Illegittimita' costituzionale dell'art. 30-bis, primo comma, cpc
Illegittimita' costituzionale dell'art. 30-bis, primo comma, del codice di procedura civile, ad eccezione della parte relativa alle azioni civili concernenti le restituzioni e il risarcimento del danno da reato, di cui sia parte un magistrato, nei termini di
Illegittimità costituzionale dell'art. 30-bis, primo comma, del codice di procedura civile, ad eccezione della parte relativa alle azioni civili concernenti le restituzioni e il risarcimento del danno da reato, di cui sia parte un magistrato, nei termini di cui all'art. 11 del codice di procedura penale. (Corte costituzionale Sentenza 25 maggio 2004, n. 147)
Corte costituzionale Sentenza 25 maggio 2004, n. 147
[...] nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 30-bis, primo comma, del codice di procedura civile, promosso con ordinanza del 15 aprile 2003 dal Tribunale di Bari sul ricorso proposto da Stefano Sernia ed altra, iscritta al n. 496 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 32, prima serie speciale, dell'anno 2003.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell'11 febbraio 2004 il Giudice relatore Franco Bile.
RITENUTO IN FATTO
1. - Con ordinanza del 15 aprile 2003 il Tribunale di Bari ha sollevato d'ufficio, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 30-bis, primo comma, del codice di procedura civile, introdotto dall'art. 9 della legge 2 dicembre 1998, n. 420 (Disposizioni per i procedimenti riguardanti i magistrati), secondo cui le cause in cui sono comunque parti magistrati - che in base alle disposizioni del Capo I del Titolo I del Libro I del codice di procedura civile sarebbero attribuite alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni - sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, avente sede nel capoluogo del distretto determinato ai sensi dell'art. 11 del codice di procedura penale.
L'ordinanza è stata resa in un procedimento civile concernente la cessazione degli effetti civili di un matrimonio concordatario, proposto congiuntamente da coniugi in regime di separazione consensuale omologata, ai sensi dell'art. 4, primo comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), come sostituito dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio). Nel corso del procedimento, il difensore delle parti aveva dichiarato che entrambi i ricorrenti erano magistrati e che uno di essi prestava servizio presso il Tribunale di Bari.
Il giudice rimettente ritiene anzitutto che la regola di competenza derogatoria, prevista dalla norma impugnata con generico riferimento alle "cause in cui siano comunque parti magistrati", si applica anche alla domanda congiunta dei coniugi per ottenere lo scioglimento del matrimonio civile o la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, che (secondo gli ordinari criteri di competenza) si propone al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell'uno o dell'altro coniuge.
Quella regola infatti - in ragione della sua finalità di salvaguardia dei valori di terzietà ed imparzialità, immanenti alla giurisdizione - prevale su qualsiasi altra competenza territoriale, pur inderogabile, stabilita non solo dalle disposizioni del Capo I del Titolo I del Libro I del codice di procedura civile, come vorrebbe la lettera dell'art. 30-bis, ma anche da qualunque altra disposizione di legge; e la sua violazione è rilevabile d'ufficio. D'altro canto, il procedimento introdotto dalla domanda congiunta di divorzio deve essere considerato "causa", pur se comporti "l'adozione del più veloce e semplificato rito camerale", in quanto le pattuizioni intervenute fra i coniugi sono assunte come presupposto della decisione del giudice, previa verifica della ricorrenza dei requisiti di legge; e pertanto esso rivela un pieno esercizio della giurisdizione. Del resto, l'applicabilità dell'art. 30-bis non potrebbe essere esclusa neppure se il procedimento divorzile a istanza congiunta avesse natura di giurisdizione volontaria, tenuto conto che anch'essa è soggetta alla regola di competenza in esame.
A sostegno della non manifesta infondatezza della questione, il Tribunale rileva che la Corte costituzionale - cui, anteriormente all'entrata in vigore della norma impugnata, era stata sottoposta la questione di costituzionalità della mancata estensione al processo civile del foro derogatorio previsto dall'art. 11 cod. proc. pen. per i procedimenti riguardanti magistrati - aveva riconosciuto (sentenza n. 51 del 1998) che tale estensione non poteva avvenire indiscriminatamente per tutti i processi civili - per la netta distinzione esistente tra il processo civile e quello penale - ma doveva disporsi dal legislatore, previa valutazione della diversità dei possibili oggetti del primo.
Tuttavia, osserva il rimettente che il legislatore, senza tener conto di siffatta indicazione, ha - con l'art. 30-bis cod. proc. civ. - esteso la competenza territoriale prevista dall'art. 11 cod. proc. pen. a tutte le cause civili e che proprio questa soluzione è stata censurata dalla Corte con la sentenza n. 444 del 2002, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 30-bis cod. proc. civ., nella parte in cui si applica ai processi di esecuzione forzata promossi da o contro magistrati.
Ad analogo apprezzamento, secondo il giudice rimettente, dovrebbe pervenirsi per la domanda congiunta di declaratoria di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario. Infatti l'applicazione dell'art. 30-bis a questo tipo di controversie determina l'allontanamento del processo dal foro opportunamente individuato dal citato art. 4, primo comma, nel luogo costituente il centro di vita di almeno uno dei coniugi. Ne consegue per essi non solo un aggravio delle condizioni della tutela giudiziale sotto il profilo materiale, in termini di tempi e costi, ma anche una maggiore difficoltà di perseguire l'attuazione dei loro diritti e di quelli della prole, ogni volta che il giudice ritenga necessario, o semplicemente opportuno, assumere informazioni dalle parti personalmente o ascoltare figli minori su quelle condizioni regolatrici della cessazione degli effetti civili del matrimonio, che direttamente li riguardino.
Perciò lo spostamento della competenza ai sensi della norma censurata sarebbe intrinsecamente irragionevole ed inoltre discriminerebbe - ai fini della realizzazione del diritto di azione - la situazione soggettiva del magistrato in servizio nel distretto del giudice ordinariamente competente rispetto a quella del magistrato in servizio altrove o del non-magistrato.
Conclusivamente, la scelta legislativa di sottoporre alla regola di competenza di cui all'art. 30-bis le controversie di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario proposte con domanda congiunta dei coniugi violerebbe gli artt. 3 e 24 della Costituzione.
Il rimettente auspica infine che, accolta la questione, questa Corte, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiari l'illegittimità consequenziale dello stesso art. 30-bis anche per la parte relativa all'applicazione del foro derogatorio alle domande congiunte di scioglimento del matrimonio, previste dallo stesso art. 4, primo comma, della legge n. 898 del 1970, nonché a quelle di omologazione della separazione consensuale ai sensi dell'art. 711 cod. proc. civ. o di modifica delle condizioni della separazione o del divorzio, ai sensi degli artt. 710-711 cod. proc. civ. e 9 della legge n. 898 del 1970.
2. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, tramite l'Avvocatura generale dello Stato, con una memoria in cui sostiene l'infondatezza della questione, in quanto la garanzia costituzionale della terzietà ed imparzialità, espressamente prevista dal nuovo art. 111 della Costituzione, impone al legislatore ordinario di assicurare che il giudice non sia condizionato da fattori pregiudicanti la sua estraneità rispetto alle parti o incidenti sulla sua libertà di giudizio.
Pertanto l'applicazione del foro derogatorio alla tipologia di controversie in esame sarebbe ragionevole, e dunque non sindacabile nel merito, e comunque non lederebbe il diritto di difesa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. - Il Tribunale di Bari dubita della conformità agli artt. 3 e 24 della Costituzione dell'art. 30-bis, primo comma, del codice di procedura civile, introdotto dall'art. 9 della legge 2 dicembre 1998, n. 420 (Disposizioni per i procedimenti riguardanti i magistrati), secondo il quale le cause in cui sono comunque parti magistrati - che, in base alle disposizioni del Capo I del Titolo I del Libro I del codice di procedura civile, sarebbero attribuite alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni - sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, avente sede nel capoluogo del diverso distretto determinato ai sensi dell'art. 11 del codice di procedura penale.
Il Tribunale è chiamato a decidere una controversia introdotta dal ricorso congiunto proposto da due magistrati, di cui uno in servizio presso l'ufficio rimettente, per ottenere la dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio da essi celebrato con rito religioso e regolarmente trascritto, ai sensi dell'art. 4 della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), come sostituito dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio). Il giudice ritiene la norma impugnata sicuramente applicabile al procedimento in corso, quale che ne sia la natura, di giurisdizione contenziosa o volontaria, poiché anche quest'ultima rientra, in base alla giurisprudenza di legittimità, nell'ambito di operatività della norma censurata.
2. - In tema di competenza territoriale per i giudizi riguardanti magistrati, l'art. 11 cod. proc. pen. prevedeva, nel testo originario del comma 1, che i procedimenti nei quali un magistrato assumeva la qualità di imputato o di persona offesa o danneggiata dal reato, che secondo le regole ordinarie sarebbero stati di competenza di un ufficio giudiziario del distretto di corte di appello in cui egli esercitava le sue funzioni, o le aveva esercitate al momento del fatto, erano di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, con sede nel capoluogo del distretto più vicino.
Questa Corte - investita di varie questioni sulla conformità a Costituzione della mancanza nel processo civile di una regola analoga - ha affermato (sentenza n. 51 del 1998) che l'esigenza di intervenire con strumenti legislativi a garanzia della terzietà e imparzialità del giudice ha pieno valore costituzionale in qualsiasi tipo di processo, ma nel contempo ha posto in risalto le differenze fra processo penale e processo civile, specie per la disomogeneità degli interessi in questo coinvolti, onde la molteplicità dei fori civili rispetto all'unico foro del commesso reato. E ne ha dedotto che l'estensione dell'art. 11 cod. proc. pen. ad ogni procedimento civile non solo non era costituzionalmente obbligata, ma avrebbe comportato una deroga generalizzata a plurime specifiche regole di competenza, ciascuna adeguata a garantire il pieno esercizio del diritto delle parti di agire e di difendersi in un singolo tipo di controversia, con il rischio di gravi compressioni di tale diritto.
Nel dichiarare perciò inammissibili le questioni, questa Corte ha precisato che sarebbe spettato al legislatore bilanciare, in relazione ai vari tipi di cause civili, le contrapposte esigenze di assicurare l'imparzialità del giudice e di garantire l'effettività del diritto alla tutela giurisdizionale, valutando in quali casi ricorresse la medesima ratio dell'art. 11 cod. proc. pen. (come del resto aveva già fatto con gli artt. 4 e 8 della legge 13 aprile 1988, n. 117, recante "Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati"), in quali invece non ricorresse, e in quali infine fosse realizzabile in modo diverso, con la previsione di un foro derogatorio appropriato alla specifica materia o con uno strumento processuale diverso dalla competenza.
A tale decisione ha fatto seguito la legge n. 420 del 1998, che ha disciplinato la competenza territoriale per i procedimenti riguardanti i magistrati sia in materia penale (tra l'altro modificando il criterio fissato dall'art. 11 cod. proc. pen. per individuare il giudice competente), sia in materia civile, introducendo l'art. 30-bis cod. proc. civ. Il primo comma di questa norma - in una prospettiva opposta a quella delineata da questa Corte - ha attribuito tutte indistintamente le cause civili, in cui siano comunque parti magistrati del distretto dell'ufficio giudiziario ordinariamente competente, al giudice del capoluogo del diverso distretto determinato secondo l'art. 11 cod. proc. pen., coevamente modificato. Il secondo comma ha previsto poi che il giudice di cui al primo comma diviene a sua volta incompetente se, in corso di causa, una parte assuma nel distretto le funzioni di magistrato.
Di tale disciplina è stata posta in dubbio la costituzionalità, in particolare sotto il profilo della sua applicabilità ai procedimenti esecutivi.
Questa Corte (sentenza n. 444 del 2002) - dato atto che il processo esecutivo è totalmente funzionale all'attuazione forzata del diritto consacrato nel titolo, onde il creditore procedente si trova in una situazione di vantaggio sul debitore - ha rilevato la correlazione fra tali caratteristiche e la scelta dell'art. 26 cod. proc. civ. di radicare la relativa competenza territoriale nel luogo ove la pretesa del creditore deve essere attuata. Ed ha rilevato che l'art. 30-bis - senza tener conto, per il suo carattere generale, delle caratteristiche del processo esecutivo - aveva sovrapposto ad una regola di per sé funzionale alla migliore garanzia del diritto di azione e difesa in tale processo una generale e indifferenziata regola derogatoria, così rendendo l'esercizio di quel diritto irragionevolmente più difficile, in violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione.
A seguito di tale sentenza, il processo esecutivo già esula dall'ambito di operatività dell'art. 30-bis cod. proc. civ.
In seguito, la norma è stata ancora impugnata ed il giudice rimettente - seppure all'esito di una motivazione non priva di incertezze sull'esatta portata della questione - ha chiesto una sentenza additiva che limitasse l'ambito di operatività della regola di competenza derogatoria alle sole cause civili conseguenti a procedimenti penali in cui un magistrato avesse assunto la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato o di persona offesa o danneggiata dal reato.
Questa Corte (sentenza n. 332 del 2003) - dopo aver confermato che l'estensione indiscriminata dell'art. 11 cod. proc. pen. al processo civile può sacrificare, per singoli tipi di cause, interessi e valori costituzionalmente rilevanti - ha dichiarato inammissibile la questione, non essendo suo compito decidere che la ratio dell'art. 11 cod. proc. pen. ricorre unicamente per le cause indicate dal rimettente.
3. - L'ordinanza in epigrafe ripropone la questione di costituzionalità dell'art. 30-bis cod. proc. civ., in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, con argomenti centrati sul carattere generale della prevista competenza derogatoria, che non terrebbe conto dei principi affermati dalle sentenze prima ricordate. Lo scrutinio di costituzionalità può quindi sviluppare pienamente la prospettiva da esse delineata.
4. - La questione è fondata, nei limiti di seguito precisati.
L'art. 30-bis cod. proc. civ., come già rilevato da questa Corte, si riferisce a tutte le categorie di cause civili e non solo a quelle per le quali possa riscontrarsi la medesima ragione giustificativa della regola di competenza derogatoria posta dall'art. 11 cod. proc. pen. E - sol perché in concreto ne sia parte un magistrato in servizio nel distretto del giudice ordinariamente competente - sottrae le controversie alla normale competenza territoriale e le assoggetta ad un diverso criterio di competenza, di portata generale, modulato sul medesimo art. 11.
La norma pertanto, nell'assumere come preminente l'esigenza di tutelare l'imparzialità-terzietà del giudice, la concepisce in termini del tutto astratti e generali. E quindi omette completamente la valutazione selettiva da questa Corte reputata necessaria per garantire alle pretese dedotte nei vari tipi di processo civile una tutela giurisdizionale pienamente correlata alle rispettive peculiarità, irragionevolmente confondendole in un'indifferenziata disciplina uniforme. Risulta così intaccato in misura rilevante il contenuto specifico che, in ciascun tipo, assume il diritto di agire e di difendersi in giudizio, sia della parte magistrato che delle altre parti.
Tanto basta a determinare la violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione.
5. - Peraltro la dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 30-bis cod. proc. civ. non coinvolge le altre norme che - in via autonoma e indipendente da esso - sottraggono alle ordinarie regole di competenza territoriale alcuni tipi di cause civili riguardanti magistrati e concernenti l'esercizio delle loro funzioni.
Nella categoria si collocano gli artt. 4 e 8 della legge n. 117 del 1988 - come modificati dalla legge n. 420 del 1998 - i quali rispettivamente prevedono che, per i danni cagionati da comportamenti, atti o provvedimenti emessi con dolo o colpa grave da un magistrato nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia, il giudizio risarcitorio promosso dal danneggiato contro lo Stato (in cui il magistrato può intervenire) e quello per rivalsa promosso dallo Stato contro il magistrato sono di competenza del tribunale del capoluogo del distretto determinato in base all'art. 11 cod. proc. pen.; e l'art. 3 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'articolo 375 del codice di procedura civile), che a sua volta rinvia allo stesso art. 11 per individuare il giudice competente a decidere sulla domanda di equa riparazione.
Sottraendo alle ordinarie regole di competenza territoriale e devolvendo al foro derogatorio identificato dall'art. 11 cod. proc. pen. siffatte controversie civili riguardanti magistrati e concernenti l'esercizio delle loro funzioni, queste norme intendono evitare ogni rischio di incidenza sulla serenità del giudice, conseguente alla preesistenza di rapporti personali con il magistrato interessato alla causa. E quindi si fondano palesemente proprio sulla valutazione di bilanciamento - alla quale questa Corte si è più volte riferita - fra i due interessi, entrambi costituzionalmente garantiti, all'imparzialità-terzietà del giudice ed all'effettività della tutela giurisdizionale nella specifica categoria di controversie.
6. - Allo stesso bilanciamento deve essere ricondotta la disciplina delle cause civili riguardanti magistrati e concernenti le restituzioni e il risarcimento dei danni da reato.
Ove sia esercitata nel processo penale mediante la costituzione di parte civile, l'azione è regolata dall'art. 11 cod. proc. pen., che sottrae all'ordinaria competenza territoriale ed assoggetta ad una regola di competenza derogatoria i procedimenti penali in cui un magistrato assuma la qualità di persona sottoposta ad indagine o di imputato, ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, e che sarebbero di competenza di un ufficio giudiziario del distretto in cui egli esercita le sue funzioni o le esercitava al momento del fatto.
L'azione può peraltro essere esercitata direttamente in sede civile. Ma ciò non toglie che - dovendo il giudice civile valutare il fatto di reato in via incidentale, così giudicando la stessa vicenda per la quale il legislatore, nel processo penale, ha previsto lo spostamento di competenza - anche in tal caso ricorrano le ragioni del bilanciamento di interessi cui si ispira la regola di competenza derogatoria posta dall'art. 11 cod. proc. pen.
Altrettanto deve dirsi per le cause civili concernenti il risarcimento del danno derivante da fatti di reato commessi dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni, che costituiscono una specie rispetto al genere più ampio disciplinato dall'art. 11 cod. proc. pen. Anche per tali cause - che, in base all'art. 13 della legge n. 117 del 1988, ed al rinvio alle "norme ordinarie" ivi contenuto, si propongono nei diretti confronti del magistrato, a differenza di quelle di cui all'art. 4 della medesima legge - sussistono le medesime ragioni del bilanciamento di interessi espresso dall'art. 11 cod. proc. pen.
Il perseguimento di questo risultato - già garantito dall'art. 30-bis cod. proc. civ., sia pure nel quadro di una disciplina generale di tutte le cause civili di cui sia parte un magistrato - sarebbe frustrato ove le fattispecie esaminate, per effetto di un'incondizionata dichiarazione di incostituzionalità di tale norma, rimanessero assoggettate alle ordinarie regole di competenza previste dal codice di procedura civile.
Pertanto dalla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 30-bis deve essere eccettuata la parte della norma relativa alle azioni civili concernenti le restituzioni e il risarcimento del danno da reato, di cui sia parte un magistrato, nei termini di cui all'art. 11 del codice di procedura penale.
7. - Rimane naturalmente riservata alla discrezionale valutazione del legislatore l'individuazione di ulteriori tipologie di controversie civili idonee, in base alle esposte considerazioni, ad essere assoggettate al foro derogatorio di cui all'art. 11 cod. proc. pen., nonché l'eventuale integrazione della disciplina del processo civile relativa all'incompetenza territoriale in esame.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 30-bis, primo comma, del codice di procedura civile, ad eccezione della parte relativa alle azioni civili concernenti le restituzioni e il risarcimento del danno da reato, di cui sia parte un magistrato, nei termini di cui all'art. 11 del codice di procedura penale.