Autostrada - mancato controllo dell'autovettura per la presenza del cane sulla carreggiata
Risarcimento dei danni - Autostrada - mancato controllo dell'autovettura per la presenza del cane sulla carreggiata - obbligo di munirne il percorso di una rete di protezione e di curarne la manutenzione
Risarcimento dei danni - Autostrada - mancato controllo dell'autovettura per la presenza del cane sulla carreggiata - obbligo di munirne il percorso di una rete di protezione e di curarne la manutenzione (Corte di cassazione Sezione III civile Sentenza 2 febbraio 2007, n. 2308)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione innanzi al tribunale di Torino del 3 aprile 1997 R.C. conveniva in giudizio la società Autostrada Torino-Milano s.p.a. per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni conseguenti al sinistro occorsogli in data 8 marzo 1996, nel quale alla guida della sua autovettura, nel tentativo di evitare di investire un cane che gli si era improvvisamente parato davanti, aveva perduto il controllo del veicolo e, sbattendo contro il cordolo di cemento alla destra della corsia di immissione in un'area di servizio, si era ribaltato più volte, riportando lesioni personali.
La società convenuta si costituiva e contrastava la domanda, che il tribunale rigettava con sentenza depositata il 10 maggio 2000.
Sull'impugnazione del soccombente provvedeva la Corte d'appello di Torino con la sentenza pubblicata il 27 giugno 2002, che, in accoglimento del gravame, condannava la società a risarcire all'appellante i danni all'autovettura ed alla persona, con rivalutazione ed interessi, ed a pagare le spese del doppio grado del giudizio.
I giudici di secondo grado, premesso che l'atto d'appello conteneva tutti gli elementi idonei per individuare l'oggetto dell'impugnazione ed i motivi del gravame, consideravano, nel merito, che, sebbene l'attore con la citazione introduttiva del giudizio avesse fondato la responsabilità della società convenuta sulla norma di cui all'art. 2043 c.c., non poteva dirsi preclusa la possibilità di valutare la fattispecie alla stregua del parametro di cui all'art. 2051 c.c., dato che la modifica del titolo costitutivo della domanda costituisce una mera emendatio, consentita qualora i fatti allegati rimangano immutati, potendo il giudice, nell'esercizio del potere che gli spetta di inquadrare la fattispecie nell'esatta sua disciplina giuridica, dare al rapporto controverso una qualificazione giuridica diversa da quella prospettata dalle parti.
La Corte di merito, di conseguenza, riteneva l'operatività nella specie dell'art. 2051 c.c. per la considerazione che l'attore non aveva allegato a sostegno dell'azione fatti diversi da quelli indicati in citazione.
Rilevava che la società proprietaria dell'autostrada aveva il preciso obbligo di munirne il percorso di una rete di protezione e di curarne la manutenzione con controlli diretti ad evitare danni ingiusti ai terzi, per cui, non essendo contestato il fatto che l'attore aveva perduto il controllo dell'autovettura per la presenza del cane sulla carreggiata, considerava detta circostanza, inconciliabile con la conformazione strutturale della rete autostradale, come una chiara violazione del dovere di custodia previsto dalla norma dell'art. 2051 c.c., con la conseguenza che, non avendo la società appellata fornito la prova che la presenza dell'animale sulla sede autostradale fosse riconducibile al fortuito ovvero al fatto del terzo, essa dovesse rispondere dei danni derivati all'appellante.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società Autostrada Torino-Milano s.p.a., che ha affidato l'accoglimento dell'impugnazione a tre motivi.
Ha resistito con controricorso R.C.
La società ricorrente ha presentato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo dell'impugnazione - deducendo la violazione e la falsa applicazione di legge per error in procedendo in relazione alle norme di cui agli artt. 132, 158 e 161 c.p.c. e 97 delle disposizioni di attuazione dello stesso codice nonché l'omessa, inesatta e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia - la società ricorrente denuncia l'inesistenza, l'inammissibilità ovvero la nullità insanabile dell'atto di appello, che, per l'impossibilità di identificare senza incertezze il provvedimento impugnato ed il giudice di primo grado che lo aveva emesso, avrebbe perciò impedito di porre in essere il necessario esame di raffronto tra la pronuncia ed i motivi del gravame.
La censura è infondata.
Il giudice di secondo grado, invero, in motivazione adeguata ed immune da vizi logici, ha spiegato, a fronte della relativa eccezione, le ragioni per le quali non vi era assolutamente incertezza circa l'individuazione della sentenza appellata (della quale erano indicati i nomi delle parti, il riferimento alla decisione del giudice di primo grado, l'oggetto della domanda proposta dall'attore con l'atto introduttivo del giudizio, le difese della parte convenuta).
La Corte territoriale ha anche precisato che l'atto d'appello aveva riassunto in maniera dettagliata i fatti di causa e l'iter argomentativo della sentenza del tribunale, aggiungendo anche che erano precise e specifiche le censure che l'appellante muoveva alla decisione di primo grado, di cui era stata prodotta copia autentica, sicché tanto bastava a fare ritenere soddisfatti i requisiti di validità dell'impugnazione, richiesti dalla norma dell'art. 342 c.p.c.
Di conseguenza - poiché l'interpretazione del contenuto dell'atto di appello, che è demandata istituzionalmente al giudice del merito e non è denunciabile in cassazione se congruamente motivata, è soggetta alle regole generali di ermeneutica e non può essere limitata alle espressioni letterali usate, ma deve tener conto delle sostanziali finalità perseguite dalla parte - deve escludersi, sulla scorta delle circostanze evidenziate dal giudice di secondo grado, la pretesa inammissibilità per genericità della citazione in appello e, ancor prima, la dedotta sua inesistenza, certamente non ravvisabile in presenza di atto idoneo a produrre gli effetti suoi propri.
Con il secondo motivo dell'impugnazione - deducendo la tardiva mutatio libelli e la violazione di norme di diritto in relazione agli artt. 2907 c.c., 101, 112, 113 e 183 c.p.c. e 3 e 24 Cost. - la società ricorrente assume che, avendo l'attore specificato in primo grado che l'azione da lui proposta era quella aquiliana ex art. 2043 c.c., la domanda di risarcimento dei danni, in quanto basata sulla previsione diversa di cui alla fattispecie dell'art. 2051 c.c., introdotta con la comparsa conclusionale in primo grado e in ordine alla quale non vi era stata accettazione del contraddittorio, costituiva domanda nuova preclusa in appello.
Il motivo non può essere accolto.
La questione relativa alla sussistenza o meno della mutatio libelli nel caso in cui, proposta domanda di responsabilità per danni ai sensi dell'art. 2043 c.c., il giudice pronunci, invece, condanna al risarcimento dei danni per la diversa ipotesi di responsabilità prevista dall'art. 2051 c.c., deve senz'altro, in tesi, essere risolta in senso positivo.
La giurisprudenza di questa Corte, infatti, nel rapporto che intercorre tra azione di responsabilità per danni a norma dell'art. 2043 c.c. ed azione di responsabilità a norma dell'art. 2051 stesso codice, ha già chiarito (Cass., Sez. un., 10893/2001; 7938/2001; 12329/2004) che l'applicabilità dell'una o dell'altra norma implica, sul piano eziologico e probatorio, diversi accertamenti e coinvolge distinti temi d'indagine, trattandosi di accertare, nel primo caso, se sia stato attuato un comportamento commissivo od omissivo, dal quale è derivato un pregiudizio a terzi, e dovendosi prescindere, invece, nel caso di responsabilità per danni da cosa in custodia, dal profilo del comportamento del custode, che è elemento estraneo alla struttura della fattispecie normativa di cui all'art. 2051 c.c., nella quale il fondamento della responsabilità è costituito dal rischio, che grava sul custode, per i danni prodotti dalla cosa che non dipendano dal caso fortuito (ex plurimis: Cass. 584/2001).
Tanto premesso, essendo evidente che a fronte di un determinato evento di danno diversa è la causa petendi dell'azione risarcitoria a seconda che si tratti di responsabilità del convenuto ai sensi dell'art. 2043 c.c. ovvero della diversa sua responsabilità ex art. 2051 stesso codice, il problema, nella specie, consiste nello stabilire se le due azioni siano state proposte entrambe, ancorché l'una subordinatamente al mancato accoglimento dell'altra, ovvero se R.C. abbia inteso proporne una soltanto in primo grado.
Al riguardo il giudice del merito ha affermato che, pure avendo l'attore in citazione richiamato a fondamento della sua pretesa la responsabilità della società convenuta ai sensi dell'art. 2043 c.c., non era, tuttavia, da escludere che i fatti esposti a sostegno della pretesa consentissero di qualificare l'azione proposta come ipotesi di responsabilità ai sensi dell'art. 2051 c.c., giacché rientrava nei suoi compiti dare al rapporto controverso una qualificazione diversa da quella indicata, con il solo limite di lasciare inalterati il petitum e la causa petendi e di non introdurre nel tema in contestazione nuovi elementi di fatto.
Di conseguenza, la Corte territoriale ha ritenuto che l'attore C. non aveva allegato a fondamento della domanda fatti diversi, essendo rimasti immutati quelli originariamente prospettati nella citazione.
In tale situazione, nella quale il petitum e la causa petendi venivano a concretare indifferentemente lo schema sia della responsabilità ex art. 2043 che di quella ex art. 2051 c.c., le due azioni risultavano proposte entrambe in via alternativa, per cui non è censurabile sul punto la decisione adottata.
Questa Corte, infatti, afferma, in indirizzo costante (da ultimo Cass. 11039/2006), che il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (art. 112 c.p.c.) non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti, autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonché in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed, in genere, all'applicazione di una norma giuridica, diversa da quella invocata dall'istante; ma implica soltanto il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene della vita diverso da quello richiesto del petitum mediato oppure di emettere qualsiasi pronuncia - su domanda nuova, quanto a causa petendi - che non si fondi, cioè, sui fatti ritualmente dedotti o, comunque, acquisiti al processo, bensì su elementi di fatto, che non siano stati, invece, ritualmente acquisiti come oggetto del contraddittorio.
Con il terzo motivo dell'impugnazione - deducendo la violazione e la falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 2043, 2051 e 2697 c.c. e 115 c.p.c. nonché l'omessa, contraddittoria e perplessa motivazione su un punto decisivo della controversia - la società ricorrente critica l'impugnata sentenza e denuncia che il giudice del merito:
a) si sarebbe discostato dall'indirizzo interpretativo che, in tema di danni subiti dall'utente di autostrada, esclude la responsabilità ai sensi dell'art. 2051 c.c. dell'ente proprietario o concessionario per la impossibilità di esercitare un controllo continuo ed efficace, che valga ad impedire l'insorgenza di cause di pericolo per i terzi;
b) avrebbe esposto una motivazione solo apparente circa l'operatività della norma di cui all'art. 2051 c.c. per avere considerato che la rete di recinzione non facesse parte dell'autostrada e per avere omesso di considerare che circostanze ben specifiche (quali, in particolare, il fatto che l'incidente si sia verificato nei pressi dell'area di servizio, il mancato riscontro da parte della polizia della strada di varchi nella rete di recinzione nel tratto dei dieci chilometri antecedenti e successivi dell'autostrada in entrambe le direzioni, la probabile provenienza del cane dall'area di servizio) avrebbero dovuto far concludere per la sussistenza del caso fortuito e la conseguente esclusione della responsabilità della società concessionaria anche ai sensi dell'art. 2043 c.c.
Anche l'ultimo motivo non può essere accolto per nessuno dei due profili in cui esso si articola.
Quanto al denunciato vizio di violazione di legge, di cui sub a), occorre rilevare che la più recente giurisprudenza di questa Corte (Cass. 3651/2006) ha chiarito che la disciplina di cui all'art. 2051 c.c. si applica anche in tema di danni sofferti dagli utenti per la cattiva od omessa manutenzione dell'autostrada da parte del concessionario, in ragione del particolare rapporto con la cosa che ad esso deriva dai poteri effettivi di disponibilità e controllo sulla medesima, salvo che dalla responsabilità presunta a suo carico il concessionario si liberi dando la prova del fortuito, consistente non già nella dimostrazione dell'interruzione del nesso di causalità determinato da elementi esterni o dal fatto estraneo alla sfera di custodia (ivi compreso il fatto del danneggiato o del terzo), bensì anche nella dimostrazione - in applicazione del principio di cd. vicinanza alla prova - di avere espletato, con la diligenza adeguata alla natura e alla funzione della cosa, in considerazione delle circostanze del caso concreto, tutte le attività di controllo, vigilanza e manutenzione su di esso gravanti in base a specifiche disposizioni normative e già del principio generale del neminem laedere, di modo che, pertanto, il sinistro appaia verificato per un fatto non ascrivibile a sua colpa.
È stato anche rilevato che la responsabilità presunta per danni da cose in custodia è configurabile anche con riferimento ad elementi accessori e pertinenze inerti di una strada, a prescindere dalla relativa intrinseca dannosità o pericolosità per persone o cose - in virtù di connaturale forza dinamica o per l'effetto di concause umane o naturali (c.d. idoneità al nocumento) - viceversa rilevante nella diversa ipotesi di responsabilità per danni da esercizio di attività pericolosa ex art. 2050 c.c., in quanto pure le cose normalmente innocue sono suscettibili di assumere ed esprimere potenzialità dannosa in ragione di particolari circostanze o in conseguenza di un processo provocato da elementi esterni.
Di conseguenza, è stato anche precisato che la prova, che il danneggiato deve dare per ottenere il risarcimento del danno sofferto per l'omessa o insufficiente manutenzione della strada, consiste nella dimostrazione del verificarsi dell'evento dannoso e del suo rapporto di causalità con la cosa in custodia ed essa può derivare anche per presunzioni, giacché la prova del danno è, di per sé, indice della sussistenza di un risultato anomalo, e cioè dell'oggettiva deviazione dal modello di condotta improntato all'adeguata diligenza che normalmente evita il danno, non essendo il danneggiato, viceversa, tenuto a dare la prova anche dell'insussistenza di impulsi causali autonomi ed estranei alla sfera di controllo propria del custode o della condotta omissiva o commissiva di costui.
L'impugnata sentenza ha deciso in conformità alle suddette regole di diritto, avendo essa accertato che l'incidente si era verificato per la presenza sulla sede autostradale di un cane, che, fuoriuscito dalla barriera che delimita le due carreggiate, stava attraversando la corsia percorsa da R.C., e che la società concessionaria (a carico della quale era il relativo onere) non aveva a dimostrare che l'immissione del cane era riconducibile ad ipotesi di caso fortuito, quale l'abbandono dell'animale in una piazzola dell'autostrada ovvero il taglio vandalico della rete di recinzione ovvero il suo abbattimento da precedente incidente, che non era stato possibile riparare con un intervento tempestivo.
Quanto al denunciato vizio di motivazione di cui al profilo sub b) del motivo di impugnazione, rileva questa Corte che trattasi di censura inammissibile in questa sede, giacché la parte ricorrente, piuttosto che evidenziare vizi logici dell'iter argomentativo esposto nella impugnata sentenza, tende, invece, ad ottenere dal giudice di legittimità il non consentito riesame delle fonti di prove per farne emergere una conclusione difforme da quella cui è pervenuta la Corte territoriale.
Il ricorso, pertanto, è rigettato e la soccombente società ricorrente è condannata a pagare le spese del presente giudizio di legittimità nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi euro 2100, di cui euro 2000 per onorari, oltre spese generali ed accessori come per legge.