Risarcimento danni - Errata diagnosi dei sanitari - Ente ospedaliero risponde direttamente della negligenza ed imperizia dei propri dipendenti
11/12/2003 Risarcimento danni - Errata diagnosi dei sanitari - Ente ospedaliero risponde direttamente della negligenza ed imperizia dei propri dipendenti - errore diagnostico e inadempimento - laprova della mancanza di colpa doveva essere fornita dal debitore della
Risarcimento danni - Errata diagnosi dei sanitari - Ente ospedaliero risponde direttamente della negligenza ed imperizia dei propri dipendenti - errore diagnostico e inadempimento - la prova della mancanza di colpa doveva essere fornita dal debitore della prestazione (Cassazione – Sezione terza civile – sentenza 11 dicembre 2003-4 marzo 2004, n. 4400)
Cassazione – Sezione terza civile – sentenza 11 dicembre 2003-4 marzo 2004, n. 4400
Svolgimento del processo
Con citazione notificata il 23 marzo 1993 Alice Tantardini e Claudio Bellasio convenivano davanti al Tribunale di Milano la Ussl 68 di Rho, chiedendone la condanna al risarcimento del danno loro derivante dalla morte di Angelo Bellasio, marito della prima e padre del secondo, verificatasi il 19 settembre 1992, all’ospedale di Rho.
Assumevano gli attori che il loro congiunto verso le ore 8 di detto giorno era ricoverato in ospedale in preda a forti dolori addominali; che i medici del pronto soccorso avevano diagnosticato un globo vescicolare, inviando il paziente nel reparto di urologia, che ivi era stato sottoposto a visita, con esito negativo; che il Bellasio decedeva in detto reparto alle ore 10,30 per rottura di aneurisma dell’aorta addominale; che la morte dello stesso era da addebitare ad errata diagnosi dei sanitari.
Si costituiva la convenuta, che resisteva alla domanda, chiedendone il rigetto.
Veniva disposta consulenza medico-legale.
Il Tribunale di Milano, con sentenza del 12 dicembre 1996, fatte proprie le conclusioni del ctu,accertava il colpevole errore diagnostico dei sanitari,che avevano omesso anche gli accertamenti strumentali necessari, ma rigettava la domanda per mancanza del nesso causale tra detto errore ed il decesso del Bellasio, in quanto, in caso di corretta diagnosi e conseguente intervento chirurgico presso altra struttura dotata di reparto di chirurgia vascolare, la sopravvivenza del paziente sarebbe stata possibile ma non probabile.
Proponevano appello gli attori. Resisteva la convenuta.
La Corte di appello di Milano, con sentenza depositata il 19 ottobre 1999, rigettava l’appello.
Riteneva la Corte territoriale che non vi erano elementi sufficienti per affermare con certezza la colpa dei sanitari, rilevando che potevano esservi tre ipotesi, a seconda dei dolori accusati dal Bellasio, per cui solo nella seconda e terza ipotesi, di dolori addominali acuti, sarebbe stata evidente la colpa dei sanitari nel non diagnosticare l’aneurisma con invio in altra struttura per l’intervento.
In ogni caso riteneva la Corte di merito che non era provato il nesso causale tra l’omessa diagnosi corretta dell’aneurisma e l’evento letale, poiché, sulla base delle risultanze della consulenza tecnica, tenuto conto del tempo necessario per eseguire gli accertamenti atti a diagnosticare l’aneurisma aortico addominale e tenuto conto che l’ospedale di Rho non era dotato di reparto di chirurgia vascolare e quindi del tempo necessario per il trasferimento in altro ospedale, l’inizio dell’intervento presso altra struttura si sarebbe potuto effettuare intorno alle ore 10 del giorno del ricovero, orario in cui il Bellasio perdeva conoscenza e si verificava la rottura dell’aorta, per cui il prospettato intervento, già di per sé a rischio di mortalità del 50%, tenuto conto anche dei gravi disturbi epatici del Bellasio, non poteva che avere remote possibilità di successo, e per ciò non apprezzabili, sotto il profilo del nesso causale in questione.
Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli attori, che hanno anche presentato memoria.
Resiste con controricorso la Gestione liquidatoria della disciolta USL 68 di Rho.
Motivi della decisione
1.1. Con il primo motivo di ricorso, i ricorrenti lamentano l’insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’articolo 36 n. 5 Cpc.
Assumono i ricorrenti che erratamente la sentenza impugnata ha escluso l’errore diagnostico dei medici, “inventando” tre possibili ipotesi della situazione di salute del Bellasio al momento del ricovero presso il pronto soccorso ospedaliero, sostenendo che in caso di dolori lievi all’addome non vi sarebbe stata colpa dei medici, mentre in caso di dolori medi o alti, sussisterebbe detto colpevole errore, segnatamente nell’ipotesi di dolori forti (ipotesi ritenuta più probabile dal giudice di appello), nel qual caso la diagnosi era possibile sulla base del solo esame clinico; che invece era indiscusso l’errore diagnostico dei sanitari; che, in ogni caso, i medici non avevano effettuato alcun esame strumentale; che la prova dell’assenza di colpa gravava in ogni caso sul debitore della prestazione, e quindi sulla Usl.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli articoli 1218 e 2697 Cc, oltre che degli articoli 1362 e segg. Cc.
Ritengono i ricorrenti che erratamente la sentenza di appello ha escluso il nesso di causalità materiale tra il comportamento colpevole dei medici dell’ospedale di Rho e la morte di Angelo Bellasio. Secondo i ricorrenti erratamente il giudice di appello ha ritenuto che la prova del detto nesso di causalità gravava sugli appellanti, mentre, trattandosi di responsabilità contrattuale dell’ente ospedaliero competeva a quest’ultimo fornire la prova che la prestazione professionale era stata eseguita idoneamente e che la morte del Bellasio era imputabile ad eventi imprevedibili.
Secondo i ricorrenti il medico risponde anche per colpa lieve ed, in ogni caso, la responsabilità è presunta a norma dell’articolo 1218 Cc; che sussiste detto nesso causale tra il comportamento colpevole del medico che, omette un intervento necessario ed il decesso del paziente, quando vi è un apprezzabile probabilità di successo.
2.1. Ritiene questa Corte che i due motivi di ricorso, essendo strettamente connessi, vadano esaminati congiuntamente.
Essi sono fondati e vanno accolti.
È pacifico che la responsabilità dell’Ente ospedaliero (o delle Ussl ed attualmente delle Asl) nei confronti dei pazienti ricoverati abbia natura contrattuale (cfr. Cassazione 7336/98 e 4152/95), anche per quanto attiene al comportamento dei propri dipendenti medici.
È irrilevante in questa sede stabilire se detta responsabilità sia conseguenza dell’applicazione dell’articolo 1228 Cc, per cui il debitore della prestazione , che si sia avvalso dell’opera di ausiliari, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di questi ovvero del principio di immedesimazione organica, per cui l’operato del personale dipendente di qualsiasi ente pubblico ed inserito nell’organizzazione del servizio determina la responsabilità diretta dell’ente medesimo, essendo attribuibile all’ente stesso l’attività del suo personale (cfr. Cassazione 269/97 e 10719/00).
2.2. Ciò che rileva, in questa sede, è che l’ente ospedaliero risponde direttamente della negligenza ed imperizia dei propri dipendenti nell’ambito delle prestazioni sanitarie effettuate al paziente. Ne consegue che in relazione all’attività sanitaria posta in essere dal medico, l’ente ospedaliero (o la Ussl) è contrattualmente responsabile se il medico è almeno in colpa.
Poiché la prestazione dovuta dall’ente ospedaliero, relativamente all’attività del personale medico, coincide con questa, anche la natura di questa prestazione coincide, poiché l’ente ospedaliero si obbliga tramite i suoi dipendenti medici a fornire un’opera professionale sanitaria.
Trattasi, quindi, limitatamente a questo profilo, di una obbligazione di mezzi e non di risultato (figura pacificamente riconosciuta in giurisprudenza, ma criticata da parte della dottrina).
2.3. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, da cui non vi è motivo di discostarsi, le obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si impegna alla prestazione della propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non al suo conseguimento.
Ne deriva che l’inadempimento del professionista alla propria obbligazione non può essere desunto, ipso facto, dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del tradizionale criterio della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale fissato dall’articolo 1176, comma 2, Cc - parametro da commisurarsi alla natura dell’attività esercitata.
Pertanto non potendo il professionista garantire l’esito comunque favorevole auspicato dal cliente, il danno derivante da eventuali sue omissioni in tanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell’omissione, il risultato sarebbe stato conseguito secondo un’indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, e non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici e giuridici (Cassazione 2836/02; 9617/99; 9617/99).
2.4. Questi principi vanno applicati anche in tema di responsabilità dell’ente ospedaliero per comportamento colposo dei propri medici dipendenti, sia pure con alcune specificazioni.
Infatti, una volta affermato che anche in questa ipotesi trattasi di prestazione di mezzi (prestazione di attività professionale dei medici dipendenti) e non di risultato, è solo in relazione alla prima che può sussistere l’inadempimento, mentre il mancato raggiungimento del risultato sperato non costituisce di per sé inadempimento, ma può costituire solo danno consequenziale all’inadempimento della non diligente prestazione o della colpevole omissione dell’attività sanitaria.
3.1. Osserva preliminarmente questa Corte che, posto che, in materia di responsabilità per colpa professionale, al criterio della certezza degli effetti della condotta si può sostituire, nella ricerca del nesso di causalità tra la condotta del professionista e l’evento dannoso, quello della probabilità di tali effetti e dell’idoneità della condotta a produrli, il rapporto causale sussiste anche quando l’opera del professionista, se correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto non già la certezza, bensì serie ed apprezzabili possibilità di successo (Cassazione 1286/99).
L’evoluzione giurisprudenziale in tema d’individuazione del nesso di causalità tra inadempimento della prestazione dedotta in contratto e danno - pur con qualche non condivisibile ritorno alla “certezza morale” (Cassazione 4044/94), o qualche esitazione tra “ragionevole certezza” e “ragionevole previsione” (Cassazione 722/99) evidenzia l’esigenza di superamento della concezione tradizionale: dal criterio della certezza degli effetti della condotta omessa a quello della probabilità di essi e dell’idoneità della stessa a produrli ove posta in essere; criterio per il quale il rapporto causale può e deve essere riconosciuto anche quando si possa fondatamente ritenere che l’adempimento dell’obbligazione, ove correttamente e tempestivamente intervenuto, avrebbe influito sulla situazione, connessa al rapporto, del creditore della prestazione in guisa che la realizzazione dell’interesse perseguito con il contratto si sarebbe presentata in termini non necessariamente d’assoluta certezza ma anche solo di ragionevole probabilità, non essendo dato esprimere, in relazione ad un evento esterno già verificatosi, oppure ormai non più suscettibile di verificarsi, “certezze” di sorta, nemmeno di segno “morale”, ma solo semplici probabilità d’un eventuale diversa evoluzione della situazione stessa (criterio desumibile, con gli adattamenti logici resi necessari dalle diverse situazioni di fatto considerate, da Cassazione 632/00; 1286/98; 3362/97; 5264/96; 11287/93).
3.2. In particolare e con riguardo alla sussistenza del nesso di causalità fra l’evento dannoso e la condotta colpevole (omissiva o commissiva) del medico, ove il ricorso alle nozioni di patologia medica e medicina legale non possa fornire un grado di certezza assoluta, la ricorrenza del suddetto rapporto di causalità non può essere esclusa in base al mero rilievo di margini di relatività, a fronte di un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, specie qualora manchi la prova della preesistenza, concomitanza o sopravvenienza di altri fattori determinanti (Cassazione 632/00).
Il ricorso al giudizio di probabilità si presenta poi, come una necessità logica, poiché si tratta di accettare o respingere l’assunto, secondo cui il danno si è verificato, perché non è stato tenuto il comportamento atteso.
Qui si tratta di stabilire se il comportamento mancato avrebbe evitato il danno e giudizi di certezza non possono essere formulati già in linea di principio.
3.3. Ciò che va specificato, applicando anche in questa sede civile risarcitoria, i principi già espressi in sede penale (Cassazione penale, Su, 30328/02, Franzese), tenuto conto che il nesso di causalità materiale va determinato a norma degli articoli 40 e 41 Cp, è che non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi dell’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, cosi che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’esistenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva o in ogni caso colpevole del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica.
4.1. Tutto ciò opera nel caso in cui il soggetto creditore agisca per il risarcimento del danno costituito dal mancato raggiungimento del risultato sperato, allorché ciò sia conseguenza, sia pure in termini di probabilità concrete, dell’inadempimento della prestazione del medico, perché omessa, errata o ritardata.
Tuttavia in una situazione in cui è certo che il medico ha dato alla patologia sottopostagli una risposta errata o in ogni caso inadeguata, è possibile affermare che, in presenza di fattori di rischio, detta carenza (che integra l’inadempimento della prestazione sanitaria) aggrava la possibilità che l’esito negativo si produca.
Non è possibile affermare che l’evento si sarebbe o meno verificato, ma si può dire che il paziente ha perso, per effetto di detto inadempimento, delle chances, che statisticamente aveva, anche tenuto conto della particolare situazione concreta (segnatamente se si era portato in ambiente ospedaliero).
4.2. Com’è stato ormai da tempo evidenziato, tanto da autorevole dottrina quanto dalla giurisprudenza di questa Corte, la chance, o concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, onde la sua perdita, id est la perdita della possibilità consistente di conseguire il risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura un danno concreto ed attuale (ex pluribus Cassazione 11340/98; 2167/96; 6506/85).
Siffatto, danno, non meramente ipotetico o eventuale (quale sarebbe stato se correlato al raggiungimento del risultato utile), bensì concreto ed attuale (perdita di una consistente possibilità di conseguire quel risultato), non va commisurato alla perdita del risultato, ma alla mera possibilità di conseguirlo.
4.3. Il principio è stato accolto in tema di risarcimento del danno subito da un lavoratore dipendente non ammesso dal suo datore di lavoro a partecipare ad una procedura concorsuale(ex multis Cassazione 11522/97; 11340/98; 4725/93).
Se il dipendente reclama come danno d’aver perso i vantaggi inerenti alla posizione superiore, alla sua domanda si applica il modello già visto in tema di inadempimento di prestazione professionale intellettuale, per cui la domanda va rigettata se le probabilità di vittoria erano scarse, mentre se erano elevate, gli si liquida tutto il danno che deriva dal non aver raggiunto la posizione superiore.
Se il dipendente reclama che è stato privato della possibilità di concorrere, si considera che il diritto leso è stato quello di partecipare e lo si risarcisce di una quota di danno commisurata alla possibilità di vittoria, che gli è stata riconosciuta (giurisprudenza costante, Cassazione 11877/98; 8470/96).
4.4. Il modello di giudizio basato sul sacrificio delle possibilità (la perdita di chances) è accolto, negli stessi termini dalla giurisprudenza di altri ordinamenti, segnatamente quello francese, in tema di responsabilità dei medici.
Una volta configurata la chance nei termini suddetti, ragioni di coerenza del sistema inducono a ritenere condivisibile una tale soluzione in tema di responsabilità dei medici anche nel nostro ordinamento, ispirandosi, anzi, essa alla ripartizione del carico del danno tra creditore e debitore, che si rinviene nel nostro ordinamento (ad es. articolo 1227 Cc).
4.5. Sennonchè ciò che occorre porre in rilievo è che la domanda per perdita di chances è ontologicamente diversa dalla domanda di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato. Infatti, in questo secondo caso la stessa collocazione logico-giuridica dell’accertamento probabilistico attiene alla fase di individuazione del nesso causale, mentre nell’altro caso attiene al momento della determinazione del danno: in buona sostanza nel primo caso le chances substanziano il nesso causale, nel secondo caso sono l’oggetto della perdita e quindi del danno.
Né può ritenersi, come pure sostenuto da parte minoritaria della dottrina, che con l’espressione “perdita di una probabilità favorevole” non si fa riferimento ad un danno distinto da quello finale, ma si descrive solo una sequenza causale nella quale la certezza del collegamento fatto-evento si evince dalla sola probabilità del suo verificarsi, ed il risarcimento viene adeguato alla portata effettuale della condotta illecita sul danno finale. La ricostruzione più convincente, sulla quale si allinea la giurisprudenza dominante in materia di lavoro (Cassazione 123/03; 734/02; 11340/98), dissocia invece il danno come perdita della possibilità dal danno per mancata realizzazione del risultato finale, introducendo cosi una distinta ed autonoma ipotesi di danno emergente, incidente su di un diverso bene giuridico, la possibilità del risultato appunto.
4.6. Ne consegue, nell’ambito della responsabilità dei medici, per prestazione errata o mancante, cui è conseguito il danno del mancato raggiungimento del risultato sperato, se è stato richiesto solo questo danno, non può il giudice esaminare ed eventualmente liquidare il danno da perdita di chances, che il creditore della prestazione sanitaria aveva, neppure intendendo questa domanda come un minus rispetto a quella proposta, costituendo, invece domande diverse, non ricomprese l’una nell’altra.
5.1. Nella fattispecie gli attori hanno domandato esclusivamente il risarcimento del danno per la morte del loro congiunto, conseguente ad assunto errore diagnostico ed omesso intervento chirurgico.
Ne consegue che il giudice di merito avrebbe dovuto valutare se esisteva un errore diagnostico dei medici ovvero un’omissione di comportamento dovuto sulla base dei normali protocolli di cura ed, in caso positivo, se , in assenza di questo errore o di questa omissione secondo una valutazione di probabilità, il Bellasio aveva ragionevoli probabilità di salvezza, in relazione alla fattispecie concreta.
Ritiene questa Corte che la sentenza impugnata viola il principio in tema di riparto dell’onere della prova ed è contraddittoria nella motivazione.
5.2. Infatti il giudice di appello assume che l’invio del paziente immediatamente in altra struttura sanitaria, dotato di reparto cardiochirurgico, per l’esecuzione di intervento chirurgico, costituiva l’unico rimedio possibile per prevenire la rottura dell’aorta; che il ricovero avvenne alle ore 8 e che il decesso avvenne alle ore 10,30, senza che fosse stata diagnosticata la patologia di cui era affetto il Bellasio e senza che lo stesso fosse sottoposto ad accertamenti strumentali nel predetto periodo.
L’errore diagnostico e la mancanza di accertamenti già di per sé integra inadempimento della prestazione sanitaria.
L’unico problema che residua è se tale inadempimento sia colpevole o meno.
Il giudice di appello formula tre ipotesi, a seconda dell’intensità dei dolori addominali del Bellasio (bassa, media o alta) e ritiene che solo nella prima ipotesi non sussisterebbe colpa, mentre essa sussisterebbe nelle altre due ipotesi, specificando peraltro che, in caso di dolori addominali acuti di forte intensità, non erano necessari neppure gli esami strumentali per ipotizzare un aneurisma addominale.
Il giudice di appello i pur ritenendo che l’ipotesi più, probabile fosse quest’ultima e che lo stesso ctu avesse optato per essa, ha poi assunto che non vi erano elementi di certezza in merito, stante la mancanza di precisi elementi di fatto.
Sennonché, vertendosi in tema di responsabilità contrattuale, essendo pacifico l’errore diagnostico e quindi l’inadempimento, la prova della mancanza di colpa doveva essere fornita dal debitore della prestazione, con la conseguenza che dell’incertezza sulla stessa se ne doveva giovare il creditore e non il debitore (la Usl), tanto più che lo stesso giudice di appello riteneva che l’ipotesi più, probabile era quella per cui il Bellasio presentava forti dolori addominali acuti, che avrebbero dovuto sulla base del solo esame clinico far diagnosticare un aneurisma addominale, con l’immediato inoltro del paziente presso un centro clinico specializzato.
5.3. Questo vizio motivazionale dell’impugnata sentenza in merito al comportamento colpevole dei sanitari del pronto soccorso nella diagnosi esatta e tempestiva si riflette sul successivo iter argomentativo di esclusione del nesso di causalità tra il comportamento dei sanitari ed il decesso.
Infatti il giudice di appello ha ritenuto che le possibilità di salvezza del Bellasio erano ridotte, poiché, essendo necessaria circa un’ora per effettuare tutti gli accertamenti strumentali di varia natura, il Bellasio non poteva giungere in un centro specializzato se non dopo 30 minuti ed entrare in sala operatoria alle ore lo, cioè circa mezzora prima del momento in cui mori.
Sennonché una volta osservato che gravava sulla convenuta provare che l’inadempimento (costituto dall’inesattezza e dall’intempestività della diagnosi) era incolpevole, ed avendo lo stesso giudice di merito ritenuto che l’ipotesi più, probabile era quella di una sintomatologia che deponeva già all’esame clinico per l’aneurisma e rendeva necessario il ricovero presso centro specializzato, l’esistenza o meno del nesso di causalità tra detto inadempimento e l’evento mortale, nei termini di probabilità secondo i principi sopra esposti, andava valutato in relazione a questo ben maggiore arco di tempo, nonché in relazione alle circostanze del caso concreto, tenuto conto che il Bellasio si era pur sempre affidato ad un reparto di pronto soccorso ospedaliero.
6. Il ricorso va, pertanto, accolto e va cassata l’impugnata sentenza, con rinvio, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Milano.
PQM
Accoglie il ricorso. Cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Milano.
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