Le spese e la responsabilità processuale aggravata. - Gli orientamenti delle Sezioni Civili - Anno 2023
Rassegna della giurisprudenza di legittimità - Gli orientamenti delle Sezioni Civili - Anno 2023 - Le spese e la responsabilità processuale aggravata -(di Raffaella Maria Gigantesco) - dal sito web della Corte di Cassazione
Le spese e la responsabilità processuale aggravata
SOMMARIO: 1. La liquidazione delle spese. - 2. La responsabilità processuale cd. aggravata.
- La liquidazione delle spese.
La liquidazione delle spese costituisce pronuncia necessaria, accessoria ed obbligatoria; al riguardo la giurisprudenza di legittimità si attesta da tempo (v. Sez. 6-2, n. 02719/2015, Proto, 634162-01; Sez. 1, n. 21718/2005, Luccioli, 584767-01) nel ritenere che il regolamento delle spese sia consequenziale ed accessorio rispetto alla definizione del giudizio, tanto che la condanna del soccombente al pagamento delle spese di lite può essere legittimamente emessa anche d’ufficio, in mancanza di un’esplicita richiesta della parte vittoriosa, a meno che quest’ultima non abbia espresso la volontà di rinunziarvi.
In ordine all’impugnabilità del capo del dispositivo che pronuncia sulle spese Sez. 2, n. 33015/2023, Besso Marcheis, Rv. 669415-01, si è espressa in consapevole difformità dal precedente della S.C. Sez. 5, n. 04845/2020, D’Ovidio, Rv. 657370-01, nella parte in cui statuisce che l’impugnazione avverso la statuizione della sentenza che provvede in ordine alle spese di giudizio costituisce un capo autonomo della decisione, per l’effetto, l’impugnazione avverso di essa deve essere proposta in via autonoma e non per mezzo dell’impugnazione incidentale tardiva, che è, per tale ragione, inammissibile (in termini analoghi Sez. 2, n. 20126/2006, Mazzacane, Rv. 592051-01 e Sez. 5, n. 26507/2011, Valitutti, Rv. 620948-01).
L’orientamento difforme citato statuisce che l’impugnazione incidentale tardiva è, al contrario, ammissibile anche se riguarda un capo della decisione diverso da quello oggetto del gravame principale, o se investe lo stesso capo per motivi diversi da quelli già fatti valere, dovendosi consentire alla parte che avrebbe di per sé accettato la decisione di contrastare l’iniziativa della controparte, volta a rimettere in discussione l’assetto di interessi derivante dalla pronuncia impugnata, in coerenza con il principio della cd. parità delle armi tra le parti ed al fine di evitare una proliferazione dei processi di impugnazione. (In applicazione del principio, la S.C. ha respinto la censura relativa all’inammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva proposta dal creditore – destinatario di un appello principale relativo al solo capo delle spese – con riguardo al capo della decisione che aveva escluso il suo diritto di procedere a esecuzione forzata nei confronti della controparte).
I parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense contenuti nel d.m. n. 55 del 2014 sono stati aggiornati in forza del d.m. 13 agosto 2022 n. 147 e sono già entrati in vigore il 23 ottobre 2022.
L’esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo dei parametri previsti, non è soggetto al controllo di legittimità, attenendo pur sempre a parametri indicati tabellarmente, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo in tal caso necessario che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di esso, dovendo il giudice effettuare in motivazione la liquidazione dei compensi per ciascuna fase del giudizio, in modo da consentire la verifica della correttezza dei parametri utilizzati ed il rispetto delle relative tabelle (Sez. L, n. 19482/2018, De Marinis, Rv. 650096-01).
Sez. 3, n. 30999/2023, Gorgoni, Rv. 669456-01, ha fatto applicazione dei principi summenzionati nei giudizi per pagamento di somme anche a titolo di danno, statuendo che la liquidazione deve essere parametrata sulla base della somma attribuita alla parte vincitrice e non di quella domandata, avendo lo scopo di calmierare le liquidazioni a favore di chi abbia richiesto importi eccessivi rispetto al dovuto, mantenendo a carico di chi agisce i possibili maggiori costi di difesa cagionati da una pretesa esorbitante rispetto a quanto spettante; ne consegue che, in un giudizio di appello introdotto per rivendicare importi superiori a quelli riconosciuti e definito con pronuncia di rigetto, il valore è pari all’importo domandato e dunque, nella specie, alla differenza tra quanto preteso in sede di gravame e quanto già liquidato, non avendo alcun legame con il giudizio di secondo grado la fissazione del valore sulla base di quanto attribuito e non più in discussione (Sez. L., n. 29420/2019, Bellè, Rv. 655709-01).
Nell’anno in esame la Suprema Corte è tornata sul tema della determinazione del compenso liquidabile rispetto a ciascuna fase del giudizio, in particolare rispetto all’istruttoria, fase che il d.m. citato liquida in uno con la fase di trattazione, ragione per la quale la Corte è sovente chiamata a chiarire la maturazione del diritto alla liquidazione anche in ipotesi di mancato precipuo espletamento della stessa.
Così Sez. 2, n. 08561/2023, Oliva, Rv. 667505-02, ha affermato che in materia di spese processuali, ai fini della liquidazione del compenso spettante al difensore, il d.m. n. 55 del 2014 non prevede alcun compenso specifico per la fase istruttoria, ma prevede un compenso unitario per la fase di trattazione, che comprende anche quella istruttoria, con la conseguenza che nel computo dell’onorario deve essere compreso anche il compenso spettante per la fase istruttoria, a prescindere dal suo concreto svolgimento. Il citato principio ha poi trovato specifica applicazione nella pronuncia Sez. 3, n. 28627/2023, Iannello, Rv. 669319-02, in relazione alla trattazione del giudizio di primo grado nelle forme del procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis c.p.c. (ratione temporis vigente): anche in detta ipotesi non è esclusa la liquidazione dell’onorario al difensore per la fase istruttoria, pur nell’ipotesi di eventuale mancato svolgimento di attività di istruzione in senso stretto (di per sé comunque non incompatibile con il rito) poiché il d.m. n. 55 del 2014 prevede un compenso unitario per la fase di trattazione e/o istruttoria complessivamente considerata, tale che l’importo rimane in ogni caso riferibile solo alla diversa fase della trattazione; il principio di riconoscimento dei compensi anche in relazione alla fase decisoria è stato precisato da Sez. 6-2, n. 05289/2023, Giannaccari, Rv. 667062-01: qualora non siano state depositate le comparse conclusionali e le memorie di replica matura comunque il riconoscimento dei compensi per la fase decisionale atteso che detta fase, ai sensi dell’art. 4, comma 5, lett. d, d.m. n. 55 del 2014, comprende un’ampia serie di attività, tra cui la precisazione delle conclusioni e l’esame del provvedimento conclusivo del giudizio, sempre purché effettivamente una attività verificabile sia stata compiuta dal legale (Sez. 3, 10206/2021, Tatangelo, Rv. 661243-01).
Nell’anno in rassegna, la S.C. è stata nuovamente investita dell’individuazione dello strumento adottabile in caso di mancata regolamentazione delle spese di lite; così Sez. U, n. 19137/2023, Cirillo F.M., Rv. 668218-01, confermando che il mancato regolamento delle spese processuali, nel dispositivo e anche nella motivazione, è emendabile soltanto con l’impugnazione, non già con la speciale procedura di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 ss. c.p.c. (Sez. 2, n. 09785/2022, Abete, Rv. 664323-01), affronta per la prima volta la questione in diritto se l’avvocato sottoposto a procedimento disciplinare che si concluda con l’assoluzione, in caso di completa omissione della statuizione sulle spese, non dallo stesso rinunciate, abbia o meno diritto a vedersi liquidate le spese processuali o, almeno, ad ottenere una decisione che esamini il problema in modo esplicito. La S.C. confrontando la fattispecie in esame con quella relativa alla responsabilità civile dei magistrati, evidenzia che in relazione al procedimento disciplinare a carico degli avvocati non c’è alcun rimando specifico alle norme del processo penale, come risulta, a contrario, dall’art. 36, l. 31 dicembre 2012, n. 247, il quale rinvia – per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali da parte del C.N.F. – agli articoli da 59 a 65 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37. Conclude pertanto che, mancando disposizioni specifiche in senso contrario, risorge l’obbligo generale del giudice civile di provvedere alla liquidazione delle spese ai sensi dell’art. 91 c.p.c., da ritenere di natura inderogabile, conformemente a quanto statuito dalla giurisprudenza dello stesso C.N.F., che ha ritenuto applicabile l’art. 91 c.p. c. al procedimento dinanzi a sé (sentenza 16 luglio 2015, n. 97, in linea con le sentenze 5 giugno 2014, n. 76, e 18 marzo 2014, n. 24).
Con la decisione di Sez. L, n. 15302/2023, Casciaro, Rv. 667798-01, in difformità dal precedente orientamento espresso da Sez. 6-L, n. 36579/2022, Amendola F., Rv. 666206-01, la S.C. ha ritenuto che il ricorso per correzione di errore materiale di una sentenza della Suprema Corte per omessa pronuncia sulla distrazione delle spese non deve essere notificato anche alla parte difesa dall’avvocato antistatario, atteso che il difensore agisce, ex art. 287 e ss. c.p.c., in forza della procura rilasciatagli nel giudizio concluso con la pronuncia da correggere, non potendosi distinguere una proposizione “in proprio” dell’istanza di distrazione avanzata dal difensore (tale da imporre la notificazione della richiesta di correzione anche alla parte rappresentata) da una proposizione della domanda in rappresentanza di parte e in base all’originaria procura. Specifica la S.C. che «la procura rilasciata al difensore nel giudizio concluso con la sentenza da correggere è valida anche per la proposizione del ricorso per la correzione di errore materiale di una sentenza di cassazione, ai sensi dell’art. 391-bis cod. proc. civ., in quanto detto sub-procedimento non introduce una nuova fase processuale, ma costituisce un mero incidente dello stesso giudizio, diretto solo ad adeguare l’espressione grafica all’effettiva volontà del giudice, già espressa in sentenza», ragione per la quale il difensore agisce pur sempre, ex art. 287 e ss. cod. proc. civ., sulla base della detta procura, donde la non configurabilità di un dovere di notifica nei confronti della parte da lui rappresentata, come invece richiesto dalla pronuncia cit. 36579, non avendo neppure pregio una distinzione tra una proposizione “in proprio” della domanda di distrazione da parte del difensore (in ipotesi tale da imporre la notificazione dell’istanza di correzione anche alle parti rappresentate) ed una proposizione in rappresentanza di tali parti in forza dell’originaria procura (in ipotesi tale da non necessitare la notificazione predetta).
- La responsabilità processuale cd. aggravata.
All’art. 96 c.p.c. sulla responsabilità aggravata è stato aggiunto il comma 4 (dall’art. 3, comma 6, d.lgs. n. 10 del 2022 n. 149, dando così attuazione ai principi e criteri direttivi richiamati dall’art. 1, comma 21, lettera a, l. n. 206 del 2021) che recita: “nei casi previsti dal primo, secondo e terzo comma, il giudice condanna altresì la parte al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000”.
L’applicazione della norma in questione esige quindi l’individuazione di un quid pluris rispetto alla soccombenza totale e cioè un profilo di dolo o colpa grave nel promuovere l’azione (o nel resistere) ravvisabile nella consapevolezza della infondatezza della domanda, ma anche nella consapevolezza della infondatezza delle tesi sostenute (Sez. U, n. 32001/2022, Rossetti, Rv. 6666062-01), ovvero nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di detta consapevolezza (Sez. 3, n. 09060/2003, Finocchiaro, Rv. 563974-01); vale a dire che la parte non solo deve essere consapevole (o colpevolmente inconsapevole) del contrasto con la corrente interpretazione giurisprudenziale delle norme che governano la fattispecie, ma anche della infondatezza della lettura alternativa proposta, ovvero della richiesta di applicare norme diverse.
L’evoluzione giurisprudenziale riguardante l’istituto è interamente ripercorsa nella motivazione di Sez. 3, n. 36591/2023, Iannello, Rv. 669749-01, la quale condanna il ricorrente ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c. per avere promosso il ricorso su questioni largamente consolidate nella giurisprudenza di legittimità già anteriormente alla sua proposizione, sintomo se non della mala fede, quanto meno della colpa grave a base della iniziativa impugnatoria.
In particolare, la S.C. precisa che appare invero riduttiva una lettura che rapporti l’istituto in commento solo alla previsione dell’art. 24 Cost., in quanto “occorre muovere dalla premessa che l’istituto, dalla indubbia finalità sanzionatoria” (Sez. U., n. 16601/2017, D’Ascola, Rv. 644914-01) ed è chiaramente volto a rafforzare in modo generalizzato, prescindendo cioè dalla domanda di parte, le cosiddette sanzioni processuali, in funzione della più incisiva valutazione del comportamento delle parti durante il processo. In tal modo esso si pone in evidente correlazione con il fenomeno dell’abuso del processo, che la giurisprudenza di legittimità concepisce come esercizio del potere da parte di chi, pur essendone titolare legittimo, lo utilizza per fini diversi da quelli per i quali quel potere viene riconosciuto dalla legge, con la conseguenza che esso ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento li ha predisposti.
In base all’orientamento della Corte, quindi, l’art. 96, comma 3, c.p.c. istituisce un’ipotesi di condanna di natura sanzionatoria e officiosa per l’offesa arrecata alla giurisdizione che deve manifestare e garantire la ragionevole durata di un giusto processo, in attuazione di un interesse di rango costituzionale intestato allo Stato. Ne deriva che il parametro cui va rapportato l’istituto, e che anzi ne costituisce il suo fondamento, conferendogli piena cittadinanza nell’ordinamento processuale considerato nel suo complesso, non è l’art. 24 Cost., ma l’art. 111 Cost., là dove in particolare, ai commi primo e secondo, sancisce il principio del giusto processo regolato dalla legge e quello, al primo consustanziale, della sua ragionevole durata. Ribaltando in tal modo la prospettiva atomistica e focalizzata al singolo caso da cui muove l’esegesi qui non condivisa, può dirsi che l’istituto, lungi dal comprimere o limitare il diritto costituzionalmente tutelato di agire e difendersi in giudizio, è diretto piuttosto ad assicurarne l’effettiva attuazione, sanzionando quelle condotte che, abusando di quel diritto, contribuiscono al moltiplicarsi del contenzioso e limitano per ciò stesso (esse sì) l’accesso alla giurisdizione, che è risorsa limitata.
Così statuendo, quindi, la S.C. prende le distanze dall’orientamento espresso in fattispecie identica, da Sez. 1, n. 28441/2023, Russo, non massimata, conforme a Sez. 3, n. 19948/2023, Gianniti, Rv. 668146-01, nella parte in cui riconducono l’interpretazione restrittiva dell’art. 96 c.p.c. prevalentemente al carattere eccezionale della norma, la quale pone un limite alla libertà costituzionalmente tutelata di agire o resistere in giudizio a difesa dei propri diritti, tale per cui una sua interpretazione lata, nonché ogni automatismo correlato alla sconfitta processuale, verrebbe a contrastare con i principi della Costituzione e segnatamente con l’art. 24.
Nell’anno in rassegna la S.C. è stata chiamata a pronunciarsi sul richiamo all’articolo 96, commi 3 e 4, c.p.c. operato dal novellato art. 380-bis c.p.c. La previsione è la realistica presa d’atto del fatto che la giurisdizione è una risorsa limitata, sicché appare conforme al sistema che il costo dell’aggravio per il servizio giustizia sia sostenuto da colui che, nonostante una prima delibazione negativa, abbia chiesto comunque una valutazione supplementare collegiale senza che ne sussistessero fondate ragioni. La pronuncia Sez. U, n. 28540/2023, Giusti, Rv. 669313-01, con la quale la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso promosso per la declaratoria di difetto di giurisdizione della Corte dei conti, in accoglimento delle conclusioni conformi avanzate dalla Procura Generale e della proposta formulata dalla Prima Presidente – in ossequio al principio consolidato per il quale il giudice contabile non viola i limiti esterni della propria giurisdizione qualora censuri, non già la scelta amministrativa adottata, bensì il modo con il quale quest’ultima è stata attuata, profilo che esula dalla discrezionalità amministrativa, dovendo l’agire amministrativo comunque ispirarsi a criteri di economicità ed efficacia – afferma che in tema di procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, l’art. 380-bis, comma 3, c.p.c. (come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022) “contiene una valutazione legale tipica della sussistenza dei presupposti per la condanna ai sensi del terzo e del quarto comma dell’art. 96 c.p.c., codificando quindi un’ipotesi normativa di abuso del processo, poiché il non attenersi ad una valutazione del proponente, poi confermata nella decisione definitiva, lascia presumere una responsabilità aggravata del ricorrente”, il quale ha abusato appunto della limitata risorsa giustizia, giustificando così la condanna a sostenere un onere aggiuntivo.
In ordine al profilo della disciplina intertemporale dell’applicazione ai giudizi di cassazione delle disposizioni di cui all’art. 96, commi 3 e 4, per effetto del rinvio operato dall’ultimo comma dell’art. 380-bis c.p.c. nel testo riformato, la citata Sez. U, n. 28540, conforme a Sez. U, n. 27433/2023, Orilia, Rv. 668909-01 e Sez. U, n. 27195/2023, Criscuolo, Rv. 668850-01, ha ritenuto tale normativa immediatamente applicabile sebbene per giudizi già pendenti alla data del 28 febbraio 2023, considerato che «sottrarre al corredo di incentivi e di fattori di dissuasione contenuto nella norma in esame (come rimarcato nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 149 del 2022) proprio la condanna al pagamento di una somma in favore della controparte e di una ulteriore somma in favore della cassa delle ammende, verrebbe a fortemente limitare la portata applicativa della norma, che dovrebbe attendere verosimilmente diversi anni per vedere riconosciuta la sua piena efficacia, in contrasto con il chiaro intento del legislatore di offrire nell’immediato uno strumento di agevole e rapida definizione dei ricorsi che si palesino inammissibili, improcedibili ovvero manifestamente infondati, e consentendo alla Corte di concentrarsi su quelli che invece si presentino meritevoli di un intervento nomofilattico o che all’inverso meritino un attento esame». Il meccanismo appena esplicitato trova applicazione anche qualora nessuno dei soggetti intimati abbia svolto attività difensiva, come statuito in Sez. U, n. 27195/2023, cit.; anche quando l’istanza di definizione del giudizio dopo la formulazione della proposta sia stata fatta in modo irrituale (Sez. 3, n. 31839/2023, Graziosi, Rv. 669478-02) il Collegio fissato in adunanza camerale definisce il giudizio in conformità alla proposta per ragioni di rito impedienti la discussione su di essa, troverà piena applicazione il comma 3 della citata disposizione.
Infine (Sez. 3, n. 27947/2023, Iannello, Rv. 669107-01) precisa ancora la S.C. che, nel caso in cui il ricorrente abbia formulato istanza di decisione e la Corte abbia definito il giudizio in conformità alla proposta, l’omessa costituzione dell’intimato, se da un lato preclude la statuizione ex art. 96, comma 3, c.p.c. (non ricorrendo una situazione che consenta una pronuncia sulle spese) dall’altro impone l’applicazione dell’art. 96, comma 4, c.p.c., alla stregua dell’autonoma valenza precettiva del richiamo a tale ultima disposizione contenuto nel citato art. 380-bis, comma 3, c.p.c., che si giustifica in funzione della ratio di disincentivare la richiesta di definizione ordinaria a fronte di una proposta di definizione accelerata, esigenza che persiste anche nel caso di mancata costituzione dell’intimato.
Circa i presupposti di allegazione, Sez. 3, n. 15175/2023, Spaziani, Rv. 668000-01, ha statuito che la liquidazione del danno da responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. postula che la parte istante abbia quantomeno assolto l’onere di allegare gli elementi di fatto, desumibili dagli atti di causa, necessari ad identificarne concretamente l’esistenza ed idonei a consentire al giudice la relativa liquidazione, anche se equitativa – ribadendo il principio di diritto risalente alla pronuncia Sez. 1, n. 27383/2005, Giuliani, Rv. 588219-01 e Sez. 3, n. 21798/2015, Armano, Rv. 637545-01.
Il principio, immanente al sistema, ha trovato specifica applicazione in tema di protezione internazionale con la pronuncia Sez. 1, n. 19749/2023, Genovese, Rv. 668375-01, la quale ha statuito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione derivante dalla mancata certificazione, da parte del difensore, della data di rilascio della procura ex art. 35-bis, comma 13, d.lgs. n. 25 del 2008, formulata in sede di proposta ex art. 380-bis c.p.c. e decisa in conformità, dà luogo all’applicazione del comma 3, ultima parte, della medesima disposizione, e, segnatamente, in difetto di costituzione della parte intimata, della condanna del ricorrente al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende ai sensi dell’art. 96, comma 4, c.p.c., essendo il ricorrente incorso in colpa grave per avere chiesto la decisione a fronte della proposta di definizione accelerata di inammissibilità in difetto di valida procura alle liti, senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza o dell’inammissibilità della propria iniziativa processuale.