Spa - azione di responsabilita' nei confronti dei propri amministratori
Diritto societario - articolo 384, comma 1, Cpc - Spa - azione di responsabilita' nei confronti dei propri amministratori - Competenza ordinaria del tribunale
Diritto societario - articolo 384, comma 1, Cpc - Spa - azione di responsabilità nei confronti dei propri amministratori - Competenza ordinaria del tribunale (Cassazione,– sentenza 18 febbraio-6 giugno 2003, n. 9090)
Svolgimento del processo
La Metallurgica Friulana Spa, con citazione notificata il 5 febbraio 1980, promosse dinanzi al Tribunale di Udine un’azione di responsabilità nei confronti dei signori Aldo Bxxxxxxxxxxx e Mario Lxxxxxxxxxx, che fino a qualche tempo prima avevano rispettivamente ricoperto la carica di presidente e di componente del consiglio di amministrazione della società, accusandoli di aver distratto in proprio favore beni e servizi acquisiti con denaro proveniente dal patrimonio sociale.
I convenuti contestarono gli addebiti, ma il tribunale, al termine di un’istruttoria durante la quale erano stati escussi testimoni ed espletate indagini tecnico-contabili, con sentenza emessa il 15 dicembre 1997, accolse la domanda e condannò i convenuti in solido a risarcire i danni subiti dalla società attrice, liquidati in complessive lire 21.666.136, oltre agli accessori ed alle spese di causa.
Chiamata a pronunciarsi sul gravame proposto dal signor Lxxxxxxxxxx e dagli eredi del signor Bxxxxxxxxxxx, frattanto deceduto, la Corte d’appello di Trieste, con sentenza depositata il 28 ottobre 1999, ha confermato integralmente la decisione di primo grado.
A sostegno di tale pronuncia la Corte ha osservato: che non aveva fondamento l’eccezione d’incompetenza per materia sollevata in via pregiudiziale dagli appellanti, giacché non rientrano nella speciale competenza per materia del giudice del lavoro le controversie aventi ad oggetto la mancata osservanza dei doveri imposti agli amministratori dalla legge e dal contratto sociale; che ugualmente priva di fondamento era, l’eccezione con cui gli appellanti avevano rilevato la mancata produzione in giudizio della deliberazione assembleare in dispensabile per l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità, dal momento che il consulente tecnico d’ufficio aveva attestato di aver preso visione del verbale riproducente il contenuto di tale deliberazione; che sulla legittimazione ad agire del liquidatore e legale rappresentante della Metallurgica Friulana non incideva la frattanto intervenuta cancellazione della società dal registro delle imprese, non derivando da ciò l’estinzione della società medesima fin quando siano ancora pendenti rapporti ad essa facenti capo; che, infine, le prove raccolte dal tribunale avevano fornito adeguata dimostrazione della fondatezza nel merito degli addebiti mossi agli ex amministratori.
Per la cassazione di tale sentenza ricorrono il signor Lxxxxxxxxxx e gli eredi del signor Bxxxxxxxxxxxi prospettando quattro motivi di censura. Resiste con controricorso la Metallurgica Friulana spa in liquidazione. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso pone l’interrogativo se l’azione sociale di responsabilità, esercitata da una società per azioni nei confronti di propri amministratori, a norma dell’articolo 2393 Cc, rientri o meno nella speciale competenza per materia del tribunale (originariamente del pretore), in funzione di giudice del lavoro, ex articolo 413 Cpc.
Il Tribunale di Udine, prima, e la Corte d’appello di Trieste, poi, lo hanno escluso; ma i ricorrenti censurano tale decisione - lamentando la violazione degli articoli 5 e 409 e seg. Cpc, nonché 2380 e segg. Cc - ed insistono nel sostenere che i rapporti tra l’amministratore e la società da lui amministrata sono compresi nel novero di quelli, cosiddetti “parasubordinati”, ai quali la disposizione dettata dal citato articolo 409, n. 3, Cpc rende applicabile il rito delle controversie in materia di lavoro, non solo quando sia l’amministratore ad avanzare pretese nei confronti della società, ma anche nel caso opposto.
A sostegno del loro assunto i ricorrenti richiamano la decisione assunta dalle Sezioni unite di questa Corte di cassazione con sentenza 10680/94.
1.1. La censura non è fondata.
Con la sentenza da ultimo indicata, risolvendo un precedente contrasto manifestatosi nella giurisprudenza delle sezioni semplici della stessa corte, le Sezioni unite hanno in effetti affermato che la controversia tra una società di capitali ed il proprio amministratore, in tema di rimborso di spese a quest’ultimo spettanti in relazione all’incarico svolto, rientra nella previsione dell’articolo 409, n. 3, Cpc, ed è quindi attratta nella sfera di competenza del pretore quale giudice del lavoro.
L’affermazione è stata formulata con riguardo ad una lite in cui si discuteva unicamente del preteso diritto dell’ amministratore di ottenere il rimborso delle spese sostenute per difendersi in sede penale da un’imputazione a suo carico elevata in conseguenza di attività svolte nella gestione dell’ente. A prima vista, tuttavia, essa parrebbe suscettibile di assumere una portata generale, perché muove da una premessa - il carattere “parasubordinato” del rapporto tra amministratore e società - da cui potrebbe discende che ogni eventuale lite derivante da quel medesimo rapporto (ivi compresa, dunque, l’azione sociale di responsabilità ipotizzata dall’articolo 2392 Cc) è destinata a ricadere nella competenza del giudice del lavoro e ad esser trattata con lo speciale rito disciplinato dagli articoli 409 e seguenti Cpc.
Ad un più attento esame questa conclusione, tuttavia, non regge. Incidentalmente, va detto che al principio enunciato dalle Sezioni unite sono state mosse critiche da una parte della dottrina. Si è, i infatti, obiettato che elemento essenziale per poter applicare la citata disposizione dell’articolo 409 è il carattere coordinato (oltre che continuativo) dell’opera prestata in favore di altri, e che in questo contesto la nozione di coordinazione va intesa in senso soprattutto verticale: cioè come attività almeno in qualche misura eterodiretta, o comunque soggetta ad ingerenze o direttive altrui, perché proprio questo giustifica l’equiparazione del prestatore d’opera “parasubordinato” a quello subordinato e l’assoggettamento di entrambi alla medesima disciplina processuale. E se ne è dedotto che il rapporto da cui gli amministratori sono legati alla società non è “parasubordinato”, non essendo la loro l’attività coordinata da altri che da loro stessi, giacché proprio gli amministratori sono titolari in via diretta ed esclusiva di un potere generale di compiere qualsiasi atto occorrente all’esercizio dell’impresa, con il solo limite delle deliberazioni gestorie eventualmente rimesse dall’atto costitutivo alla competenza dell’assemblea (articolo 2364, n. 4, Cc). Donde la conseguenza che gli amministratori, pur essendo di regola obbligati a dar corso ai deliberati dell’assemblea, non sono in via di principio soggetti, nel la loro attività di gestione dell’impresa, alle direttive assembleari (o di chiunque altro); ed anzi compete loro di valutare la legittimità degli anzidetti deliberati e di disattenderli, qualora appaiano illegittimi, così da non esporre la società e loro stessi al rischio di eventuale responsabilità verso i terzi.
Qualunque sia il fondamento generale di siffatti rilievi, importa qui sottolineare che, in parte anche per il contenuto di tali rilievi ed in parte per ragioni sistematiche insite nei principi da cui sono regolate le azioni di responsabilità nei riguardi degli amministratori sociali, pare certamente da escludere che il principio enunciato nella citata sentenza delle sezioni unite, in tema di competenza del giudice del lavoro, possa valere anche per l’azione sociale di responsabilità esperita nei confronti degli amministratori di una società di capitali. Ed, infatti, questa stessa Suprema Corte, con la successiva sentenza 1726/99, pur ammettendo, in via di principiò, l’assoggettabilità al rito del lavoro del rapporto tra società di capitali ed amministratore, ha ribadito la competenza ordinaria del tribunale nel caso di un’azione di responsabilità promossa contro tre amministratori, due dei quali rivestivano la qualifica di amministratore delegato mentre il terzo era un “azionista di riferimento” della società; e ciò non solo per l’impossibilità di configurare in capo a detti amministratori qualsiasi rapporto di lavoro subordinato o “para subordinato”, ma anche per le specifiche ed obiettive caratteristiche e per «la disciplina legislativa dell’azione sociale di responsabilità, come azione distinta, nel petitum e nella causa pretendi, rispetto al rapporto obbligatorio avente ad oggetto la prestazione d’opera dietro corresponsione di un compenso».
Se così non fosse, a ben vedere, si rischierebbe di determinare una singolare ed ingiustificabile divaricazione di rito e di competenza tra la predetta azione sociale di responsabilità, da un lato, e, d’altro lato, l’azione di responsabilità dei creditori sociali contemplata dal successivo articolo 2394 - almeno ove si attribuisca a quest’ultima carattere diretto e non meramente surrogatorio dell’azione spettante alla medesima società - e quella individuale spettante ai soci ed ai terzi a norma dell’articolo 2395: le quali non potrebbero che essere esercitate secondo le regole processuali ordinarie e dinanzi al giudice competente in base a tali regole generali- Con gravi problemi di coordinamento nei casi in cui le azioni previste dai citati articoli 2393 e 2394 siano esercitate cumulativamente dal curatore fallimentare, come previsto dall’articolo 146, secondo comma, del regio decreto 267/24.
Sì, aggiunga, poi, che l’articolo 48, secondo comma, n. 7, dell’ordinamento giudiziario (regio decreto 12/1941), come novellato dall’articolo 88 della legge 353/90, dispone che il tribunale siede in composizione collegiale «nei giudizi di responsabilità da chiunque promossi contro gli organi amministrativi e di controllo, i direttori generali e i liquidatori e in ogni altra controversia avente per oggetto rapporti sociali nelle società, nelle mutue assicuratrici e società cooperative, nelle associazioni in partecipazione e nei consorzi».
Naturalmente tale norma non può essere invocata come fonte diretta di disciplina della controversia in esame, instaurata dopo il 30 aprile 1995, ma è agevole scorgervi il significato ricognitivo di un principio già esistente: perché appare chiaro che la citata disposizione non ha certo inteso così attribuire ex novo al tribunale (anziché al pretore, allora giudice del lavoro) la competenza a provvedere sui giudizi sociali di responsabilità, ma quella medesima competenza ha presupposto, preoccupandosi unicamente, su tale base, di stabilire che il tribunale deve in questi casi giudicare in composizione non monocratica, bensì collegiale. Né da tale principio sì è discostato anche da ultimo il legislatore, che, nell’articolo 1 del recentissimo decreto legislativo 5/2003, ha confermato la necessità del giudizio collegiale per ogni tipo di azione di responsabilità proposta nei riguardi degli amministratori di società.
La decisione con cui il tribunale e la corte d’appello hanno affermato la propria competenza a decidere nella presente causa è dunque pienamente conforme a diritto.
2. Il secondo mezzo di impugnazione è volto a denunciare la violazione degli articoli 2393 e 2697 Cc, e segg. e 191 e segg. Cpc. I ricorrenti, in particolare, si dolgono del mancato accoglimento dell’eccezione da essi sollevata con riferimento alla mancata produzione in giudizio, ad opera della società attrice, della deliberazione assembleare con cui avrebbe dovuto esser autorizzato l’esperimento dell’azione sociale di responsabilità nei confronti degli ex amministratori.
L’eccezione è stata disattesa dalla corte d’appello, la quale ha osservato che vi sarebbe comunque prova certa dell’esistenza di tale deliberazione, avendone dato atto il consulente tecnico d’ufficio nella sua relazione, con l’indicazione anche del numero progressivo della pagina del libro dei verbali assembleari in cui essa è riprodotta, e che non v’ è ragione per porre in dubbio la validità di siffatta deliberazione, non avendo gli appellanti denunciato alcun vizio da cui essa possa essere eventualmente affetta.
A. Ciò ì ricorrenti ora obiettano che, dovendo il giudice anche d’ufficio verificare l’esistenza della deliberazione assembleare, in quanto presupposto di legittimazione dell’azione di responsabilità esperita contro gli ex amministratori, non si potrebbe prescindere dalla produzione in giudizio di una copia autentica della deliberazione medesima. Non sarebbe a tal fine sufficiente l’attestazione del consulente tecnico: in primo luogo perché la consulenza tecnica non e un mezzo di prova e non può dunque sopperire al difetto di acquisizione in giudizio di un documento che la parte attrice aveva l’onere di produrre; in secondo luogo, giacché una deliberazione assembleare non è un fatto materiale, bensì un atto giuridico, onde occorre al riguardo compiere una valutazione di idoneità e di legittimità non demandabile al consulente. Né gioverebbe, a tale ultimo riguardo, far leva sulla mancanza di una qualche specifica denuncia di vizi della deliberazione ad opera degli stessi odierni ricorrenti, dal momento che questi mai hanno avuto la possibilità di esaminare la deliberazione di cui si tratta.
2.1. Nell’esaminare le questioni così prospettate occorre premettere che, come già in precedenti occasioni questa corte ha rilevato, la deliberazione assembleare richiesta dal primo comma dell’articolo 2393 Cc per l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità è un elemento indispensabile al fine di integrare la legittimazione di colui che, in qualità di legale rappresentante della società, agisce nel processo (cfr. Cassazione 9849/96; e 9904/00). Gli amministratori o i liquidatori, che dì regola autonomamente dispongono del potere di deliberare ed esperire le iniziative processuali della società, nel caso dì questa particolare azione ne sono invece sprovvisti; dì talché occorre che la decisione di esercitare una siffatta azione sia assunta dall’assemblea.
La deliberazione dell’assemblea costituisce, dunque, un requisito indispensabile per integrare i necessari poteri sostanziali e processuali di chi agisce in giudizio quale rappresentante della società; e la sua esistenza, come per qualsiasi altro elemento destinato a dimostrare l’esistenza di siffatti poteri, deve essere vagliata dal giudice anche d’ufficio. Nondimeno, mancando un’espressa disposizione di legge in tal senso, è da ammettersi anche la possibilità che la deliberazione di cui si parla non venga formalmente prodotta in causa, ogni qual volta non vi sia contestazione tra le parti in ordine alla sua esistenza, onde la si possa considerare pacifica. In caso contrario, però, grava sullo stesso legale rappresentante della società attrice l’onere di dimostrare che l’azione di responsabilità è stata debitamente deliberata dall’assemblea. così da mettere il giudice in condizione di eseguire il necessario accertamento. Nella fattispecie in esame, come si deduce dalla motivazione della stessa sentenza qui impugnata, la società attrice non ha in alcun modo assolto tale onere, ed il giudice d’appello ha ritenuto provata l’esistenza della deliberazione assembleare con cui si è disposto l’esercizio dell’azione unicamente sulla base di quanto in proposito riferito dal consulente tecnico d’ufficio, il quale ne ha fatto menzione nella sua relazione indicandone gli estremi di reperimento nel libro dei verbali delle adunanze della società.
Reputa però la corte che la sola menzionata indicazione del consulente tecnico non sia idonea sorreggere la decisione adottata sul punto dal giudice di merito. È vero, infatti, che la consulenza tecnica - anche se non costituisce, in linea di massima, mezzo di prova, ma strumento per la valutazione della prova acquisita può assurgere al rango di fonte oggettiva di prova, quando si risolve nel 1 ‘accertamento di fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche (così, tra le altre, Cassazione 15630/00); ma ciò, appunto sul presupposto che tali fatti, per la loro intrinseca connessione con i, profili tecnici dell’indagine peritale, siano percepibili solo con ricorso a peculiari cognizioni tecniche. Altrimenti resta fermo che il consulente d’ufficio, pur in mancanza di espressa autorizzazione del giudice, può, ai sensi dell’articolo 194, comma 1, Cpc, assumere informazioni da terzi e procedere all’accertamento dei fatti accessori costituenti presupposti necessari per rispondere ai quesiti postigli, ma non ha il potere di accertare i fatti posti a fondamento di domande ed eccezioni il cui onere probatorio incombe sulle partì; di modo che, se egli sconfina dai predetti limiti intrinseci al mandato conferitogli, tali accertamenti sono nulli per violazione del principio del contraddittorio e, perciò, privi di qualsiasi valore probatorio, neppure indiziario (cfr., in tal senso, ex multis, Cassazione 6502/01).
Ciò appare tanto più vero quando, come nella specie, il fatto di cui il consulente riferisce non solo non ha una valenza tecnica inerente alla sfera di cognizione propria dell’indagine peritale, ma si risolve in un atto negoziale, il cui significato e la cui portata richiedono un’attività interpretativa che è quella specificamente propria del giudice ed in ordine alla quale le parti debbono esser poste a loro volta in condizione di interloquire.
Né è solo questione di denunciare o di accertare eventuali vizi che potrebbero aver inficiato la validità giuridica della deliberazione assembleare avente ad oggetto l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità. Si tratta anche di valutarne l’ampiezza e la portata, perché accorre poter stabilire se l’assemblea abbia inteso far carico agli ex amministratori di specifici comportamenti lesivi (e quali) o se abbia solo genericamente disposto che il liquidatore esperisca l’azione di responsabilità con riguardo qualsiasi possibile addebito, derivando da ciò i limiti della facultas agendi del legale rappresentante della società nel caso concreto. E non sembra possibile superare tali rilievi - come ha invece fatto la corte territoriale limitandosi ad osservare che i convenuti in responsabilità non hanno, per parte loro, neppure specificamente indicato se e quali obiezioni intendevano eventualmente muovere alla deliberazione assembleare la cui esistenza era stata attestata dal consulente tecnico. Di siffatta attestazione, come s’è detto, non può infatti farsi conto: anche e proprio perché non risulta sia stato in tal modo assicurato ai convenuti la possibilità di esaminare il menzionato documento assembleare e di svolgere rispetto ad esso le proprie eventuali difese.
Alla stregua delle considerazioni appena svolte il secondo motivo di ricorso risulta fondato. Ne consegue la cassazione dell’impugnata sentenza, restando in ciò assorbito l’esame dei rimanenti motivi del medesimo ricorso.
3. Appare evidente, sempre alla luce delle considerazioni che precedono, la possibilità di decidere la causa nel merito in questa stessa sede, senza necessità di ulteriori accertamenti, come consente l’articolo 384, comma 1, Cpc (novellato dall’articolo 66 della legge 353/90), accogliendo senz’altro l’impugnazione proposta dai convenuti in primo grado e perciò rigettando la domanda contro di loro avanzata dalla società attrice. Ragioni di equità, insite nell’atto che la decisione della lite è dipesa da elementi estrinseci all’effettivo accertamento degli addebiti mossi dalla società ai propri ex amministratori, inducono a compensare tra le parti le spese dell’intero giudizio.
PQM
La corte:
1) rigetta il primo motivo di ricorso;
2) accoglie il secondo motivo di ricorso e dichiara assorbiti gli altri;
3) cassa, in relazione alla censura accolta, l’impugnata sentenza della Corte d’appello di Trieste;
4) pronunciando nel merito, ai sensi dell’articolo 384, comma 1, Cpc, accoglie l’impugnazione proposta avverso la sentenza del Tribunale di Udine e pertanto rigetta le domande formulate dalla società La Metallurgica Friulana spa in liquidazione;
5) compensa integralmente tra le parti le spese di tutti i gradi del giudizio.
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