ascritto al medico per la mancata effettuazione di un esame istologico, omissione che aveva reso impossibile accertare lo stadio della patologia e determinare se fosse possibile una terapia idonea ad evitare le conseguenze iatrogene riportate dalla paziente.
Numerose sono state le pronunce che, nel corso dell’anno in rassegna, hanno affrontato il delicato tema del diritto alla autodeterminazione del paziente in rapporto agli obblighi informativi gravanti sul professionista sanitario e/o sulla struttura. In particolare, Sez. 3, n. 16633/2023, Iannello, Rv. 668112-01, ha nuovamente ribadito che il consenso del paziente, oltre che informato ed esplicito, deve essere consapevole e completo, dovendo cioè riguardare tutti i rischi prevedibili, compresi quelli statisticamente meno probabili, con la sola esclusione di quelli assolutamente eccezionali o altamente improbabili; detto consenso, inoltre, deve coprire non solo l’intervento nel suo complesso, ma anche ogni singola fase di esso.
Con la stessa pronuncia (Rv. 668112-02) si sono anche esaminate le conseguenze in termini di risarcibilità del danno inferto sia alla salute (per inadempiente esecuzione della prestazione sanitaria) sia al diritto all’autodeterminazione (per violazione degli obblighi informativi) enucleando distinte ipotesi:
I) se ricorrono il consenso presunto (ossia può presumersi che, se correttamente informato, il paziente avrebbe comunque prestato il suo consenso), il danno iatrogeno (l’intervento ha determinato un peggioramento delle condizioni di salute preesistenti) e la condotta inadempiente o colposa del medico, è risarcibile il solo danno alla salute del paziente, nella sua duplice componente relazionale e morale, conseguente alla non corretta esecuzione, inadempiente o colposa, della prestazione sanitaria;II) se ricorrono il dissenso presunto (ossia può presumersi che, se correttamente informato, il paziente avrebbe rifiutato di sottoporsi all’atto terapeutico), il danno iatrogeno (l’intervento ha determinato un peggioramento delle condizioni di salute preesistenti) e la condotta inadempiente o colposa del medico nell’esecuzione della prestazione sanitaria, è risarcibile sia il danno (biologico e morale) da lesione del diritto alla salute, sia il danno da lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente, cioè le conseguenze dannose diverse da quelle correlate alla lesione della salute, che siano allegate e provate (anche per presunzioni);
III) se ricorrono sia il dissenso presunto sia il danno iatrogeno, ma non la condotta inadempiente o colposa del medico nell’esecuzione della prestazione sanitaria (vale a dire l’intervento è stato correttamente eseguito), è risarcibile la sola violazione del diritto all’autodeterminazione (sul piano puramente equitativo), mentre la lesione della salute - da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poiché, in presenza di adeguata informazione, l’intervento non sarebbe stato eseguito – dev’essere valutata in relazione alla eventuale situazione “differenziale” tra il maggiore danno biologico conseguente all’intervento ed il preesistente stato patologico invalidante del soggetto;
IV) se ricorre il consenso presunto (ossia può presumersi che, se correttamente informato, il paziente avrebbe comunque prestato il suo consenso) e non vi è alcun danno derivante dall’intervento, non è dovuto alcun risarcimento;V) se ricorrono il consenso presunto e il danno iatrogeno, ma non la condotta inadempiente o colposa del medico nell’esecuzione della prestazione sanitaria (cioè, l’intervento è stato correttamente eseguito), il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, all’autodeterminazione è risarcibile qualora il paziente alleghi e provi che dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, diverse dal danno da lesione del diritto alla salute, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente.
Sez. 3, n. 31026/2023, Iannello, Rv. 669458-01, poi, premesso che al fine di permettere al paziente l’espressione di un consenso informato al trattamento sanitario, il medico deve fornire informazioni dettagliate in merito alla natura, portata ed estensione dell’intervento, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, ha precisato che dette informazioni ben possono essere contenute in un modulo prestampato, la cui idoneità, ai fini della completezza ed effettività del consenso, va, invece, esclusa ove il relativo contenuto sia generico.
Per quanto, poi, attiene alle ipotesi (da considerarsi eccezionali) in cui il consenso informato del paziente non è necessario, Sez. 3, n. 00509/2023, Pellecchia, Rv. 666962-01, ha affermato che il trattamento sanitario obbligatorio - che integra un evento terapeutico straordinario, finalizzato alla tutela della salute mentale del paziente - può essere disposto anche senza il consenso informato dello stesso, ove, a fronte di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, non sia possibile adottare tempestive e idonee misure sanitarie extra-ospedaliere e il paziente rifiuti gli interventi terapeutici proposti.
In tema di rifiuto delle cure da parte del paziente, adeguatamente informato, Sez. 3, n. 34395/2023, Porreca, Rv. 669576-02, ha chiarito che il paziente ha il diritto di rifiutare il trattamento medico, ma il rifiuto ingiustificato - perché non correlato ad attività gravosa o tale da determinare notevoli rischi o rilevanti sacrifici - può integrare un concorso colposo del creditore, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c., ove emerga che il completamento del percorso clinico rifiutato avrebbe, più probabilmente che non, portato alla guarigione o ad apprezzabili miglioramenti, senza rischi significativi ovvero estranei a quelli del percorso terapeutico inizialmente compiutamente consentito (nella fattispecie concreta, la S.C. ha confermato la pronuncia impugnata nella parte in cui ha ritenuto non emergere la prova della possibile efficacia risolutiva di un ulteriore intervento di canalizzazione, rifiutato dal paziente).
In relazione al delicato tema del “danno da nascita indesiderata” si è già dato conto, nel paragrafo 3 del capitolo XII, di Sez. 3, n. 18327/2023, Rubino, Rv. 668488-01 e -02, in relazione vuoi alla necessità di adottare, in merito alla prova presuntiva del nesso causale, il metodo “atomistico-analitico” (basato sul rigoroso esame di ciascun singolo fatto indiziante e sulla successiva valutazione congiunta, complessiva e globale, degli stessi), vuoi alla natura ex ante della valutazione prognostica che il giudice è chiamato a compiere ai fini dell’accertamento della sussistenza del grave pericolo per la salute della donna (quale presupposto di liceità dell’interruzione della gravidanza dopo i primi novanta giorni). Sez. 3, n. 02798/2023, Pellecchia, Rv. 667051-01, ha, d’altra parte, chiarito che in tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazione del feto, i danni risarcibili in conseguenza della lesione del diritto all’autodeterminazione della gestante non si limitano a quelli correlati alla nascita indesiderata, estendendosi anche a quelli connessi alla perdita della possibilità di predisporsi ad affrontare consapevolmente tale nascita (quali, ad es., il ricorso, per tempo, ad una psicoterapia o la tempestiva organizzazione della vita in modo compatibile con le future esigenze di cura del figlio).
Importanti precisazioni in tema di infezioni nosocomiali sono giunte, poi, da Sez. 3, n. 05490/2023, Dell’Utri, Rv. 666812-01, che, in ordine al riparto degli oneri probatori, ha osservato che grava sul soggetto danneggiato la prova della diretta riconducibilità causale dell’infezione alla prestazione sanitaria, mentre, una volta assolto dal paziente, anche a mezzo di presunzioni, l’onere probatorio relativo al nesso causale, incombe sulla struttura sanitaria, al fine di esimersi da ogni responsabilità per i danni patiti dal paziente, l’onere di fornire la prova della specifica causa imprevedibile e inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione, intesa, quest’ultima, non già, riduttivamente, quale mera astratta predisposizione di presidi sanitari potenzialmente idonei a scongiurare il rischio di infezioni nosocomiali a carico dei pazienti, bensì come impossibilità in concreto dell’esatta esecuzione della prestazione di protezione direttamente e immediatamente riferibile al singolo paziente interessato.
La tematica ha ricevuto, poi, ulteriore approfondimento da parte di Sez. 3, n. 06386/2023, Rubino, Rv. 667112-01, che ha chiarito, innanzitutto, che l’accertamento della responsabilità della struttura sanitaria dev’essere effettuato sulla base dei criteri temporale (relativo al numero di giorni trascorsi dopo le dimissioni dall’ospedale prima della contrazione della patologia), topografico (correlato all’insorgenza dell’infezione nel sito chirurgico interessato dall’intervento, in assenza di patologie preesistenti e di cause sopravvenute eziologicamente rilevanti, da valutarsi secondo il criterio della cd. probabilità prevalente) e clinico (in ragione del quale, a seconda della specificità dell’infezione, dev’essere verificato quali misure di prevenzione sarebbe stato necessario adottare da parte della struttura sanitaria), procedendo quindi ad una fondamentale cristallizzazione del contenuto degli oneri provatori in punto di nesso di causalità e di colpa.
Sotto il primo profilo (quello dell’accertamento del nesso di causalità tra l’infezione e la degenza ospedaliera), la sentenza ha (Rv. 667112-03), inoltre, puntualizzato come al CTU debba essere demandata, tra l’altro, la verifica della mancanza o insufficienza di direttive generali in materia di prevenzione e del mancato rispetto delle stesse, nonché dell’omessa informazione circa la possibile inadeguatezza della struttura per l’indisponibilità di strumenti essenziali e della eventuale effettuazione di un ricovero non sorretto da alcuna esigenza di diagnosi e cura ed associato ad un trattamento non appropriato.
In ordine alla colpa, si è, invece, affermato (Rv. 667112-04) che, per andare esente da responsabilità, sotto il profilo soggettivo, il dirigente apicale è tenuto a dimostrare di avere indicato le regole cautelari da adottarsi, in attuazione del proprio potere-dovere di sorveglianza e verifica; direttore sanitario di averle attuate e avere organizzato gli aspetti igienico e tecnico-sanitari, vigilando altresì sull’attuazione delle indicazioni fornite; il dirigente di struttura complessa, esecutore finale dei protocolli e delle linee-guida, di avere collaborato con gli specialisti microbiologo, infettivologo, epidemiologo e igienista, essendo tenuto ad assumere precise informazioni sulle iniziative degli altri medici ovvero a denunciare le eventuali carenze della struttura.
Sia la citata pronuncia (Rv. 667112-02) che la successiva Sez. 3, n. 16900/2023, Iannello, Rv. 667849-01, hanno precisato, infine, che la responsabilità della struttura sanitaria per danni conseguenti ad infezioni nosocomiali non ha natura oggettiva, sicché, a fronte della prova presuntiva, gravante sul paziente, della contrazione dell’infezione in ambito ospedaliero, la struttura può fornire la prova liberatoria di aver adottato tutte le misure utili alla prevenzione delle stesse, consistente nell’indicazione: a) dei protocolli relativi alla disinfezione, disinfestazione e sterilizzazione di ambienti e materiali; b) delle modalità di raccolta, lavaggio e disinfezione della biancheria; c) delle forme di smaltimento dei rifiuti solidi e dei liquami; d) delle caratteristiche della mensa e degli strumenti di distribuzione di cibi e bevande; e) delle modalità di preparazione, conservazione ed uso dei disinfettanti; f) della qualità dell’aria e degli impianti di condizionamento; g) dell’avvenuta attivazione di un sistema di sorveglianza e di notifica; h) dei criteri di controllo e di limitazione dell’accesso ai visitatori; i) delle procedure di controllo degli infortuni e della malattie del personale e delle profilassi vaccinali; j) del rapporto numerico tra personale e degenti; k) della sorveglianza basata sui dati microbiologici di laboratorio; l) della redazione di un report da parte delle direzioni dei reparti, da comunicarsi alle direzioni sanitarie al fine di monitorare i germi patogeni-sentinella; m) dell’orario dell’effettiva esecuzione delle attività di prevenzione del rischio. In particolare, la seconda delle pronunce menzionate ha confermato la sentenza della corte territoriale che, in accoglimento della domanda risarcitoria spiegata dai genitori di un minore deceduto pochi giorni dopo la nascita, a causa di un’infezione contratta nel reparto di terapia intensiva, aveva ritenuto fornita la prova del fatto che la struttura sanitaria avesse predisposto i protocolli necessari per la prevenzione di infezione correlate all’assistenza, ma non li avesse specificamente applicati nel caso specifico.
In relazione ad infezioni contratte in conseguenza di emotrasfusioni, Sez. 3, n. 26091/2023, Ambrosi, Rv. 669088-01, ha confermato la possibilità, per il paziente, di assolvere all’onere della prova del nesso causale anche attraverso presunzioni, non implicando esso necessariamente la dimostrazione dell’assenza di infezione al momento della trasfusione; mentre la prova contraria, gravante sulla struttura sanitaria, può concernere l’esclusione del nesso causale (incentrandosi sulla dimostrazione che il paziente fosse già affetto dall’infezione al momento della trasfusione) ovvero l’elemento soggettivo (attraverso la dimostrazione di aver rispettato, in concreto, le norme giuridiche, le leges artis e i protocolli che presiedono alle attività di acquisizione e perfusione del plasma).
Con tale arresto, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che aveva addossato al paziente l’onere di dimostrare l’assenza di una malattia epatica al momento del ricovero, omettendo di tener conto degli elementi dallo stesso addotti, suscettibili di fondare la prova presuntiva del nesso causale (quali l’assenza di fattori di rischio specifici, l’insorgenza della malattia a distanza di un anno dalla trasfusione e la mancata evidenza di eventuali cause alternative).
Quanto alla posizione del Ministero della salute in caso di patologie conseguenti ad infezione da virus HBV, HIV e HCV, contratte a seguito di emotrasfusioni, si è già menzionata (nel cap. XII) Sez. 3, n. 28626/2023, Iannello, Rv. 669318-01, alla cui stregua la relativa responsabilità ex art. 2043 c.c. è configurabile anche per le trasfusioni praticate prima della l. n. 592 del 1967 (e nella vigenza della circolare del Ministero della sanità n. 50 del 1966), a condizione che vengano accertate: a) l’inosservanza, da parte dell’operatore, delle specifiche prescrizioni di cautela e profilassi dettate dalla citata circolare; b) la riferibilità di tale inosservanza anche a manchevolezze imputabili al medico provinciale nel dare attuazione alle direttive; c) un legame causale tra l’inosservanza e l’evento dannoso, poiché la citata circolare, pur dettando norme di condotta con finalità di generica profilassi, era rivolta ai medici provinciali che, all’epoca, costituivano articolazioni periferiche del Ministero, ad esso organicamente riferibili.
Tornando a questioni più generali, particolare interesse riveste, dal punto di vista processuale, Sez. 3, n. 05631/2023, Porreca, Rv. 666928-01, secondo la quale la domanda di risarcimento del danno alla salute cagionato da errore medico può essere modificata (nella scansione processuale di cui all’art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c., nella versione ratione temporis vigente) in domanda di risarcimento del danno da lesione degli obblighi informativi, posto che, rimanendo immutata la vicenda sostanziale, la diversità dei fatti costitutivi non altera strutturalmente il contradditorio, né determina la compromissione delle potenzialità difensive della controparte o l’allungamento dei tempi processuali, essendo possibili, ai sensi della norma innanzi indicata, allegazioni in replica dopo l’esercizio della precisazione assertiva (oltre che richieste di controprova, a seguito delle istanze di prova in relazione alla domanda come precisata). Sez. 3, n. 02719/2023, Vincenti, Rv. 667049-01, da parte sua, ha statuito, invece, che, qualora sia proposta una domanda di risarcimento dei danni per l’inesatta esecuzione di un intervento chirurgico, la sentenza di condanna al risarcimento in ragione dell’erronea valutazione riguardo alla sua necessità viola il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato perché, vertendosi in materia di diritti eterodeterminati, pone a fondamento della sentenza una causa petendi diversa da quella allegata dall’attore.
In ordine al regime della prescrizione, Sez. 3, n. 29859/2023, Vincenti, Rv. 669328-01, ha sottolineato come il dies a quo della prescrizione del diritto al risarcimento del danno da attività medico chirurgica si identifichi non già con quello della verificazione materiale dell’evento lesivo, bensì con quello (che può non coincidere col primo) in cui il pregiudizio, alla stregua della diligenza esigibile all’uomo medio e del livello di conoscenze scientifiche proprie di un determinato contesto storico, possa essere astrattamente ricondotto alla condotta colposa o dolosa del sanitario: il relativo accertamento è oggetto di un giudizio di fatto, censurabile in cassazione nei limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c..
Nell’affermare tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva fatto coincidere il dies a quo della prescrizione del diritto al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale con il momento del decesso della vittima primaria, sul presupposto che di quest’ultimo fosse percepibile, in base all’ordinaria diligenza, la riconducibilità causale alla condotta potenzialmente inadempiente dei sanitari, trattandosi di intervento chirurgico routinario di osteosintesi.