Deontologia forense - Cassazione - Rivalutazione del capo d'incolpazione
11/03/2004 Avvocato - Deontologia forense - Cassazione - Rivalutazione del capo d'incolpazione - Modifica sanzione disciplinare
Deontologia forense - Cassazione - Rivalutazione del capo d'incolpazione - Modifica sanzione disciplinare (Cassazione – Sezioni unite civili – sentenza 5 febbraio-11 marzo 2004, n. 5038)
Svolgimento del processo
Con esposto pervenuto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati (Coa) di Roma in 25 maggio 1993, l’avv. Gian Luigi Lxxxxxx denunciò di essere stato ripetutamente apostrofato con il termine accattone, nel corso di una telefonata, da un collega, che gli aveva contestato, per conto di un proprio cliente, il pagamento dì un importo oggetto di precetto. Il collega, da parte sua, accusò l’avv. Lxxxxxx di scorrettezze nel rapporto di recupero di un credito e di tardiva emissione di fattura.
Il Consiglio dell’ordine deliberò l’apertura di due procedimenti disciplinari, e, acquisite le ragioni difensive di entrambi i legali, ne dispose la citazione a giudizio.
All’avv. Gian Luigi Lxxxxxx fu contestato il seguente addebito: ricevendo nel proprio studio la telefonata del 24 maggio 1993 dal collega, che lo aveva chiamato per proporre un accordo solutorio a stralcio tra i rispettivi rappresentanti, aveva registrato la conversazione senza preavvertirlo.
Il Coa, a conclusione del dibattimento, inflisse all’avv. Lxxxxxx (cosi come al suo collega) la sanzione disciplinare dell’avvertimento, rilevando che non era conforme al principio di lealtà, che presiede il rapporto tra gli avvocati, effettuare nascostamente la registrazione di una conversazione telefonica.
Avverso questa decisione l’avv. Lxxxxxx depositò atto dì impugnazione, deducendo motivi di travisamento ed erronea ricostruzione dei fatti, motivazione apparente e violazione di diritto. E sostenne di avere registrato legittimamente la conversazione telefonica per difendersi dal comportamento ingiurioso del collega e di avere usato la registrazione soltanto per ristabilire la verità dei fatti, a fronte di una condotta ingiuriosa.
Con decisione depositata il 27 giugno 2003 il Consiglio Nazionale Forense (Cnf) rigettò il ricorso, osservando che l’avv. Lxxxxxx aveva violato lo specifico divieto consacrato nell’articolo 22 del codice deontologico forense (approvato nella seduta del 17 aprile 1997), recante le norme scritte della risalente e consolidata disciplina delle azioni e delle relazioni degli avvocati nell’esercizio della propria attività, che, in tema di “rapporti con i colleghi”, prevede il dovere di un comportamento ispirato a correttezza e lealtà e il divieto di registrare una conversazione telefonica con il collega.
Avverso questa decisione, notificata il 1° agosto 2003, l’avv. Lxxxxxx ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi.
Motivi della decisione
1. Col primo motivo del ricorso il ricorrente, contestando l’interpretazione giurisprudenziale che ritiene applicabili al procedimento disciplinare a carico degli avvocati gli atti interrottivi facendo riferimento a norme del codice civile o del codice penale, invoca la prescrizione del procedimento de quo, per l’inutile decorso dei cinque anni dall’inizio del procedimento stesso, da intendersi (per il significato originario del termine prescrizione, per il significato da esso assunto con il dettato dell’articolo 111 Costituzione , e per le connotazioni penalistiche del procedimento) come termine massimo per giungere ad una decisione definitiva; in subordine, denuncia la illegittimità costituzionale dell’articolo 51 del Rdl 1578/33 (convertito in legge 36/1934) per violazione degli articoli 3 e 111 della costituzione, in quanto fatti assai rilevanti. quali i reati penalmente sanzionati, sono soggetti a termini certi di prescrizione ex articolo 160, comma 3 Cp, mentre altri fatti meno rilevanti non sono soggetti ad alcuna limitazione temporale.
Il motivo, anche se la questione prospettata è stata sollevata per la prima volta con il ricorso per cassazione, è ammissibile, in quanto, da un lato, stante la natura pubblicistica della materia, la prescrizione dell’azione disciplinare è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio (Cassazione 9694/02 e 372/99); dall’altro, in tesi, la sua soluzione non comporta indagini fattuali (che sarebbero precluse in questa sede, come nella fattispecie decisa da Cassazione 10162/03), essendo pacifico che l’addebito all’avv. Lxxxxxx risale al maggio 1993.
Il motivo, tuttavia, è infondato.
L’interpretazione giurisprudenziale censurata si basa sul rilievo (non scalfito dai generici riferimenti del ricorrente) che l’interruzione e la sospensione della prescrizione in tema di illeciti disciplinari commessi dagli avvocati non trovano una completa disciplina nella legge professionale, poiché questa si limita, con l’articolo 51, a fissare il termine prescrizionale base, e, con l’articolo 44, a regolare il rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare. L’istituto dell’interruzione della prescrizione, tendendo a contemperare ragionevolmente le esigenze della potestà punitiva attribuita all’ordine professionale con le esigenze imposte dalla necessaria procedimentalizzazione del giudizio disciplinare, trova, dunque, piena giustificazione nel sistema. Esso, infatti, è posto a garanzia, soprattutto, del principio della contestazione e di quello del contraddittorio (Cassazione 6766/03).
In questo contesto risulta manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità, in quanto la previsione di un termine quinquennale di prescrizione, mentre delimita nel tempo l’inizio dell’azione disciplinare, vale anche ad assicurare il rispetto dell’esigenza che il tempo dell’applicazione della sanzione non sia protratto in modo indefinito, perché al procedimento amministrativo di applicazione della sanzione è applicabile non già la regola dell’effetto interruttivo permanente della prescrizione sancito dall’articolo 2945, secondo comma, Cc bensì quella dell’ interruzione ad effetto istantaneo (articolo 2943 Cc) (Cassazione 5603/95; 1081/97 e 8141/01). Come questa Corte ha già avuto occasione di rilevare (Cassazione 5603/95, cit.), non ha, quindi, pregio il rilievo relativo alla durata irragionevolmente maggiore (rispetto alla rilevanza penale) dei fatti addebitati in sede disciplinare. Si aggiunga che, data la non omogeneità delle situazioni poste a raffronto, per un verso, già nell’ambito di ciascun ordinamento professionale vi sono elementi differenziatori che giustificano una diversa specifica regolamentazione del procedimento disciplinare (cfr.Corte costituzionale, sentenza 145/76, sulla mancanza di un termine di prescrizione per l’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati, e Cassazione 478/00, sulla disciplina relativa agli illeciti commessi dai notai); per altro verso, i canoni adottati nella sua discrezionalità dal legislatore in materia penale (ove pure tuttora vige per taluni reati il criterio della imprescrittibilità) non possono essere assunti a paradigma in fattispecie aventi diversa natura.
2. Col secondo motivo si deduce la nullità assoluta, per violazione del principio di corrispondenza, del capo di incolpazione come formulato in relazione alla decisione impugnata; omessa e apparente motivazione; omesso accertamento di fatti essenziali; mancato accertamento dell’elemento psicologico; violazione del diritto di difesa; erronea interpretazione ed applicazione. il ricorrente sostiene, sotto un primo profilo, che, mentre il capo di incolpazione ha accentrato la contestazione sul fatto che l’avv. Lxxxxxx aveva registrato all’insaputa del collega la conversazione telefonica oggetto delle trattative, violando cosi il precetto deontologico, il Consiglio dell’Ordine di Roma avrebbe, invece, censurato il diverso fatto che un avvocato precostituisca elementi di prova registrando la voce dell’ignaro collega. Onde consentire all’incolpato di svolgere le sue difese sul punto, il capo di incolpazione avrebbe, perciò, dovuto contenere l’indicazione di un diverso addebito: che cioè l’avv. Lxxxxxx si precostituiva elementi di prova registrando la voce dell’ignaro collega. Sotto altro profilo, deduce che il Cnf avrebbe omesso di considerare e di accertare il contenuto delle frasi profferite nei suoi confronti e i motivi della registrazione, ritenendo, in contrasto coi principi affermati da questa Corte in altra occasione (sentenza 7072/93), ingiustamente irrilevanti i fatti e i motivi sottesi alla registrazione.
Entrambi i profili sono infondati.
Secondo principi consolidati di queste Su, da un lato, l’indagine volta ad accertare la correlazione tra addebito contestato e decisione disciplinare non deve essere effettuata alla stregua di un confronto meramente formale perché, vertendosi in tema di garanzie e di difesa, la violazione di tale principio non sussiste quando l’incolpato, attraverso l’iter processuale abbia avuto conoscenza dell’addebito e sia stato posto in condizioni di difendersi; dall’altro, la illiceità del comportamento deve essere valutata soltanto in relazione alla sua idoneità a ledere la dignità e il decoro professionale e la relativa valutazione è apprezzamento proprio del giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata (ex plurimis, Cassazione 1014/01).
Orbene, secondo la decisione impugnata, l’incolpato aveva violato, col suo comportamento, il principio di lealtà, che presiede il rapporto tra avvocati, avendo effettuato nascostamente ‑ come enunciava il capo di incolpazione contestatogli ‑ la registrazione di una conversazione telefonica con un collega. Il Cnf ha, infatti, chiarito che nel codice deontologico forense, recante norme della risalente e consolidata disciplina delle azioni e delle relazioni degli avvocati nell’esercizio della propria attività, per un verso, è consacrato il dovere di un comportamento ispirato a correttezza e a lealtà; per altro verso, è espressamente e specificatamente previsto il divieto di registrare una conversazione telefonica con il collega, giustificato dalla solidarietà professionale che presiede ai rapporti tra avvocati.
In questo contesto, attesa la regola generale di riferimento richiamata dalla decisione impugnata, non spetta a questa Corte, nell’esercizio del proprio potere di controllo di legittimità, sindacare l’apprezzamento della rilevanza del fatto assunto nel capo di incolpazione, che è di competenza degli organi disciplinari forensi (cfr. Cassazione 9216/03).
3. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Resta assorbito l’esame dell’istanza di sospensione della sanzione proposta dal ricorrente.
Nessun provvedimento sulle spese del giudizio di cassazione.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
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