Iva - Risoluzione del contratto - 1
Iva - Risoluzione del contratto - Rapporti fra cedente e Fisco - Obbligo di rimborsare l'Iva (Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 2 luglio-8 novembre 2002 n. 15696)
Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 2 luglio-8 novembre 2002 n. 15696
Svolgimento del processo
La Costruzioni Metalliche Domenico e Antonio Paolillo S.n.c. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Salerno la Enersol S.n.c. deducendo che quest'ultima società gli aveva consegnato un impianto per la produzione di acqua calda ad energia solare, al prezzo di lire 11.210.000, che aveva manifestato imperfezioni nel funzionamento. La società attrice chiedeva quindi la declaratoria di risoluzione del contratto, con condanna della convenuta alla restituzione della somma di lire 11.210.000 e al risarcimento dei danni. La Enersol S.n.c., costituitasi in giudizio, eccepiva la decadenza ai sensi dell'art. 1495 c.c. e nel merito contestava il fondamento della domanda. Il Tribunale rigettava la domanda. Proposto appello la Corte d'appello di Salerno, in riforma della sentenza del Tribunale, condannava la Enersol S.n.c, al pagamento in favore della Domenico e Antonio Pappalardo S.n.c. al pagamento della somma di lire 22.072.900, oltre interessi sulla sorte capitale iniziale di lire 11.200.000, rivalutata anno per anno dal 22 agosto 1984 al soddisfo. Avverso questa sentenza Marianeve Amoruso, in qualità di ex amministratrice e socio illimitatamente responsabile della disciolta Enersol S.n.c., ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. La Costruzioni Metalliche Domenico e Antonio Paolillo S.n.c. resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1. Pregiudiziale è la trattazione delle eccezioni di inammissibilità del ricorso svolte dalla società controricorrente.
La controricorrente ha eccepito l'inammissibilità del ricorso per essere stata la procura rilasciata dalla sig.ra Amoruso solo nella qualità di «socia responsabile della disciolta Società Enersol», senza alcun riferimento al rapporto di immedesimazione organica con la società. Secondo quanto dedotto, la società non aveva rilasciato alcuna procura speciale, mentre l'impugnativa in proprio da parte dell'Amoruso era inammissibile non essendo stata la stessa parte del giudizio d'appello.
L'eccezione è priva di fondamento.
Non è neppure contestato che Marianeve Amoruso fosse legale rappresentante della Enersol S.n.c. Ciò che si deduce è che l'Amoruso avrebbe rilasciato la procura in proprio. Sotto questo profilo risulta evidente l'infondatezza dell'eccezione, risultando dalla procura a margine del ricorso che la stessa è stata rilasciata dall'Amoruso «nella qualità» e non anche in proprio. Legittimamente dunque la procura risulta rilasciata dall'Amoruso, che peraltro è indicata anche nella sentenza impugnata quale legale rappresentante della società.
Ciò senza contare che la sottoscrizione della procura alle liti avvenuta senza spedita della denominazione sociale, da parte di una persona fisica che sia indiscutibilmente il legale rappresentante della società, comporta il valido conferimento della procura da parte della società stessa, sempre che questa sia l'unico soggetto coinvolto nel processo (Cass. 26 maggio 2000, n. 7002).
La società controricorrente ha svolto anche un'altra eccezione d'inammissibilità. L'Enersol S.n.c. aveva notificato un primo ricorso in data 29 luglio 1999, privo della sottoscrizione del procuratore; quindi, il giorno successivo aveva notificato un nuovo ed identico ricorso per cassazione carente però della procura speciale. In sostanza, entrambi i ricorsi, per i motivi indicati (carenza di sottoscrizione il primo, carenza di procura il secondo) erano inammissibili.
Anche questa eccezione è priva di fondamento. Questa Corte ha in più occasioni affermato che la firma apposta dal difensore per l'autenticazione della procura speciale (mandato ad litem) scritta in margine al ricorso per cassazione vale anche per il ricorso perché consente di riferire al difensore che ha autenticato la sottoscrizione della procura speciale anche la paternità del ricorso medesimo (Cass. 30 gennaio 1995, n. 1083; n. 550 del 1986). E nel caso di specie la procura è a margine del (primo) ricorso e contiene la firma del difensore. Il primo ricorso è dunque ammissibile, restando irrilevante la notificazione di un secondo ricorso.
2. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1227, 1453 e 1493 c.c. e degli artt. 112 e 346 c.p.c. La Corte d'appello di Salerno, nell'accogliere l'appello, aveva condannato la Enersol S.n.c. al pagamento della somma di lire 22.072.900, oltre interessi legali sulla sorte capitale di lire 11.200.000, rivalutata anno per anno. Così decidendo la Corte territoriale aveva erroneamente considerato che l'obbligazione a carico del venditore o (dell'appaltatore) di restituire al compratore (o al committente) la somma ricevuta a titolo di corrispettivo consistesse in un debito di valore, anziché in un debito di valuta.
Il motivo è fondato.
La sentenza impugnata ha ritenuto che poiché obbligata alla restituzione del prezzo dell'appalto era la parte che con la propria inadempienza aveva causato la risoluzione del contratto, il debito era di valore, con conseguente sua rivalutazione all'attualità. In tal modo però, la Corte d'appello di Salerno ha disatteso l'orientamento di questa Corte - condiviso dal Collegio - secondo cui: «l'obbligo di restituzione di una somma di denaro conseguente alla risoluzione del contratto configura un debito di valuta, sia quando grava sulla parte incolpevole, sia allorché obbligata alla restituzione è la parte che, con la propria inadempienza, ha causato la risoluzione del contratto, attesa la persistente natura non risarcitoria del relativo debito, avente ad oggetto l'originaria prestazione pecuniaria, del tutto distinto dal risarcimento del danno spettante in ogni caso all'adempiente. Pertanto, in quest'ultimo caso - poiché con la domanda di risoluzione e di restituzione del corrispettivo versato il debitore è costituito in mora - alla parte adempiente, oltre al risarcimento del danno derivante dall'inadempimento ai sensi dell'art. 1453 cod. civ., può eventualmente spettare soltanto il maggior danno rispetto agli interessi moratori ai sensi dell'art. 1224, secondo comma, cod. civ. sulla somma da restituire, sempre che questo risarcimento ulteriore, del quale il richiedente ha l'onere di provare le condizioni, non rimanga assorbito dal risarcimento accordato per il danno derivante dall'inadempimento, dovendosi evitare una ingiustificata duplicazione del risarcimento dello stesso danno» (Cass. S.U. 17 maggio 1995, n. 5391; v. pure: Cass. 22 gennaio 2000, n. 698; Cass. 20 agosto 1999, n. 8793; Cass. 20 maggio 1997, n. 4465; Cass. 1° luglio 1996, n. 5963). 3. Con il secondo motivo la società ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell'art. 1453 c.c. e degli artt. 17 e 21 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636. Il prezzo convenuto era di lire 9.500.000, mentre l'IVA dovuta per legge ammontava a lire 1.710.000, per un complessivo importo di lire 11.210.000. Il giudice d'appello nel condannare alla restituzione della somma, aveva incluso anche l'IVA. Ciò in violazione delle norme indicate e senza contare che si faceva restituire una somma a chi nel riceverla aveva provveduto al suo versamento in favore dell'erario.
Anche questo motivo è fondato.
In tema di imposta sul valore aggiunto, verificatasi una causa di risoluzione del contratto in relazione al quale il venditore abbia già emesso la fattura per il prezzo ed assolto il conseguente obbligo di pagamento dell'IVA, il medesimo venditore ha diritto di detrarre, nel rapporto con il fisco, tale imposta a norma dell'art. 26, secondo comma del D.P.R. n. 633 del 1972, in conformità a quanto in detta norma stabilito, senza che sia necessario un formale atto di accertamento (negoziale o giudiziale) del verificarsi dell'anzidetta causa di risoluzione (Cass. 17 giugno 1996, n. 5568). Nel diverso rapporto di rivalsa di natura privatistica fra cedente e cessionario, la risoluzione del contratto non comporta automaticamente il venir meno dell'obbligo del secondo (cioè del cessionario) di rimborsare al primo l'imposta da questi versata al fisco, in quanto a tal fine è necessario che il cessionario deduca e dimostri l'avvenuto recupero dell'Iva da parte del cedente mediante la detrazione prevista dal predetto art. 26 (Cass. 26 giugno 1995, n. 7234).
Non essendo stato neppure dedotto il profilo da ultimo indicato, anche questo motivo dev'essere accolto.
Per quanto detto il ricorso dev'essere accolto e la sentenza dev'essere cassata con rinvio alla Corte d'appello di Napoli che si atterrà ai principi di diritto sopra enunciati e che provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia.