Ingiusta durata del processo - Procedura fallimentare - Riparazione del danno
Ingiusta durata del processo - Procedura fallimentare - Riparazione del danno - Proposizione della domandaprima della definizione del giudizio - legge n. 89/2001
Ingiusta durata del processo - Procedura fallimentare - Riparazione del danno - Proposizione della domanda prima della definizione del giudizio - legge n. 89/2001 (Corte di Cassazione, Sentenza n. 362 del 14 gennaio 2003)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con il decreto attualmente impugnato, la Corte d'appello di Venezia ha condannato il Ministero della Giustizia a corrispondere al sig. B. l'equo indennizzo, ai sensi della legge n. 89 del 2001, in relazione ad una procedura fallimentare svoltasi a suo carico (aperta nel novembre del 1990 ed ancora perdurante alla data del deposito del decreto oggi impugnato), della quale è stata ritenuta eccessiva la durata.
A sostegno della decisione il giudice ha dedotto che, ai fini del riconoscimento dell'equo indennizzo, non è richiesta alcuna indagine di natura soggettiva sull'operato del giudice e delle altre autorità attivatesi nel processo, in quanto la conclamata, generale inadeguatezza del sistema giudiziario italiano a far fronte al carico di lavoro di cui è investito costituisce il presupposto giustificativo dell'equa riparazione; che l'esercizio della relativa azione è consentito anche durante la pendenza del procedimento nel cui ambito si assume verificata la violazione; che, anche in considerazione della complessità della procedura fallimentare (nella specie, vi sono state oggettive difficoltà di liquidazione degli immobili, per l'esiguo valore degli stessi e per il pericolo che le spese di vendita superassero quanto ricavabile), è evidente che il suo protrarsi per 11 anni ha leso il diritto del B. ad una definizione in tempo ragionevole; che, dunque, questi, ha diritto alla riparazione del danno riferibile al periodo di cinque anni eccedente il termine ragionevole; che è indennizzabile il solo danno non patrimoniale.
Il decreto della Corte d'appello di Venezia è impugnato per cassazione dal Ministero della Giustizia, attraverso due motivi. Non si difende il B. nel giudizio di cassazione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il secondo motivo - laddove è censurata l'omissione della motivazione, nonchè la violazione dell'art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, nonchè degli art. 1226, 1227, 2729, 2697 c.c. - assume carattere prioritario rispetto agli altri. In un suo primo profilo si sostiene che la domanda per il riconoscimento dell'equo indennizzo non sarebbe proponibile prima della definizione del grado del giudizio al quale essa si riferisce (nella specie, lo si è visto, la causa presupposta era ancora in corso alla data del deposito del decreto impugnato). Diversamente, infatti, risulterebbero violati i principi in materia di precostituzione del giudice naturale (art. 25 Cost.,) e di imparzialità del giudice (artt. 101, 102, 104 Cost.), in quanto il ricorrente sarebbe allo stesso tempo parte del giudizio a quo (ancora pendente) e di quello per la riparazione del danno da ingiustificato ritardo, con la conseguenza che il giudice del primo, sfiduciato dalla parte per non avere concluso il processo in un termine ragionevole, potrebbe essere indotto ad astenersi per ragioni di opportunità. Si aggiunge che, peraltro, siffatta interpretazione sarebbe più coerente con la ratio della norma, introdotta proprio per salvaguardare i diritti sanciti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, tra i quali figura, appunto, l'imparzialità del giudice.
La questione, che è stata posta in dottrina fin dall'entrata in vigore della legge in esame, è infondata, in quanto configgente con l'inequivocabile disposto normativo dell'art. 4 (Termine e condizioni di proponibilità), il quale prevede che "La domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva". La tesi prospetta dubbi di legittimità costituzionale (in particolare, è adombrato il contrasto con il principio del giudice naturale di cui all'art. 25 Cost.) ed è generata da una visione antigiudice della nuova normativa, tratta dal rinvio all'art. 11 c.p.p. (art. 3.1.) sull'individuazione del giudice competente secondo le stesse regole dei processi in cui è parte un magistrato, oltre che dall'obbligatorietà della comunicazione del decreto l'accoglimento al procuratore generale della Corte dei Conti ed ai titolari del potere disciplinare dei dipendenti pubblici (art. 5).
Si tratta di dubbi assolutamente infondati, posto che è del tutto arbitrario interpretare la proposizione dell'azione in oggetto(in pendenza di giudizio) come atto di sfiducia nei confronti del giudice della causa presupposta, tale da indurlo ad astenervisi, con conseguente lesione del principio del giudice naturale. Una tale concezione postula che l'azione per il conseguimento dell'equo indennizzo sia fondata sull'accertamento della responsabilità (e, quindi, della colpa) del singolo giudice nella causazione dell'ingiustificato ritardo, attraverso comportamenti di rilievo civile, penale, contabile o disciplinare. Al contrario, la disciplina in esame fa scaturire il diritto all'equo indennizzo dal mero accertamento del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6. par. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, sicchè la valutazione del comportamento del giudice (insieme con quello delle parti) ha la mera funzione di selezionare quali attività processuali siano attribuibili all'impulso del giudice e quali all'impulso delle parti. Così da consentire la stima dei tempi che sono complessivamente attribuibili al giudice, come Apparato Giustizia (inteso come complesso organizzato di uomini, mezzi e procedure necessari all'espletamento del servizio), e far scaturire il giudizio circa la ragionevolezza o meno della loro durata. In quest'ordine di idee è assolutamente da escludersi che lo spirito della legge sia quello di attribuire al giudice dell'equo indennizzo l'indagine e la valutazione circa la legittimità (civile, penale, disciplinare o contabile) del comportamento del giudice della causa presupposta (sia essa definita o in corso); mentre è da ammettersi che l'eventuale giudizio favorevole sull'istanza contenga in sè un apprezzamento negativo circa la complessiva capacità dell'Apparato Giustizia a rendere il servizio attribuitole in tempi ragionevoli.
Quanto, poi, al rinvio all'art. 11 c.p.p., esso certamente non va interpretato nel senso che il giudice della causa presupposta sia parte della causa relativa all'equo indennizzo: piuttosto, esso si manifesta come un necessario e ragionevole strumento di individuazione del giudice competente sull'equo indennizzo, estendendo il meccanismo, già predisposto e sperimentato nei casi in cui il magistrato è parte del giudizio, a questa fattispecie in cui sicuramente sarebbe stata impossibile l'attribuzione del giudizio sulla ragionevolezza della durata del processo al giudice dello stesso processo. Quanto, poi, all'obbligatoria trasmissione del decreto d'accoglimento agli organi della responsabilità disciplinare e contabile, essa trova giustificazione nella necessaria, ulteriore verifica delle ragioni del ritardo accertato, al fine di chiarire se esso è addebitabile all'organizzazione giudiziaria nel suo complesso (come sopra individuata) e/o al riprovevole comportamento del singolo operatore: restando, comunque, gli eventuali rilievi disciplinari o contabili legati da una mera comunanza di elementi di fatto con la questione indennitaria, non potendo, peraltro, neppure ipotizzarsi una questione di costituzionalità sul tema di cui si sta trattando per difetto di rilevanza nelle cause per l'equo indennizzo, laddove è prevista la sola legittimazione passiva dei Ministri della Giustizia, della Difesa e delle Finanza.
Tutto quanto premesso rende palese l'impossibilità di configurare, come effetto del meccanismo legislativo, qualsiasi intimidazione nei confronti del giudice della causa che sia ancora in corso, si da farne scaturire conseguenze di ordine astensivo o ricusatorio tali da ledere il principio costituzionale del giudice naturale.
Con il primo motivo e con altri profili del secondo motivo, l'Amministrazione pone questioni attinenti all'accertamento del diritto vantato (quello ad ottenere un processo in tempi ragionevoli) ed alla liquidazione del danno.
In particolare, con il primo motivo è lamentata l'omissione della motivazione, sia in ordine alle ragioni che hanno indotto il giudice a quantificare in cinque anni il ritardo ingiustificato ed ad attribuire al ricorrente l'indennizzo per il danno non patrimoniale attraverso la liquidazione equitativa.
Sotto il secondo profilo del secondo motivo, il decreto impugnato è censurato per avere omesso ogni motivazione in ordine alla colpa dell'Amministrazione convenuta, che, invece, secondo il Ministero ricorrente, sarebbe un requisito indispensabile per riconoscere l'equo indennizzo. A tal riguardo si sottolinea che il rispetto dell'organizzazione voluta dalla legge non può dar luogo a riparazione, ma, al contrario, è idoneo ad escludere ogni colpa dell'Amministrazione: che, peraltro, la valutazione della complessità del caso (imposta dalla legge) è diretta innanzitutto ad accertare tale colpa.
Sotto un ultimo profilo del secondo motivo, infine, il decreto della Corte veneziana è censurato per aver proceduto alla liquidazione del danno non patrimoniale pur in mancanza anche solo di un principio di prova a riguardo.
Ai problemi posti può darsi una risposta congiunta.
Benchè il legislatore abbia previsto la forma del decreto per il provvedimento camerale che conclude il giudizio in esame, è tuttavia indispensabile una motivazione che, per quanto stringata ed essenziale, dia conto dei passaggi essenziali svolti dal ragionamento a sostegno della decisione. A tal riguardo, è indubbio che oggetto dell'accertamento è costituito dal mancato rispetto del termine ragionevole del processo: accertamento il cui percorso è dalla stessa legge individuato (art. 2) nella valutazione della complessità del caso ed, in relazione a questa, del comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonchè di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua definizione. è allora necessario che il giudice, una volta considerato l'intero arco temporale del processo, operi una analitica selezione (lo si è già accennato in precedenza) tra i segmenti temporali attribuibili alle parti e quelli attribuibili all'operato del giudice, sottraendo i primi alla durata complessiva del procedimento. Il resto che risulterà da questa sottrazione è costituito dalla durata netta del processo della quale va stimata la ragionevolezza.
Nella specie, il giudice (come s'è visto in precedenza) s'è ottenuto a questo iter motivazionale, scindendo dalla complessiva durata del procedimento (11 anni) il periodo ragionevolmente dovuto alla complessità generica e specifica della procedura fallimentare (6 anni) e quello irragionevolmente dovuto all'inefficacia dell'apparato giudiziario (5 anni): ha, quindi, proceduto alla determinazione dell'indennizzo con riferimento a tale ultimo periodo. Adeguandosi ai principi sopra esposti, ha, dunque, escluso, che fosse necessaria un'indagine di natura psicologica sull'operato del giudice e delle altre autorità attivatesi nel processo, in quanto il presupposto giustificativo della liquidazione dell'equa riparazione è la generale inadeguatezza del sistema giudiziario a far fronte al carico di lavoro del quale è investito.
Quanto alla liquidazione del danno non patrimoniale (l'unico riconosciuto dal giudice) deve ricordarsi che essa, non avendo la funzione di reintegrazione patrimoniale mediante la corresponsione di un equivalente pecuniario del bene perduto, non può essere effettuata che con valutazione equitativa, rimessa al prudente apprezzamento del giudice. Essa però deve ispirarsi alla considerazione di tutte le concrete circostanze individuali, in modo da adeguare l'indennizzo al caso particolare e da renderlo il più possibile rispondente a criteri di equità e deve, comunque, rispettare l'esigenza di una ragionevole correlazione tra gravità effettiva del danno ed ammontare dell'indennizzo, cosicchè questo non si riduca a mera espressione simbolica (Cass. 11 gennaio 1988, n. 23). Il decreto impugnato, adeguandosi a questo principio ha, dunque, correttamente affermato che, nella specie, il danno morale deriva dalla situazione soggettiva di disagio per il protrarsi, oltre il tempo ragionevole della procedura, dello status di fallito, con tutte le inerenti limitazioni alla libertà di circolazione, all'elettorato attivo e passivo, alla facoltà di esercitare le libere professioni: che alla sua liquidazione può solo procedersi attraverso la valutazione equitativa che consideri, oltre il lasso di tempo lesivo, la peculiare natura dei diritti della persona limitati o preclusi.
Il ricorso va, dunque, respinto. La mancata difesa del B. nel giudizio di cassazione esime le Corte dal provvedere sulle relative spese.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso
Testo pubblicato a cura della redazione internet del CED della Corte Suprema di Cassazione