art.58.La testimonianza dell'avvocato
art.58.La testimonianza dell'avvocato
Codice deontologico forense
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art.58.La testimonianza dell'avvocato
Per quanto possibile, l'avvocato deve astenersi dal deporre come testimone su circostanze apprese nell'esercizio della propria attivita' professionale e inerenti al mandato ricevuto.
* I-L'avvocato non deve mai impegnare di fronte al giudice la propria parola sulla verita' dei fatti esposti in giudizio.
* II-Qualora l'avvocato intenda presentarsi come testimone dovra' rinunciare al mandato e non potra' riassumerlo.
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testimonianza dell’avvocato
parere consiglio nazionale forense 09-05-2007, n. 9 quesito del coa di biella.
il consiglio dell'ordine chiede parere sulla possibilità, per un avvocato che sia stato legale di fiducia di un cliente defunto, di deporre quale testimone circa la volontà e gli atti posti in essere dal de cuius nell'ambito di una controversia promossa da un erede che si assume pretermesso, ovvero sulla necessità di conservare il segreto professionale. quanto all'assunzione della testimonianza vi è il consenso di solo alcune delle parti coinvolte nel giudizio, mentre altre vi si oppongono.
la commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: "il segreto professionale costituisce al tempo stesso l'oggetto di un dovere giuridico dell'avvocato, la cui violazione è sanzionata penalmente (art. 622 c.p.), e l'oggetto di un diritto dell'avvocato medesimo, che non può essere obbligato a deporre su quanto ha conosciuto per ragione del proprio ministero (art. 200 c.p.p.).
tale profilo riferibile all'avvocato non esaurisce il contenuto giuridico dell'istituto del segreto professionale. lo stesso è infatti soprattutto l'oggetto di un diritto soggettivo del cittadino cliente che entra in relazione con l'avvocato. esiste cioè un diritto del cittadino-cliente a che il professionista si attenga al segreto professionale e non sveli notizie apprese nel corso del mandato professionale. ed è tale diritto che assume i connotati di un diritto fondamentale, nella specie del diritto fondamentale di difesa, perché senza tale garanzia il diritto di difesa ne risulterebbe indebitamente e gravemente diminuito.
piuttosto che sul versante del "privilegio" dell'avvocato a non dover fornire, se richiesto, certe informazioni acquisite dal cliente, l'ancoraggio del segreto professionale all'art. 6 cedu (diritto al giusto processo), e dunque all'art. 6 tr. ue, che riconosce come principi fondamentali del diritto comunitario le tradizionali costituzionali comuni dei paesi membri, conduce alla concettualizzazione di un diritto fondamentale al segreto professionale in capo al cittadino cliente, che la corte europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto sussistere senza alcuna limitazione di ordine soggettivo (ad esempio con riferimento al detenuto).
in questo senso l'avvocato generale presso la corte di giustizia, nel noto procedimento (ancora pendente) relativo alla seconda direttiva antiriciclaggio, si è di recente riferito al segreto professionale nei termini di un "valore fondamentale degli stati di diritto che formano l'unione europea" . alla luce di queste considerazioni, dovrebbe essere considerata con particolare cautela la questione della eventuale rilevanza della volontà del cliente - o di chi gli succede nella titolarità delle relative posizioni giuridiche - ai fini della permanenza in capo all'avvocato del relativo obbligo di segretezza, dovendosi piuttosto concludere, in via generale, nel senso della non "disponibilità" del diritto al segreto professionale. quale valore fondamentale dello stato di diritto nell'unione europea, il segreto professionale non dovrebbe insomma configurarsi come diritto disponibile dal cliente, bensì come istituto giuridico complesso, segnato da esigenze di protezione che trascendono le singole situazioni giuridiche soggettive di volta in volta coinvolte.
in questa cornice si inscrivono le norme deontologiche direttamente rilevanti nel caso in esame: l'art. 58, in forza del quale, "per quanto possibile, l'avvocato deve astenersi dal deporre come testimone su circostanze apprese nell'esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto", e ovviamente, l'art. 9, ai sensi del quale "e' dovere, oltreché diritto, primario e fondamentale dell'avvocato mantenere il segreto sull'attività prestata e su tutte le informazioni che siano a lui fornite dalla parte assistita o di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato"; è bene ricordare altresì che la cessazione del mandato non estingue il segreto, come è confermato dal primo canone dello stesso art. 9, per il quale "l'avvocato è tenuto al dovere di segretezza e riservatezza anche nei confronti degli ex clienti, sia per l'attività giudiziale che per l'attività stragiudiziale". la morte del cliente, dunque, come nel caso di specie, non comporta certo la cessazione del vincolo al segreto professionale.
così ricostruito l'istituito nella sua collocazione ordinamentale, nonché alla luce delle norme deontologiche rilevanti, resta pertanto da considerare l'oggetto del dovere di riserbo. alla luce della ampia formulazione del citato articolo 9, che contempla le circostanze apprese nell'esercizio del mandato, pare potersi dire che l'avvocato sia tenuto al riserbo con riferimento certamente all'attività prestata (giudiziale o stragiudiziale che sia), ma anche alle informazioni eventualmente assunte dalla parte assistita, o comunque conosciute in ragione del mandato. potrebbe pertanto ritenersi ammissibile, sotto il profilo deontologico, una testimonianza avente ad oggetto non elementi di fatto, obiettivamente apprezzabili, ma elementi soggettivi, relativi alle intenzioni e/o alla volontà manifestate dall'assistito, anche se, sotto il profilo processuale, forte sarebbe il rischio della inammissibilità di una testimonianza implicante un giudizio, parimenti potrebbe considerarsi ammissibile sotto il profilo deontologico (ma con la medesima rischiosa conseguenza in ordine alla inammissibilità processuale) la deposizione dell'avvocato avente ad oggetto la propria soggettiva opinione circa la volontà dell'ex cliente, in quanto così facendo l'avvocato svelerebbe non un dato oggettivo del cliente o ex cliente, bensì un dato soggettivo relativo a sé stesso.
deve poi da ultimo rilevarsi come certamente prosegua in capo a ciascun erede disgiuntamente la titolarità della posizione giuridica attiva vantata dal cliente defunto ed avente ad oggetto la pretesa giuridicamente azionabile a che l'avvocato si attenga al segreto professionale. parere consiglio nazionale forense 09-05-2007, n. 9 quesito del coa di biella.
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