Comunione legale dei beni tra coniugi- validita' ed efficacia degli atti di disposizione diversi dagli immobili e dai mobili registrati anche se compiuti da uno dei coniugi senza il consenso dell’altro
09/03/2003 Comunione legale dei beni tra coniugi- validita' ed efficacia degli atti di disposizione diversi dagli immobili e dai mobili registrati anche se compiuti da uno dei coniugi senza il consenso dell’altro
Comunione legale dei beni tra coniugi - validita' ed efficacia degli atti di disposizione diversi dagli immobili e dai mobili registrati anche se compiuti da uno dei coniugi senza il consenso dell’altro (Corte di Cassazione, Sentenza n. 4033 del 9 marzo 2003)SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atti di citazione notificati rispettivamente il 19 ed il 28 ottobre 1982,. FxxxxxxL. conveniva, avanti al Tribunale di Firenze, la S.a.s. Pxxxxxxxxxxxxx..
L’attrice esponeva di essere coniuge separata del B. e, come tale, partecipe della comunione legale sulla azienda commerciale costituita da una pasticceria posta in Scandicci e si doleva del fatto che il marito, senza il consenso di lei, e, aveva alienato detta azienda alla S.a.s. pasticceria B.
Chiedeva dunque che venisse dichiarata l’invalidità di detta vendita, per violazione delle norme sulla comunione legale, ovvero che il marito fosse condannato alla ricostituzione della comunione stessa o al pagamento dell’equivalente in denaro.
In corso di giudizio, la Fxxxxxx proponeva istanza di sequestro giudiziario, per opporsi alla quale si costituiva la S.a.s. , pasticceria Txxxxxxx, quale cessionaria delle quote della S.a.s. ,Pxxxxxxxxx.
Successivamente, si costituiva anche il Bxxxxxxxx, resistendo alle varie domande.
Autorizzato il sequestro, la causa veniva rimessa al Collegio che, con sentenza in data 24 marzo 1993, non convalidava la misura cautelare e condannava il Bxxxxxxxx a pagare alla Fxxxxxx la somma equivalente al valore della quota di comunione sull’azienda; condannava, altresì, il Bxxxxxxxx a rifondere le spese di lite alla Fxxxxxx e quest’ultima a rifonderle alla S.a.s. Pasticceria Txxxxxxxxxx.
Avverso questa sentenza proponeva appello la Fxxxxxx, deducendo, con primo motivo, l’invalidità del atto dispositivo dell’azienda in comunione, per non essere stato l’alienante ( il Bxxxxxxxx) in buona fede, dal momento che era ben consapevole dell’esistenza del regime di comunione: ciò comportava , in applicazione del principio di cui all’art. 1153 c.c., ovvero del più generale principio che indice la disposizione dei diritti altrui, l’invalidità della vendita.
Con secondo motivo, l’appellante si doleva della mancata convalida del sequestro, che avrebbe dovuto conseguire all’accoglimento della domanda di invalidità dell’atto.
Con terzo motivo censurava l’omessa pronunzia sulla domanda di condanna al risarcimento del danno.
Infine, l’appellante si doleva della condanna alla rifusione delle spese di lite sostenute dalla Pasticceria Txxxxxxxx
Si costituivano tanto il Bxxxxxxxx che la Pasticceria Txxxxxxxx, contestando la fondatezza delle argomentazioni dell’appellante.
La Corte di appello di Firenze rigettava l’appello.
Ha proposto ricorso per cassazione la Fxxxxxx affidato ad un unico motivo di ricorso.
Il Bxxxxxxxx, la Pasticceria Bxxxxxxxx S.a.s. e la Pasticceria Txxxxxxxx S.a.s. non si sono costituiti in giudizio.
Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso la Fxxxxxx deduce il vizio di violazione di legge e la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata perché la Corte d’appello, omettendo di valutare la mala fede del Bxxxxxxxx al momento della vendita ed il fatto che questa aveva ad oggetto una azienda, non aveva dichiarato l’inefficacia della vendita stessa sancendo così la ricostruzione della comunione legale.
Il motivo è infondato.
Questa Corte ha già avuto occasione di porre in risalto la peculiarità della comunione legale dei beni tra coniugi, che consiste nel fatto che questa, a differenza della comunione ordinaria, come ha affermato la Corte Costituzionale con la sentenza 10/3/1988 n. 311 nel dichiarare infondata la questione di legittimità dell’arTxxxxxxxx 184 cod. civ., non è una comunione per quote in cui ciascuno dei partecipanti può disporre del proprio diritto nei limiti della quota, bensì una comunione senza quote nella quale i coniugi sono solidamente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e non è ammessa la partecipazione di estranei, sicchè la quota, caratterizzata dalla indivisibilità e dalla indisponibilità, ha soltanto la funzione di stabilire la misura entro cui tali beni possono essere aggrediti dai creditori particolari (art. 189 c.c.), la misura della responsabilità sussidiaria di ciascuno dei coniugi con propri beni personali versa i creditori della comunione (art. 190 c.c.) e, infine, la proporzione in cui, sciolta la comunione, l’attivo e il passivo saranno ripartiti tra i coniugi o i loro eredi (art. 194 c.c.), (Cass. 284/97).
Ne consegue che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, perché ciò avrebbe l’inconcepibile effetto di far entrare nella comunione degli estranei, può tuttavia disporre, in forza di detta titolarità solidale dell’intero bene comune (Cass. 284/97).
Alla luce di tale principio va osservato che il codice civile stabilisce, nell’ambito della comunione familiare, una disciplina differenziata per gli atti relativi ai beni immobili ed ai mobili registrati rispetto a quelli relativi a tutti gli altri beni ed in particolare a quelli mobili.
Per i primi, l’art. 184 comma 1 c.c., prevede per il loro compimento il consenso dell’altro coniuge, conformemente al modulo dell’amministrazione congiuntiva adottato dall’art. 180, comma 2, cod. civ. per gli atti di straordinaria amministrazione.
Tale consenso si pone come negozio (unilaterale) autorizzativo, ma non nel senso di atto che attribuisce un potere, bensì nel senso di atto che rimuove un limite all’esercizio di tale potere, con l’ulteriore conseguenza che esso rappresenta un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell’atto di disposizione la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o di bene mobile registrato, si traduce in un vizio del negozio da far valere, giusta il disposto del citato art. 184, entro l’anno dalla data di effettiva conoscenza dell’atto e, in ogni caso, dalla data della sua trascrizione oppure, ove l’atto non sia stato trascritto (o non sia trascrivibile) e non se ne sia avuta conoscenza prima dello scioglimento della comunione, dalla data di tale scioglimento (Cass. 284/97).
Per ciò che concerne invece gli atti di disposizione su tutti gli altri beni diversi dagli immobili e da quelli mobili registrati, in cui rientra la fattispecie del presente processo, l’art. 84 comma 3 c.c. non prevede il consenso dell’altro coniuge per l’atto di disposizione, ma pone soltanto a carico del coniuge che ha effettuato l’atto in questione l’obbligo di ricostituire, ad istanza dell’altro coniuge, la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, di pagare l’equivalente del bene secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione.
La norma in esame dunque, non stabilisce alcuna sanzione di annullabilità o di inefficacia per l’atto compiuto dal coniuge in assenza del consenso dell’altro, atto che resta quindi pienamente valido ed efficace, ma pone solo una obbligazione all’interno del rapporto coniugale a carico del coniuge che ha effettuato l’atto di disposizione per la ricostituzione in via specifica o per equivalente della comunione.
Tale disposizione corrisponde alla natura peculiare della comunione legale dinanzi evidenziata in virtù della quale ciascun coniuge dispone della piena titolarità di disposizione del bene comune per l’intero che, se per quanto concerne i beni immobili e quelli mobili registrati necessita del consenso dell’altro coniuge al fine di non rendere l’atto dispositivo annullabile, essendo tale atto equiparato ad un atto di straordinaria amministrazione ai sensi dell’art. 180 c.c. e come tale sottoposto a particolare vincolo cautelativo da parte del legislatore per impedire che uno dei coniugi possa unilateralmente depauperare il patrimonio familiare, per quanto concerne, invece, gli atti di disposizione degli altri beni non necessita del consenso predetto perché quest’ultimo, in ragione, in generale della minore rilevanza economica di tali beni costituirebbe soltanto un intralcio alla normale amministrazione e gestione della comunione familiare con grave ostacolo alla micro attività economica della famiglia che si esplica nella vita quotidiana.
Discende da ciò che tutti gli atti di disposizione di beni in comunione familiare diversi dagli immobili e dai mobili registrati sono pienamente validi ed efficaci anche se compiuti da uno dei coniugi senza il consenso dell’altro.
In virtù di tale o principio appare di tutta evidenza, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, che nella fattispecie in esame non può trovare alcuna applicazione l’art. 1153 c.c. che si riferisce agli acquisti di beni mobili a non domino, dal momento che il coniuge alienante non solo è proprietario del bene mobile rientrante nella comunione familiare ma è titolare anche del pieno potere di disponibilità dello stesso con l’ulteriore inevitabile conseguenza della totale irrilevanza dell’accertamento degli stati soggettivi di buona o mala fede del disponente e degli acquirenti.
Il ricorso va in conclusione rigettato.
Non si procede a liquidazione di spese non avendo i resistenti svolto attività difensiva.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.