Intercettazioni telefoniche presupposti di urgenza e inidoneita' o insufficienza degli impianti disponibili in Procura
Intercettazioni telefoniche presupposti di urgenza e inidoneita' o insufficienza degli impianti disponibili in Procura - Necessaria la motivazione del il PM
Roma, 24 marzo 2006 - Intercettazioni telefoniche presupposti di urgenza e inidoneità o insufficienza degli impianti disponibili in Procura - Necessaria la motivazione del il PM (Cassazione , SS.UU. penali, sentenza 29.11.2005 n. 2737)
Osserva:
1. Il 26 febbraio 2004 il Tribunale del riesame di Milano confermava l’ordinanza del G.I.P. del Tribunale della stessa città, in data 5 febbraio 2004, con la quale a Francesco Antonio C. era stata imposta la misura della custodia cautelare in carcere per imputazione di cui all’art. 74 D.P.R. n. 309/1990 (n. 1 della rubrica) e per altre cinque imputazioni (nn. 2, 17, 17a, 35, 44 delle rubrica medesima) di cui all’art. 73 dello stesso D.P.R .
Nel pervenire alla resa statuizione, i giudici del merito – premesso che “le indagini si svolgevano prevalentemente attraverso intercettazioni telefoniche ed ambientali nonché servizi di osservazione” – disattendevano, tra l’altro, alcune eccezioni difensive di inutilizzabilità degli esiti delle conversazioni captate.
Rilevavano, in particolare, che, “in effetti, gli originari decreti che disponevano le intercettazioni telefoniche e autorizzavano l’utilizzo di impianti diversi da quelli in dotazione situati presso la Procura, erano sprovvisti di motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi (inidoneità o insufficienza degli impianti e ragioni di eccezionale urgenza) che portavano a ritenere impraticabile la soluzione indicata in via generale dal codice di rito”.
Rilevavano, tuttavia, che “tale mancanza è stata ovviata dal P.M. con l’emanazione di un decreto datato 20 gennaio 2003 e, quindi, risalente ad epoca successiva alla ultimazione delle operazioni di intercettazione, nel quale espressamente motivava in ordine ai requisiti di cui sopra”; e, posto che “tale decreto, emesso in relazione a ciascuna utenza interessata, risulta regolarmente trasmesso a questo ufficio…” e lo stesso “appare dotato di tutti i requisiti legittimanti l’effettuazione delle intercettazioni secondo le modalità prescritte dall’A.G.”, ritenevano che “tale motivazione è stata fornita prima dell’utilizzazione delle intercettazioni, ossia prima che la richiesta della misura cautelare venisse valutata dal G.I.P., e quindi, tempestivamente”, sull’assunto – richiamante un arresto giurisprudenziale di questa Suprema Corte – secondo cui, quanto alla mancata osservanza dell’obbligo di motivazione sulle suindicate condizioni, “di tali ragioni può darsi conto in un provvedimento integrativo, successivo all’effettuazione, purché anteriore all’utilizzazione delle risultanze dell’operazione, in modo da consentire il controllo da parte del giudice”.
Ritenevano, poi, infondati i rilievi difensivi in ordine alla “effettiva carenza dei requisiti di necessità ed urgenza ovvero di inidoneità degli impianti ubicati all’interno della Procura”; e che “del tutto irrilevante appare, poi, la circostanza per cui le attrezzature utilizzate non appartenessero effettivamente alla P.G., essendosi questa limitata a noleggiarle da un’impresa privata, giacché il riferimento normativo ad impianti ‘in dotazione alla polizia giudiziaria’ deve ritenersi comprensivo di qualsiasi concreta disponibilità, ivi compreso l’utilizzo di strumenti presi a noleggio”. Disattendevano, poi, un ulteriore rilievo difensivo (“carenza di motivazione dei decreti di intercettazione telefonica, redatti con mere clausole di stile e con acritico richiamo alle informative di reato”), rilevando che tali censure erano “del tutto generiche” e che, in ogni caso, “lo standard di motivazione adottato dal G.I.P…. sia pienamente rispondente ai requisiti in tema di motivazione dei decreti di intercettazione”, contenendo la richiesta del P.M. “riferimento a specifiche note dei ROS… alle quali sono allegate specifiche conversazioni…”, ed evocavano, al riguardo, la legittimità di una motivazione per relationem.
Rigettavano, infine, altri due rilievi difensivi, l’uno concernente la dedotta inutilizzabilità degli esiti delle disposte intercettazioni telefoniche “effettuate in data antecedente alla prima iscrizione a notizia di reato”, l’altro relativo alla dedotta inutilizzabilità degli stessi per omessa trasmissione della motivazione integrativa al Tribunale del riesame, a tale ultimo riguardo rilevando che “il decreto si trova ritualmente versato in atti”.
Nel merito, poi, ritenevano la sussistenza dei gravi indizi di reità in ordine a tutte le ipotesi di reato contestate, delle esigenze cautelari (a tale riguardo richiamando “integralmente la motivazione posta dal G.I.P. a fondamento della sua ordinanza”), la necessità ed adeguatezza della misura imposta.
2.0 Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso l’indagato, per mezzo del difensore, deducendo:
a) la “inutilizzabilità ex art. 271 c.p.p. per violazione degli artt. 266, comma 2, 267 e 268, commi 1 e 3, c.p.p., degli esiti delle intercettazioni ambientali e telefoniche”. Richiamato il passo della motivazione al riguardo esplicitato nel provvedimento impugnato, rileva che “è sotto gli occhi di tutti la deroga a quanto previsto dall’art. 268, 3° c., c.p.p.”, giacché “la motivazione relativa alla ‘inidoneità’ degli impianti ubicati presso la Procura della Repubblica è riconducibile ad una mera formula di stile priva di qualsivoglia valenza giuridica…”, essendo anche “lecito… domandarsi perché in oltre un anno di indagine non si sia posto riparo alle ‘quattro postazioni in avaria’”; che, quanto al “secondo requisito giustificativo della deroga alla norma che impone l’utilizzo degli impianti presso la Procura…, manca qualsiasi riferimento all’urgenza che giustifichi l’utilizzo degli impianti ubicati presso la Procura”, tenuto conto che “la c.n.r. a carico del Capennì è del 1998…, le intercettazioni sono state richieste oltre tre anni dopo…”. “La motivazione resa nell’impugnato ordinanza di custodia cautelare – prosegue il ricorrente – tesa a giustificare la mancanza nei decreti di intercettazione di una adeguata motivazione sui punti suindicati, è estremamente labile e confusionaria…”, ed “ancora più errata è l’affermazione riguardo alla possibilità di una motivazione ‘differita’…”, giacché “l’art. 125 c.p.p. non può essere letto in maniera parziale e isolata” e “allorquando il legislatore ha ritenuto che la motivazione di un provvedimento possa essere differita lo ha fatto espressamente come nel caso dell’art. 544 c.p.p….. Priva di valore giuridico è l’affermazione che si tratterebbe nel caso di specie di una mera imperfezione formale…”;
b) la “inutilizzabilità ex art. 271 c.p.p. per violazione degli artt. 268, comma 3, in relazione all’utilizzo nell’esecuzione delle intercettazioni disposte nel Proc. Pen. 1779/01 r.g.n.r. di impianti diversi da quelli indicati nell’articolo suindicato”. Le intercettazioni in questione – rileva il ricorrente – non sono state compiute “mediante impianti ubicati certo presso la sala ascolto del comando ROS di Catanzaro, ma con impianti presi in affitto dalla ditta Trevisan e IES…”, sicché deve ritenersi che “gli impianti utilizzati non fossero in dotazione alla Polizia Giudiziaria”, e “non si rinviene nella disciplina del codice alcuna norma che autorizzi il P.M. all’impiego di impianti appartenenti a privati”;
c) la “nullità ex art. 125, in relazione all’art. 268, comma 3°, c.p.p., del decreto integrativo. Nullità ex art. 309 c.p.p. per mancato deposito. La violazione dell’art. 267 c.p.p.”. Posto che il P.M. aveva ritenuto di integrare la motivazione dei decreti dispositivi delle intercettazioni, depositando presso l’ufficio G.I.P. un atto in data 20 gennaio 2003”, “non vi è alcuna norma che preveda l’integrazione di atti depositati a supporto di una richiesta di ordinanza di custodia cautelare…”; quanto al riguardo ritenuto dal provvedimento impugnato “stride con la disciplina di cui all’art. 125 c.p.p. che impone l’obbligo di motivazione dei provvedimenti…” e “sotto questo aspetto l’atto è sicuramente abnorme”. Inoltre – incalza il ricorrente -, “sia il decreto di autorizzazione alle intercettazioni sia quelli successivi di proroga sono caratterizzati da una evidente e poco contestabile carenza di motivazione…”;
d) “effetti della declaratoria di inutilizzabilità. Trasmissibilità agli atti successivi”. Premesso che “l’inutilizzabilità, chiariscono la dottrina e la giurisprudenza, è una sanzione che colpisce quegli atti posti in essere in violazione di un obbligo imposto dalla legge…, non vi è alcun dubbio come, l’inutilizzabilità dichiarata delle intercettazioni, ai sensi del combinato disposto degli artt. 191 e 271 c.p.p., provochi quella situazione di ‘radicale illegittimità’ dei risultati dell’attività che si ripercuotono immancabilmente su tutta l’attività posta in essere successivamente e che ha trovato in essa la condicio sine qua non”;
e) la “inutilizzabilità ex art. 271 per violazione dell’art. 267 c.p.p. degli esiti delle intercettazioni disposte con i decreti autorizzativi e dispositivi delle intercettazione nell’ambito del procedimento in esame in relazione ai presupposti e ai gravi indizi di reità”. Rileva, al riguardo, che “nessun indizio autonomo rispetto a quelli acquisiti con l’attività di intercettazione” era stata “posto a fondamento della richiesta di intercettazione prima e dell’ordinanza di custodia cautelare poi”;
f) la “inutilizzabilità delle intercettazioni effettuate in data antecedente alla prima iscrizione a notizia di reato degli odierni indagati”. Posto che “il provvedimento di iscrizione nel registro degli indagati del (omissis) e dei suoi presunti sodali reca la data del 27.03.2001…, l’intera attività di indagine pregressa – ivi comprese le intercettazioni del 2000 -, in assenza di un formale provvedimento di iscrizione degli indagati ed in assenza di qualsivoglia continuità investigativa sancita formalmente e consacrata in atto valido, toglie efficacia ed impone l’inutilizzabilità di ogni attività svolta in precedenza”;
g) la “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 273 c.p.p. in relazione agli artt. 192, commi 3 e 4, e 195, comma 7, quanto ai gravi indizi di colpevolezza. L’irragionevole disparità di trattamento adoperata nei confronti di taluni indagati. I singoli capi d’imputazione e la loro riferibilità a (omissis) Francesco Antonio. L’insussistenza delle esigenze cautelari. L’identificazione. La mancanza di riscontri obiettivi”. Rileva al riguardo il ricorrente, in sintesi, che difetterebbero, nella specie, i gravi indizi di reità, anche “in tema di valutazione della chiamata in correità ai fini cautelari”; che mancherebbe il “carattere individualizzante del riscontro”; che “esistono solo le intercettazioni a giustificare il grave provvedimento affittivo”; che, essendo la posizione del ricorrente e quella del coindagato a. “paradossalmente gemelle”, solo per il secondo, A., “la prognosi cautelare… è stata favorevole”, e, “in buona sostanza, ciò che si chiede nella presente istanza è che il metro di giudizio adoperato per il coindagato A. venga adeguato alle emergenze processuali del coindagato C.”. Conclude il ricorrente rilevando la “insussistenza dei presupposti di cui al reato di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti…”, e dei “singoli episodi contestati”.
2.1 Il ricorrente ha prodotto, per mezzo dei difensori, una “memoria difensiva”. Premette che “con decreto esecutivo n. 1/2000 del 10.1.2000 il P.M. disponeva l’intercettazione delle conversazioni sull’utenza cellulare contrassegnata dal codice IMEI 448835406146770 in uso al C., attraverso l’utilizzo delle attrezzature tecniche idonee fornite dalla ditta Trevisan di Trieste e RCS di Milano”, autorizzando tali operazioni di intercettazione “al di fuori degli impianti presso la Procura, collocando l’apparecchiatura nella sala di ascolto GOC di Vibo Valentia (e ciò perché, in relazione alla natura dell’apparecchio da intercettare, vi è assoluta inidoneità dell’attrezzatura installata in questa Procura della Repubblica, dovendosi collocare le attrezzature intercettanti a breve distanza dall’apparecchio da intercettare)”.
Ciò posto, rileva il ricorrente – richiamato il principio affermato da queste Sezioni Unite circa la applicabilità del disposto dell’art. 268.3 c.p.p. anche alle intercettazioni ambientali -, che tale principio “vale, a maggior ragione, nella fattispecie qui in esame, che riguarda una intercettazione di utenza cellulare mediante attivazione di relative linee telefoniche presso la sala ascolto…”; che, “in ogni caso, nella fattispecie, le apparecchiature sono state noleggiate da ditte private, e le medesime andavano collocate ed utilizzate non presso la sede del comando di P.G., ma nel luogo deputato dalla legge, e cioè presso la sala ascolto della Procura”; che la “paventata ‘necessità di collocare le attrezzature intercettanti a breve distanza dall’apparecchio’ appare del tutto inconferente, sia perché… tale necessità era oggettivamente insussistente, sia perché quel che conta… non è il luogo ove collocare le apparecchiature intercettanti, ma quello dove si effettuano le registrazioni, sia perché, comunque, nessuna differenza – sotto il profilo tecnico – avrebbe avuto collocare gli apparati presso la sala ascolto della GOC di Vibo Valentia, piuttosto che in quella della Procura”.
3.0 Il procedimento veniva assegnato alla IV Sezione penale di questa Suprema Corte, la quale, con ordinanza del 21 giugno 2005, ne disponeva la rimessione a queste Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618 c.p.p.. Rilevava, infatti, la sezione remittente che, dovendosi esaminare “in via preliminare – ed assorbente –“, il motivo di doglianza concernente il decreto integrativo del P.M. concernente la ammissibilità di “una motivazione che, anche se solo ex post, dia conto delle ragioni poste a fondamento della deroga alla regola generale che impone l’uso degli impianti installati presso la Procura della Repubblica”, su tale questione si era determinato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, alcune decisioni avendo sul punto concluso in senso positivo, altre in senso negativo.
3.1 Il Primo Presidente ha fissato l’udienza del 27 settembre 2005 di camera di consiglio per la discussione del gravame. In tale sede la Corte ha disposto la acquisizione di alcuni atti (come compiutamente indicati nella relativa ordinanza); a tanto adempiutosi, il processo è stato rifissato per l’odierna udienza.
4.0 E’ d’uopo, innanzitutto, rilevare che il provvedimento impugnato dà atto – come s’è detto – che “le indagini si svolgevano prevalentemente attraverso intercettazioni telefoniche ed ambientali nonché servizi di osservazione”, e che “le conversazioni – supportate da paralleli servizi di pedinamento e osservazione – consentivano altresì di ricostruire sia i referenti italiani ed esteri per l’approvvigionamento sia la rete di rivendita, unitamente alla delineazione della struttura operativa dell’associazione…”. Tali conversazioni sono state apprezzate, nel contesto dell’apparato argomentativo del reso provvedimento, e gli esiti di tali captazioni sono stati, quindi, richiamati a supporto motivazionale della ritenuta sussistenza di gravi indizi di reità sia in riferimento al contestato reato associativo, sia in riferimento ai singoli reati fine addebitati, donde la loro decisiva rilevanza in relazione alle questioni gravatoriamente proposte.
Afferma, poi, l’ordinanza impugnata che “gli originari decreti… erano sprovvisti di motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi… che portavano a ritenere impraticabile la soluzione indicata in via generale dal codice di rito”, e che “tale mancanza è stata ovviata dal P.M. con l’emanazione di un decreto in data 20 gennaio 2003…”.
5.0 Alla stregua di tale assunto, la prima – e pregiudiziale – questione che si propone, afferente al tema della utilizzabilità o meno degli esiti della svolta attività captativa (prospettata col primo e terzo motivo di ricorso, sub a) e c), supra), può così sintetizzarsi: “Se la motivazione del decreto del pubblico ministero di autorizzazione all’utilizzo di impianti di intercettazione diversi da quelli in dotazione della Procura della Repubblica (art. 268, comma 3, c.p.p.) possa essere adottata o integrata con un successivo provvedimento emesso dopo l’esecuzione delle operazioni, ma prima dell’utilizzazione dei risultati delle stesse”.
Su di essa, come richiama l’ordinanza di rimessione, è insorto un contrasto nella giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Suprema Corte. 5.1 Secondo un primo indirizzo (cfr. Cass., Sez. I, 3.5.1991, n. 2096; Sez. IV, 17.11.1999, n. 3986; Sez. II, 6.11.2002, n. 4261; id., Sez. VI, 25.9.2003, n. 49119; ecc.), deve ritenersi ammissibile la integrazione successiva da parte del pubblico ministero del decreto esecutivo delle operazioni di intercettazione, intervenuta anteriormente alla utilizzazione delle risultanze di tali operazioni.
5.2 Il diverso orientamento giurisprudenziale è stato espresso, inizialmente, da Cass., Sez. VI, 18.5.1994, ric. P.M. in proc. Bani, in CED Rv. 199091 (in fattispecie di decreto reso in “assenza di motivazione”), la quale – richiamato il disposto degli artt. 268.3 e 271 c.p.p. – ha rilevato che la lettera della legge è nel senso che, non solo le condizioni di fatto, ma anche le formalità stabilite per le intercettazioni eseguite mediante impianti diversi da quelli esistenti nelle Procure, e fra queste il provvedimento motivato del P.M., costituiscono condizioni per l’utilizzabilità processuale dei relativi esiti, sicché l’assenza di motivazione comporta la inutilizzabilità delle intercettazioni. “La motivazione – sottolinea, in particolare, la Corte – non può ridursi al rango di mera formalità, riguardando un provvedimento che, pur non giurisdizionale, incide direttamente su una sfera di libertà garantita dalla Costituzione”, ed è, quindi, il principale mezzo attraverso il quale il giudice può controllare la legittimità del provvedimento stesso.
Lo stesso orientamento è stato seguito da numerose altre decisioni (cfr. Cass., Sez. I, 20.3.1996, n. 1832; Sez. I, 7.10.1997, n. 11077; Sez. VI, 11.10.2004, n. 43170; ecc.)
Più diffusamente si è pronunciata Cass., Sez. I, 7.10.1997, n. 11077, ric. Bonavota ed altri, in CED Rv. 209163, la quale ha rilevato che le operazioni di intercettazione devono compiersi sotto il diretto controllo dell’autorità giudiziaria su autorizzazione motivata del giudice, tenuto ad uno scrupoloso bilanciamento dei due interessi costituzionalmente protetti da quella norma primaria; per assicurare tale effettivo controllo e prevenire abusi sono richieste ulteriori garanzie di natura tecnica, relative agli impianti ed ai servizi, tra cui quella di cui all’art. 268.3 c.p.p. , ed è quindi necessario garantire il controllo sulla legittimità del provvedimento autorizzativo e stabilire i limiti della utilizzabilità nel processo del materiale raccolto attraverso le intercettazioni.
6.0 La Corte Costituzionale, occupandosi più volte di questa materia, ha insistito nel rilevare che ogni compressione del diritto alla riservatezza deve trovare la sua fonte di legittimazione in un provvedimento motivato del giudice, con la conseguenza che a tale garanzia non possono essere sottratte le modalità concrete con le quali si procede alle autorizzate intercettazioni (cfr. Corte Cost., sent. 21.3.1973, n. 34; sent. 16.12.1992, n. 81/1993; ord. 7.4.2004, n. 275; ecc.).
7.0 Queste Sezioni Unite ritengono di dover far proprio questo secondo indirizzo giurisprudenziale per le ragioni d’ordine sistematico ed ermeneutico e con le puntualizzazioni che di seguito si chiariranno.
7.1 La possibilità di deroga circa l’uso delle apparecchiature nelle attività captative – che, di norma, devono essere compiute “esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella Procura della Repubblica” – esige, com’è noto, la sussistenza di due presupposti: che gli impianti presso l’ufficio giudiziario risultino “insufficienti o inidonei”, e che sussistano “eccezionali ragioni di urgenza” (come già rilevato da queste Sezioni Unite della Suprema Corte, nella sentenza del 26 novembre 2003, n. 919, ric. Gatto, l’aggettivazione di tali ragioni di urgenza, “eccezionali”, rende avvertiti che deve trattarsi di connotazioni più cospicue e pregnanti rispetto a quelle riferibili ai soli “casi di urgenza”, di cui all’art. 267.2 c.p.p., che abilitano il pubblico ministero a disporre direttamente l’intercettazione, con decreto motivato pur sempre soggetto, poi, alla convalida da parte del giudice, nei ristretti termini ivi indicati).
In presenza di tali due presupposti, a rendere legittima l’attività captativa per mezzo di impianti esterni all’ufficio giudiziario è, altresì, necessario che il magistrato renda apposito provvedimento al riguardo; non solo, ma è necessario anche che tale provvedimento sia motivato, come espressamente richiede la norma. Se per un verso, difatti, il decreto dà atto che la determinazione di avvalersi di impianti esterni all’ufficio giudiziario si appartiene al magistrato titolare del relativo potere, per altro verso solo la sua motivazione dà, a sua volta, contezza che il magistrato medesimo ha accertato la esistenza dei due suindicati presupposti, ha proceduto alla valutazione relativa “al contemperamento dei due interessi costituzionali protetti”, ha proceduto ad “un corretto uso del potere attribuitogli”, anche nell’ambito delle “altre garanzie richieste…, che attengono alla predisposizione anche materiale dei servizi tecnici necessari per le intercettazioni telefoniche”, alle “garanzie di ordine più propriamente tecnico”, sì da assicurare il necessario controllo “che si proceda alle intercettazioni autorizzate, solo a queste e solo nei limiti dell’autorizzazione”, per richiamare espressioni testuali usate nelle numerose pronunce della Corte Costituzionale. Si comprende perciò perché il Giudice delle leggi abbia ricordato di avere più volte sottolineato che l’atto dell’autorità giudiziaria con il quale vengono autorizzate le intercettazioni telefoniche deve avere un’adeguata e specifica motivazione su tutti gli aspetti, e quindi anche sulle modalità esecutive.
Posto, dunque che solo il “decreto motivato” (e, quindi, il provvedimento determinativo al riguardo unitamente alle ragioni che lo sorreggono) autorizza il ricorso a quegli strumenti operativi e rende legittima l’attività captativa che realizza in concreto quella “formidabile capacità intrusiva” che le è connaturata, non può non convenirsi - tanto fungendo da requisito ineludibile per l’espletamento di tale attività con quelle modalità tecniche -, che tale condizione deve essere assicurata ed assolta prima che l’attività medesima venga posta in essere: l’assolvimento di tale obbligo funge, difatti, da condizione legittimante la futura attività captativa, e non può, perciò, che precederla. Ne consegue, in sostanza, che, per potersi procedere alle operazioni captative per mezzo di apparecchiature diverse da quelle in uso all’ufficio giudiziario, il pubblico ministero deve, innanzi tutto, rendere al riguardo apposito provvedimento, nella indefettibile forma del decreto, ed assolvere nel contempo all’obbligo di dare motivata contezza della sussistenza di quei presupposti, giacché l’attività captativa svolta con quelle diverse modalità esecutive, derogatorie della regola generale, in tanto è legittima in quanto un provvedimento al riguardo sia stato reso ed esso dia contezza che quel previo dovuto controllo sia stato in effetti compiuto. Ed a fronte della suindicata ratio dell’istituto, come positivamente disciplinato in sede normativa e costituzionalmente orientato, non è dato ritenere la possibilità di uno iato temporale tra esecuzione della attività intercettativa e provvedimento motivato della parte pubblica, conclusione smentita dalla diversa espressa previsione normativa e dalla implicita regola sistematica che l’informa.
7.2 Poiché, dunque, quella attività di controllo e di valutazione da parte dell’organo inquirente è condizione necessaria per rendere legittima l’intercettazione eseguita con quelle modalità, quei profili valutativi e conseguentemente determinativi afferiscono ab imis, geneticamente, all’esercizio di quella attività con quelle modalità tecniche; in mancanza di tale dovuto controllo e conseguente delibazione, l’attività captativa è di per sé illegittimamente disposta con quelle modalità: e tale illegittimità si realizza nel momento in cui essa venga posta in essere senza quei dovuti controllo e pertinente delibazione - che devono essere non solo effettuati, ma costituire anche oggetto di previa ed espressa motivazione -, e conseguentemente attuata in violazione del precetto normativo, afferente alla garanzia della libertà delle comunicazioni telefoniche; il mancato adempimento di tale previa attività connota, quindi, di definitiva ed irreversibile patologicità l’attività in tal guisa posta in essere, patologicità che, sotto il profilo processuale penale che qui rileva, sortisce, poi, l’esito della inutilizzabilità delle relative acquisizioni, quale sua ineludibile conseguenza.
Ora, se per un verso il momento decisionale e giustificativo non può non essere ricondotto alla presenza formale e documentale di un provvedimento (il decreto), per altro verso, in tanto può ritenersi assolto l’obbligo di controllo ed in tanto la dovuta delibazione può ritenersi effettuata in ordine ad entrambe le suindicate condizioni richieste dalle legge, in quanto sussista al riguardo, pur essa nella dovuta e non surrogabile forma documentale del decreto motivato (come già rilevato da questa Suprema Corte, la motivazione “necessariamente deve essere fissata per iscritto”: Cass., Sez. I, 7.10.1997, n. 11077, ric.Bonavota ed altri), specifica e congrua esplicitazione delle ragioni evidenziate ed apprezzate; per converso, la assenza di motivazione al riguardo dà documentale contezza della mancanza di ogni esplicitata attività di controllo e conseguente delibazione al riguardo.
In sostanza, ciò che al riguardo si richiede dalla legge non è solo un provvedimento, nella forma del decreto, ma anche che tale provvedimento sia “motivato”, e solo tale decreto motivato – abilitando esso all’esercizio delle attività captative con modalità diverse da quelle di regola indicate - rende legittima l’attività che si intende intraprendere; l’art. 268.3 c.p.p. prescrive, infatti, che è solo “il provvedimento motivato” che abilita, in presenza di quelle indicate condizioni, al "compimento delle operazioni mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria"; ed ancor prima l’art. 15.2 Cost. prescrive che la limitazione della libertà e della segretezza delle comunicazioni “può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”.
7.3 Posto, dunque, che il controllo sulla sussistenza delle condizioni di legge che abilitano alla deroga in questione, e la conseguente motivazione delibativa al riguardo, deve precedere il compimento dell’atto – tanto ponendosi come presupposto legittimante il concreto compimento dell’atto medesimo -, una attività “integrativa” del pubblico ministero può legittimamente ipotizzarsi, e sempre nella richiesta forma documentale, solo nel caso in cui egli si determini a rendere la relativa dovuta motivazione al riguardo anche in momento successivo a quello in cui si sia, eventualmente, disposta l’attività intercettativa con quelle derogatorie modalità, ma tale motivazione deve intervenire, comunque, prima del compimento dell’atto, ossia prima che si proceda a quelle attività captative: è, difatti, il compimento dell’atto che segna il discrimine invalicabile entro cui la motivazione deve essere resa, ed in assenza di tale presupposto, che - come s’è detto - deve normativamente precedere il compimento dell’atto, questo è irreversibilmente posto in essere in mancanza del presupposto (provvedimento motivato) legittimante il ricorso a procedure derogatorie della regola generale.
In sostanza, proprio perché quel controllo e quella motivata delibazione sono condizioni che legittimano l’atto che si intende compiere, che sta per compiersi, essi non possono che precedere l’attività che si intende porre in essere, che essere preventivi rispetto al suo compimento. Ove tali obblighi di legge vengano assolti in epoca successiva al compimento dell’atto, non potendosi ritenere che i previ controlli e delibazione siano nondimeno intervenuti precedentemente, attesa la specifica e non surrogabile forma richiesta (il decreto motivato), tratterebbesi di un controllo e di una delibazione non più preventivi, idonei, cioè a legittimare un’attività che si intende compiere, ma successivi, intesi, semmai, a giustificare una attività già posta in essere; il controllo e la relativa motivazione sarebbero resi “ora per allora”, in violazione della norma, anche di rilevanza costituzionale, che vuole, invece, che tale controllo sia effettuato “allora”, in un momento che comunque precede l’attività captativa, legittimandola, non in un momento successivo, in cui l’attività è già stata posta in essere.
Non senza peraltro considerare – ma pure ultroneamente, rispetto a quanto sin qui rilevato – che ove tale esplicitato controllo intervenga a distanza notevole di tempo (nella specie, addirittura circa tre anni), la relativa affermazione motivazionale si risolve in un provvedimento postumamente giustificativo di un’attività già posta in essere, sostanzialmente autoreferenziale ed incontrollabile, per il risalire nel tempo di una situazione, variabile e cangiante nel suo decorso, che solo in quel distanziato momento temporale viene evidenziata, taciuta invece nel momento in cui avrebbe dovuto essere inequivocabilmente espressa, affermata, controllabile e controllata. La “integrazione” motivazionale del pubblico ministero dopo il compimento dell’atto, destinata ad essere rappresentata al giudice che deve decidere sulla utilizzabilità o meno delle acquisizioni intercettative, non può, dunque, colmare un vuoto motivazionale irreversibilmente determinatosi. 7.4 E proprio perché ogni delibazione in ordine al quomodo di tale attività intercettativa si appartiene solo al magistrato inquirente, il potere di integrazione motivazionale al riguardo - negli invalicabili termini suindicati, cioè prima del compimento dell’atto - è riservato al pubblico ministero, non al giudice (tanto meno in sede di riesame o di appello nel procedimento incidentale de libertate, allorché quella attività captativa sia stata già posta in essere).
Tanto perché non è dato, innanzitutto, al giudice, sotto un profilo di ordine generale, di integrare un atto di parte, ancorché pubblica; né - proprio per quella riserva di attribuzione delibativa al pubblico ministero - gli è dato, comunque, di sostituirsi a quest’ultimo nel rendere una motivazione giustificatrice, che quello non ha affatto reso, circa la adozione di una scelta tecnica nel compimento dell’atto, piuttosto che di altra. Torna anche utile al riguardo richiamare un principio già affermato dalle Sezione Unite di questa Suprema Corte nella sentenza del 28.12004, n. 5876, ric. Ferrazzi, nella quale si è rilevata la necessità inderogabile, da parte del pubblico ministro, di motivare, sempre e comunque, le ragioni probatorie che giustificano il decreto di sequestro, chiarendosi, quindi, che, qualora il pubblico ministero non abbia indicato, nel decreto di sequestro probatorio, le ragioni in concreto giustificatrici della misura di cautela reale, il giudice del riesame non è legittimato ad individuare, di propria iniziativa, il perimetro delle specifiche finalità del sequestro, così integrando il titolo cautelare mediante un’arbitraria opera di supplenza delle scelte discrezionali dell’organo di accusa, dallo stesso radicalmente e illegittimamente pretermesse. Ancorché affermato in ben diverse fattispecie e tematica, afferenti a provvedimento di sequestro, deve convenirsi, rifermandolo, sul principio generale, secondo il quale non è dato al giudice di surrogarsi al potere discrezionale dell’organo inquirente e di esplicitare e far propri profili motivazionali e giustificativi che si appartengono solo alla sfera di delibazione e discrezionalità della parte pubblica.
Al giudice è dato solo di valutare la motivazione resa alla stregua delle ragioni esplicitate, anche in riferimento ai principi già affermati da questa Suprema Corte in tema di motivazione per relationem, e di valutare, quindi, la congruità o meno dell’apparato giustificativo che sorregge la determinazione derogatoria assunta dal pubblico ministero, all’uopo delibando se la motivazione del decreto, prima del compimento dell’attività intercettativa, era o meno idonea e sufficiente a giustificare il ricorso ad apparati tecnici esterni all’ufficio giudiziario. Ed ove accerti la insussistenza di valida motivazione a tali fini giustificativi, l’attività posta in essere è inemendabile ed il giudice è tenuto a rilevare la inutilizzabilità delle acquisizioni captative.
7.5 Deve, dunque, affermarsi, il seguente principio di diritto: In tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di autorizzazione alla utilizzazione di impianti diversi da quelli in dotazione alla Procura della Repubblica, ai sensi dell’art. 268, comma 3, c.p.p., la motivazione del decreto del pubblico ministero, in ordine ad entrambi i presupposti di legge (la inidoneità o insufficienza degli apparati in uso all’ufficio giudiziario e la eccezionale urgenza) deve intervenire prima della esecuzione delle operazioni captative; il pubblico ministero può rendere la relativa motivazione, o integrarla, anche in momento successivo a quello in cui abbia, eventualmente, disposto l’esecuzione delle operazioni, ma comunque sempre ed in ogni caso prima che le operazioni medesime vengano eseguite.
Non è dato al giudice di emendare il decreto del pubblico ministero sostituendosi a lui nel rendere una motivazione non data dall’inquirente o di integrarla, appropriandosi di ambiti di discrezionalità delibativa e determinativa che spettano solo alla parte pubblica.
8.0 Posto, dunque, che nel caso che occupa non può tenersi conto degli atti integrativi del P.M. postumamente posti in essere, deve, nondimeno (ed alla stregua degli atti del procedimento, che si è abilitati a consultare denunziandosi un vizio in procedendo), delibarsi la sussistenza o meno di un congruo apparato giustificativo dei provvedimenti del pubblico ministero, che disponevano la utilizzazione di impianti esterni all’ufficio giudiziario; e, in tale contesto, la condivisibilità o meno dell’assunto del provvedimento impugnato - che appare, per vero, assiomaticamente espresso, senza farsi carico della compiuta esplicitazione e conseguente valutazione delle circostanze evidenziate nei relativi provvedimenti, in riferimento ai profili motivazionali di cui di seguito si dirà -, secondo cui “gli originari decreti che disponevano le intercettazioni telefoniche e autorizzavano l’utilizzo di impianti diversi da quelli in dotazione situati presso la Procura erano sprovvisti di motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi (idoneità o insufficienza degli impianti e ragioni di eccezionale urgenza) che portavano a ritenere impraticabile la soluzione indicata in via generale dal codice di rito”.
8.1 Giova al riguardo richiamare che questa Suprema Corte ha già avuto occasione di chiarire e puntualizzare quali siano i requisiti che rendono legittimo, sotto il profilo dell’apparato motivazionale minimo, il provvedimento del giudice (e considerazioni analoghe non possono non riguardare anche il provvedimento del pubblico ministero), che autorizzi o disponga le operazioni di intercettazione delle conversazioni telefoniche o tra presenti, che convalidi quelle disposte in via di urgenza, o che, ove occorra, le proroghi (Cass., Sez. Un., n. 21.6.2000, n.17, ric. Primavera).
E si è in tale occasione evidenziato che, innanzitutto, “ciò che rileva è che dalla motivazione fornita… si possa dedurre l’iter cognitivo e valutativo seguito dal giudice e se ne possano conoscere i risultati che debbono essere conformi alle prescrizioni di legge (...)”. Ed in tale contesto, la motivazione per relationem, ossia con rinvio ad altro atto del procedimento, è sempre ammessa purché essa: a) “faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria al provvedimento di destinazione”; b) “fornisca la dimostrazione che il decidente ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti alla sua decisione”; c) “l’atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall’interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica e, eventualmente, di gravame”.
In linea con tali criteri si è posta anche la sentenza di queste Sezioni Unite del 31.10.2201, n. 32, ric. Policastro, la quale, nell’affrontare il tema della conformità della motivazione del decreto del P.M. al parametro normativo, premesso che, in quella fattispecie, “in effetti non si è rinvenuta nel decreto esecutivo emesso dal pubblico ministero un’esplicita indicazione delle ‘eccezionali ragioni di urgenza’…”, ha ritenuto idoneo ad integrare tale motivazione il rinvio al passo del decreto autorizzativo del G.I.P. “in ordine alla situazione in atto di svolgimento dell’attività organizzativa dei reati-fine dell’associazione per delinquere”, indicativa della “gravità del pregiudizio per le indagini che soltanto la deroga potrebbe evitare”.
L’altra più recente sentenza, sul tema, di queste Sezioni Unite, del 26 novembre 2003, n. 919/2004, ric. Gatto, ha ulteriormente puntualizzato che la eventuale mancanza, nel decreto del P.M., di motivazione sulle “eccezionali ragioni di urgenza” può essere affrancata dal riferimento, contenuto nel decreto stesso, al provvedimento del G.I.P. che ha autorizzato le operazioni di intercettazioni, sempre che quest’ultimo contenga idonea giustificazione della sussistenza di tali ragioni di urgenza e, nel caso, agli atti cui, per relationem, si faccia riferimento, pur avvertendo – come si è sopra di già anticipato - che il rinvio, ancorché non richieda, ai fini della congruità e sufficienza della motivazione, formule particolari, non può prescindere dalla considerazione che le condizioni richieste per il decreto del giudice non coincidono con quelle imposte per il decreto del pubblico ministero, giacché il primo non comporta necessariamente l’esistenza delle “eccezionali ragioni di urgenza”, occorrenti, invece, per legittimare il secondo; sicché, in tanto può risultare utile il rinvio integrativo al primo provvedimento, in quanto dalla motivazione dello stesso emergano anche quelle specifiche, eccezionali, ragioni di urgenza (nella specie si è ritenuta immune da vizi di motivazione l’espressione “visto il decreto del G.I.P.”, sul rilievo che questo esplicitava una “situazione in atto di svolgimento dell’attività organizzativa dei reati fine dell’associazione”).
E, quanto alla inidoneità o insufficienza degli apparati captativi in dotazione all’ufficio di Procura, si è in tale sede puntualizzato che la motivazione relativa alla insufficienza o alla inidoneità degli impianti della Procura della Repubblica non può limitarsi a dare atto dell’esistenza di tale situazione, ma deve anche specificare la ragione della insufficienza o della inidoneità, sia pure mediante una indicazione sintetica, purché questa non si traduca nella mera riproduzione del testo di legge, ma dia conto del fatto storico, ricadente nell’ambito dei poteri di cognizione del P.M. che ha dato causa ad essa.
8.2 Risulta dagli atti del procedimento che:
a) il 4 gennaio 2000 il P.M. presso il Tribunale di Catanzaro richiese al competente G.I.P. l’autorizzazione a disporre operazioni di intercettazione relative all’utenza Codice IMEI 448835406146770 in uso a Francesco Antonio C., in riferimento ad ipotesi di reato di cui agli artt. 74 D.P.R. n. 309/1990, 416-bis c.p.; si richiamavano in tale richiesta “le motivazioni riportate nella nota della Sezione Anticrimine di Catanzaro n. 61/21–1998 datata 20.12.99”, allegata alla richiesta medesima, e si esplicitava che la captazione è “assolutamente indispensabile… in quanto lo strumento dell’intercettazione si palesa allo stato degli atti l’unico idoneo all’acquisizione delle prove”. In tale richiamata nota del suindicato organo di p.g. si evidenziava come le indagini venivano condotte in “un’area ad alto indice delinquenziale”, nella quale “la principale espressione criminale… viene individuata nella famiglia M. di Limbadi e nei suoi aggregati”; si rilevava che, anche a seguito di quanto accertato in altro procedimento conclusosi con sentenza di condanna nei confronti del precitato M. ed altri, “si è riusciti a dimostrare che le cosche mafiose operanti tra le province di Vibo Valentia e Reggio Calabria, accomunate da un unico disegno criminale, attraverso un interscambio di risorse, per diversi anni hanno gestito in perfetta sintonia tutte le attività illecite”; si rappresentava che “nel contesto di tale attività… veniva individuato in (omissis) Francesco Antonio… uno dei più fidati esponenti della citata famiglia”; si evidenziavano “quei rapporti di frequentazione che sono uno degli elementi base per dimostrare l’esistenza di una struttura associativa…”, in un “chiaro ed inequivocabile… contesto delinquenziale a cui appartiene il (omissis) ed all’interno del quale… ricopre una posizione di primo piano nella gestione degli affari illeciti”, ritenendosi, quindi, “le operazioni di intercettazione assolutamente indispensabili per la prosecuzione delle indagini…”. Si soggiungeva, altresì, che “in relazione alla particolarità delle indagini condotte ed al fine di avere un diretto collegamento con il personale dislocato sul territorio, le operazioni relative all’intercettazione richiesta saranno eseguite presso la sala ascolto di questa Sezione Anticrimine allestita all’interno dei locali del Gruppo Operativo Carabinieri Calabria di Vibo Valentia…”.
Il G.I.P., con decreto del 5 gennaio successivo, autorizzò il P.M. a disporre le richieste operazioni di intercettazione telefonica. E’ richiamata, in tale provvedimento, la “nota n. 61/21-1998 del 20.12.1999 della Sez. Anticrimine CC. Catanzaro”, dandosi atto che “lo strumento investigativo richiesto è assolutamente necessario per lo sviluppo delle indagini, dalle quali è emerso che il (omissis) mantiene costanti contatti con elementi di spicco dell’associazione mafiosa facente capo alla famiglia M. di Limbadi e, in particolare, con M. Giuseppe cl. ’60, di recente tratto in arresto per traffico di sostanze stupefacenti”.
Il 10 gennaio 2000 il P.M. emise “decreto di intercettazione di conversazioni o comunicazioni” del P.M., relativo a tale utenza (è il provvedimento specificamente richiamato nella memoria difensiva), col quale, “visti gli atti del procedimento… e, in particolare, l’autorizzazione in data 05.01.2000 del giudice per le indagini preliminari”, si autorizza “l’esecuzione della intercettazione attraverso l’utilizzo delle attrezzature tecniche idonee che saranno fornite dalla ditta Trevisan di Trieste e RCS di Milano”; inoltre, si “autorizza la P.G. delegata e l’ausiliario nominato ad effettuare la intercettazione al di fuori degli impianti siti in questa Procura della Repubblica, collocando l’apparecchio nella sala ascolto del GOC di Vibo Valentia (e ciò perché, in relazione alla natura dell’apparecchio da intercettare, vi è assoluta inidoneità dell’attrezzatura installata in questa Procura della Repubblica, dovendosi collocare le attrezzature ‘intercettanti’ a breve distanza dall’apparecchio da intercettare)”.
E’ in atti anche una nota, datata 10 gennaio 2000 (lo stesso giorno in cui il P.M. rese il suindicato provvedimento esecutivo), diretta al Procuratore della Repubblica di Catanzaro, con la quale “il sottoscritto app. Quattrocchi Rocco, … responsabile della sala ascolto ubicata all’interno di codesta Procura, fa presente alla S.V. Ill.ma che alla data odierna non vi è alcuna postazione libera, considerata la circostanza che 4 apparati sono in avaria”. Tale nota non è richiamata nel decreto esecutivo del P.M..
b) Il 3 marzo 2000 il pubblico ministero emise “decreto di intercettazione di conversazioni o comunicazioni in caso di urgenza”, relativamente all’utenza n. 0338-4579356 intestata a Francesco Antonio C., sempre in relazione ai suindicati titoli di reato, richiamando altra nota del R.O.S. CC. della Sezione Anticrimine di Catanzaro n. 61/32-1998; rilevava, quanto all’urgenza, che “fin dalle prossime ore potrebbero registrarsi conversazioni utili alle indagini”, e disponeva di “effettuare la intercettazione al di fuori degli impianti siti in questa Procura della Repubblica collocando l’apparecchiatura presso i locali del G.O.C. CC. di Vibo Valentia (e ciò perché, in relazione alla natura dell’apparecchio da intercettare, vi è assoluta inidoneità dell’attrezzatura installata in questa Procura della Repubblica, dovendosi collocare le attrezzature intercettanti a breve distanza all’apparecchio da intercettare)”. In tale nota, n. 61/32-1998, si evidenziava come, “a seguito di tale attività informativa, veniva delineata la figura di (omissis) Francesco Antonio…”, si dava conto dei “frequenti viaggi del (omissis) a Milano dove il medesimo si interessa al commercio di autovetture usate”, dei contatti dello stesso con Giuseppe M., “esponente di vertice dell’omonima famiglia mafiosa”, e Giuseppe F., “alias Mussuni” (Giuseppe F. era pur egli indagato nel presente procedimento, per la stessa imputazione di cui all’art. 74 D.P.R. n. 309/1990 e per reati-fine, in concorso con (omissis) ed altri); si dava conto del contenuto di alcune conversazioni captate; si rappresentava che “sin dalle prossime ore potrebbero evidenziarsi, in entrata od in uscita, conversazioni di rilevante valore probatorio, la cui mancata registrazione creerebbe notevoli pregiudizi all’attività investigativa…”; si rappresentava, infine, che, “in relazione alla particolarità delle indagini condotte ed al fine di avere un diretto collegamento con il personale discolorato sul territorio, le operazioni relative all’intercettazione richiesta saranno eseguite presso la sala ascolto di questa Sezione Anticrimine…”.
E’ in atti altra nota dell’app. Quattrocchi Rocco, datata 3 marzo 2000 (lo stesso giorno del decreto del P.M.), dell’identico tenore della prima (anche in tale attestazione si dà atto che “alla data odierna non vi è alcuna postazione libera, considerata la circostanza che 4 apparati sono in avaria)”: neppure tale nota è richiamata nel provvedimento del P.M..
Con provvedimento dello stesso 3 marzo 2000 il G.I.P. convalidò il decreto del P.M., rilevando che “le relative operazioni di intercettazione andavano predisposte con assoluta urgenza…”.
c) Il 7 aprile 2000 il P.M. emise altro “decreto di intercettazione di conversazioni o comunicazioni in caso di urgenza”, relativamente alla utenza n. 0338-1499058 in uso a (omissis) Francesco Antonio, e sempre in relazione ai suindicati titoli di reato.
In tale suo decreto il P.M. richiamava la “nota di prot. nr. 61/33-1998 del 07.04.2000 del ROS CC. Sezione Anticrimine di Catanzaro”; e riteneva che l’intercettazione “è assolutamente indispensabile per la prosecuzione delle indagini e che si versa in caso di urgenza potendo dal ritardo derivare grave pregiudizio per le indagini stesse in quanto fin dalle prossime ore potrebbero registrarsi conversazioni utili alle indagini”. Inoltre, autorizzava “l’esecuzione delle intercettazioni attraverso l’utilizzo delle attrezzature tecniche idonee che saranno fornite dalla ditta Radio Trevisan di Trieste”; e autorizzava “la P.G. delegata e l’ausiliario nominato ad effettuare la intercettazione al di fuori degli impianti siti in questa Procura della Repubblica collocando l’apparecchiatura presso i locali del GOC CC. di Vibo Valentia (e ciò perché, in relazione alla natura dell’apparecchio da intercettare, vi è assoluta inidoneità dell’attrezzatura installata in questa Procura della Repubblica, dovendosi collocare le attrezzature intercettanti a breve distanza dall’apparecchio d a intercettare)”.
La predetta nota n. 61/33-1998 del Raggruppamento Operativo Speciale della Sezione Anticrimine dei CC. di Catanzaro richiamava la precedente nota n. 61/21 del 20.12.1999. Rappresentava che nel corso delle intercettazioni precedentemente disposte ed eseguite “venivano documentati i frequenti viaggi del (omissis) a Milano, dove il medesimo si occupa del commercio di autovetture usate”; che “durante i vari periodi di permanenza a Milano del (omissis) venivano documentati diversi incontri ed una miriade di contatti telefonici tra il medesimo e tale F. Giuseppe, alias ‘Mussuni’ …, con precedenti penali per associazione a delinquere di tipo mafioso, traffico di sostanze stupefacenti ed altro” (si è sopra detto della qualità di coindagato di F.); che, “per meglio comprendere la personalità del C., si richiama nuovamente una conversazione… intercettata in data 08.02.2000, nel corso della quale si fa espresso riferimento ad un ingente quantitativo di sostanza stupefacente di tipo cocaina quantificata in kg. 1.5”. Si evidenziava l’urgenza di procedere alle richiesta attività captativa “in considerazione del fatto che sin dalle prossime ore sulla predetta utenza TIM in entrata ed in uscita potrebbero rilevarsi conversazioni dal rilevante valore probatorio, la cui mancata registrazione creerebbe sembra ombra di dubbio notevoli pregiudizi all’attività investigativa…”, e si richiamava ”il contesto criminale in cui è inserito a pieno titolo il C.…”.
E’ in atti altra attestazione dell’app. Quattrocchi Rocco, del tutto identica a quelle di cui sopra, variando solo la data, 7.4.2000 (anche qui si dice che “non vi è alcuna postazione libera, considerata la circostanza che 4 apparati sono in avaria”): neppure tale nota è richiamata nel decreto del P.M.. Con provvedimento del 7 aprile 2000 il G.I.P. convalidò il decreto del P.M., rilevando, tra l’altro, che “le relative operazioni andavano predisposte con assoluta urgenza… come da nota n. 61/33-1998 del 7.4.2000 della Sezione Anticrimine del R.O.S. Carabinieri di Catanzaro, alle cui motivazioni si rimanda e che fanno parte integrante del presente provvedimento”.
8.3 Ordunque, quanto al requisito della insufficienza o inidoneità degli apparati in uso all’ufficio giudiziario, è ben vero che nei provvedimenti esecutivi delle disposte attività di intercettazioni telefoniche non vengono richiamate le succitate note del responsabile della sala d’ascolto “all’interno di codesta Procura”, le quali davano esaustiva contezza della insufficienza di tali apparati tecnici, ivi evidenziandosi – come s’è detto – che “alla data odierna non vi è alcuna postazione libera, considerata la circostanza che 4 apparati sono in avaria” (situazione, questa, che, atteso il contenuto del tutto identico delle tre attestazioni al riguardo, sembra essersi protratta dal 10 gennaio al 7 aprile 2000).
Ma, nondimeno, la prima richiesta di autorizzazione alle operazioni di intercettazione, il conseguente provvedimento del G.I.P. (richiamato, poi, dal relativo decreto esecutivo del P.M.) ed i successivi provvedimenti di urgenza del pubblico ministero e di convalida del giudice, facevano, tutti, espresso riferimento alle succitate note del suindicato organo di p.g., ed in queste, come s’è visto, si rappresentava la necessità che le operazioni di captazione si svolgessero presso quegli impianti esterni “in relazione alla particolarità delle indagini ed al fine di avere un diretto collegamento con il personale dislocato sul territorio” (così nelle note n. 61/21-1998 e n. 61/32-1998; nella nota n. 61/33-1998, rappresentandosi che “le operazioni… saranno eseguite presso la sala ascolto di questa Sezione Anticrimine…”, si richiamano espressamente la precedente “richiesta n. 61/21-1998…” e il decreto del 10 gennaio 2001). L’ufficio di Procura procedente era quello presso il Tribunale di Catanzaro; il territorio interessato alla indagine (“l’intero comprensorio vibonese” si richiama nella nota n. 61/32-1998 suindicata) ricadeva nella diversa Provincia di Vibo Valentia.
Richiamando i suindicati principi in tema di motivazione per relationem, a tali circostanze, dunque, deve ritenersi che il pubblico ministero abbia inteso fare riferimento nei suoi provvedimenti esecutivi, col riportarsi alla necessità di “collocare le attrezzature intercettanti a breve distanza dall’apparecchio da intercettare”, nonostante la non del tutto felice trasposizione della circonlocuzione lessicale al riguardo.
E, ciò posto, ha più volte ritenuto questa Suprema Corte che il requisito della idoneità o insufficienza degli impianti installati presso la Procura della Repubblica – e quindi il ricorso legittimo ad impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria – deve essere valutato anche in riferimento alla relazione intercorrente tra le caratteristiche delle operazioni di intercettazione nel caso concreto e le finalità perseguite attraverso tale mezzo di ricerca della prova, quindi non in astratto, ma con riguardo alle concrete ed obiettive caratteristiche dell’indagine nel cui contesto si inseriscono le operazioni di intercettazione, in relazione alla necessità di acquisire, con sollecitudine, eventuali elementi utili alle indagini, di effettuare un pronto intervento nel corso delle indagini medesime, di non creare ritardi nell’azione investigativa (Cass., Sez. VI, n. 165/2005, ric. Lenza; id., Sez. I, n. 467/2004, ric. Calca; id., Sez. IV, n. 27970/2003, ric. Pronestì; id., Sez. I, n. 27307/2003, ric. Di Matteo ed altro); e, in tale contesto, si è, ad esempio, ritenuto correttamente motivato il provvedimento del pubblico ministero di utilizzazione di impianti esterni, collocati presso la polizia giudiziaria, per l’eventuale necessità di un pronto intervento nel corso di indagini relative al reato di associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (Cass., sez. I, n. 165/2005, cit.).
Tale giurisprudenza e tali principi sono stati richiamati da queste Sezioni Unite, nella già citata sentenza n. 919/2004, ric. Gatto, in riferimento ai contenuti dell’obbligo motivazionale quando la insufficienza o l’inidoneità degli apparti in uso all’ufficio giudiziario “viene fatta dipendere non dalle condizioni materiali degli impianti ma da particolari esigenze investigative”. 8.4 Quanto, poi, all’altro richiesto requisito della eccezionale urgenza, quelle stesse succitate note di p.g. davano contezza (in riferimento ai titoli di reato ipotizzati: artt. 74 D.P.R. n. 309/1990, 416-bis c.p.) di una prospettata grave ed allarmante situazione delinquenziale, di un “chiaro ed inequivocabile contesto delinquenziale a cui appartiene il (omissis) ed all’interno del quale… ricopre una posizione di primo piano nella gestione degli affari illeciti”, in un’area territoriale in cui “la principale espressione criminale… viene individuata nella famiglia M. di Limbadi e nei suoi aggregati”, evidenziandosi i numerosi contatti e rapporti tra (omissis) ed altri soggetti ritenuti inseriti in tal attività delittuosa, “con altri esponenti di spicco della famiglia M. e con persone pregiudicate gravitanti nella medesima orbita criminale”; si rappresentava che “sin dalle prossime ore potrebbero evidenziarsi, in entrata od in uscita, conversazioni di rilevante valore probatorio…”, circostanza, questa, compiutamente richiamata nei decreti del pubblico ministero del 3 marzo e del 7 aprile 2000; nella nota n. 61/33-1998 si faceva anche riferimento ad una conversazione captata che aveva ad oggetto “un chilo e mezzo di cocaina”. Nel decreto di autorizzazione del G.I.P. del 5 gennaio 2000 il giudice diede atto che, a seguito dei riferiti esiti investigativi, “il (omissis) mantiene costanti contatti con elementi di spicco dell’associazione mafiosa facente capo alla famiglia M.…”; nei decreti di convalida del 3 marzo e del 7 marzo 2000 il G.I.P. diede atto che “le relative operazioni di intercettazione andavano predisposte con assoluta urgenza”.
E dunque, deve ritenersi congruamente prospettata ed apprezzata, a fini motivazionali, la evocazione di una situazione che, inducendo a ritenere la sussistenza di una attuale attività delinquenziale associativa ed attuativa di connessi reati-fine, era sufficientemente indicativa della “gravità del pregiudizio per le indagini che solo la deroga potrebbe evitare” (Cass., Sez. Un., n. 32/2001, ric. Pilicastro, cit.) e, quindi, della assoluta urgenza di prontamente intervenire ai fini dell’acquisizione degli elementi di prova, per neutralizzare quella grave ed allarmante attività delittuosa attualmente posta in essere.
9.0 Il ricorrente denunzia, poi, la inutilizzabilità degli esiti delle disposte intercettazione telefoniche sotto altri profili: perché sono stati utilizzati impianti non in dotazione alla polizia giudiziaria, ma “presi in affitto da ditte private” (motivo sub b), supra); perché non sussistevano i gravi indizi di reità, atteso che “il materiale indicato dal G.I.P…. lascia seri e notevoli dubbi circa la rappresentatività dei gravi indizi di colpevolezza ai fini cautelari” (motivo sub e), supra); e perché esse sono state effettuate “in data antecedente alla prima iscrizione a notizia di reato degli odierni indagati” (motivo sub f), supra).
Tali rilievi sono infondati.
Invero, sul primo ha già risposto il provvedimento impugnato, correttamente rilevando che “il riferimento normativo ad impianti ‘in dotazione alla polizia giudiziaria’ deve ritenersi onnicomprensivo di qualsiasi concreta disponibilità, ivi compreso l’utilizzo di strumenti presi a noleggio”. Ha già, difatti, altre volte chiarito questa Suprema Corte, e va qui ribadito, che, ai sensi del disposto dell’art. 268.3 c.p.p., deve considerarsi impianto in dotazione alla polizia giudiziaria qualsiasi apparecchiatura della quale la stessa abbia la disponibilità presso i propri uffici, a prescindere dallo strumento contrattuale all’uopo utilizzato per conseguire tale disponibilità, e dunque anche il materiale tecnico che, appartenendo a privati, venga da costoro consegnato in via precaria per effetto di noleggio o di qualunque altro contratto; la norma, difatti, non si occupa dello strumento giuridico in virtù del quale l’organo di polizia acquisisca tale dotazione, ma mira solo a tutelare la fondamentale esigenza che terzi estranei a tali impianti non possano accedervi (Cass., Sez. VI, n. 28514/2005, ric. Contorno; id, Sez. II, n. 48461/2004, ric. Chirillo; id., Sez. VI, n. 40330/2003, ric. Girasole).
Quanto al secondo, deve innanzitutto rilevarsi che, procedendosi per reati di criminalità organizzata, trovava applicazione il disposto dell’art. 13 D. L. 13 maggio, n. 152, convertito in L. 12 luglio 1991, n. 203, a termini del quale, in deroga a quanto disposto dall’art. 268.3 c.p.p.. è richiesta la sola sussistenza di sufficienti (non gravi, come mostra di ritenere il ricorrente) indizi di reità, e si è già ritenuto che ad integrare tale requisito sono idonee le informazioni legittimamente acquisite dall’organo di polizia giudiziaria, riferite al pubblico ministero e da questo poste a fondamento della richiesta di autorizzazione alle intercettazioni (Cass., Sez. Un., n. 17/2000, cit.).
Ciò posto, anche al riguardo il provvedimento impugnato ha reso congrua motivazione, rilevando la genericità della doglianza e, in ogni caso, la sussistenza degli indizi di reità alla stregua delle “specifiche note dei ROS” ed alle circostanze che ivi venivano rappresentate, dovendosi tener conto, peraltro, che tale requisito va inteso non in senso probatorio (cioè come valutazione del fondamento dell’accusa), ma come vaglio di particolare serietà delle ipotesi delittuose configurate, che non devono essere meramente ipotetiche (Cass., Sez. V, n. 41131/2003, ric. Liscai): tale giudizio di merito, logicamente espresso, si sottrae a rivisitazione (pur essa di merito) in questa sede di legittimità. Quanto, infine, al terzo dei suindicati profili di doglianza, è costante e pacifico nella giurisprudenza di questa Suprema Corte il rilievo che, ai sensi dell’art. 267.3 c.p.p. (e, quindi ai sensi dell’all’art. 13.1 L. n. 203/1991, quanto ai sufficienti e non gravi indizi di reità), la norma fa riferimento agli indizi di reato, non di reità e colpevolezza, afferendo essi alla sussistenza di un reato e non alla colpevolezza di un determinato soggetto, e non postulando, perciò, affatto che debbano essere a carico esclusivo dei soggetti le cui conversazioni o comunicazioni debbano, a fini investigativi, essere intercettate (cfr., ex ceteris, Cass., Sez. I, n. 16779/2004, ric. Prota ed altro; id., Sez. I, n. 4979/2000, ric. Nicchio ed altro; id., Sez. I, n. 8860/2000, ric. Guastalegname ed altri; id., Sez. VI, n. 9428/1999, ric. Patricelli; id., Sez. I, n. 8832/1996, ric. P.M. e Corona; id., Sez. I, n. 1079/1995, ric. Catti ed altri); ed in tale contesto si è, quindi, già altra volta ritenuto legittimo il decreto di intercettazione telefonica disposta nei confronti di soggetto che non era iscritto nel registro degli indagati (Cass., Sez. V, n. 41131/2003, ric. Liscai).
9.1 Infondata, infine, è anche la doglianza concernente la dedotta insussistenza dei gravi indizi di reità ai fini della imposizione della misura cautelare e delle relative esigenze cautelari (supra, sub g) dei motivi di ricorso). Al riguardo, difatti, i giudici del merito hanno dato ampia, puntuale e logica contezza del percorso argomentativo seguito nel pervenire alla resa statuizione (pagg. 8 e ss. del provvedimento impugnato), evocando le circostanze fattuali tutte evidenziate dalla realtà procedimentale (tra l’altro, il contenuto delle conversazioni captate; i “servizi collaterali svolti dagli operanti”; l’arresto in flagranza di Luigi Esposito, che aveva riconosciuto “di essere stato il depositario di svariati chili di cocaina…” e che “qualche giorno prima del suo arresto… si era incontrato proprio con il C.” e “l’appuntamento era stato organizzato da F. Giuseppe…, informando (quest’ultimo) in particolare l’Esposito di ogni variazione di orario del C.”).
Alla stregua di tale esplicitato apparato argomentativo, si sottrae ad ogni rinvenibile vizio di illogicità (che, peraltro, tenuto conto dei ben noti limiti di sindacabilità del vizio di motivazione in sede di legittimità, la norma vuole dover essere manifesta, cioè rilevabile immediatamente, ictu oculi) il conclusivo divisamento che, quanto al reato associativo, “il gran numero di episodi ricostruiti dagli inquirenti con lo strumento delle intercettazioni consente… di affermare che quanto accertato… non costituiva il frutto di un’intesa estemporanea, del convergere di interessi attorno a singoli progetti, ma di un’attività programmata nelle sue linee essenziali e per il cui perseguimento i soggetti coinvolti ricoprivano stabilmente un ruolo determinato”, in un contesto associativo in cui Giuseppe M., Giuseppe F., Stefano Polito e Cataldo Muscarello “ricoprivano posizioni di vertice”, Luigi Esposito ed i coniugi Restuccia-Borserini fornivano “supporto logistico”, e “sempre in posizione servente si collocava, poi, il C., che… si occupava di trasportare stupefacente dalla Calabria a Milano”.
Né hanno mancato i giudici del merito di altrettanto congruamente e logicamente motivare in ordine ai reati-fine che vengono contestati al ricorrente (pagg. 11 e ss. del provvedimento impugnato).
Ed altrettanto congrua motivazione rende la gravata ordinanza quanto alle esigenze cautelari, al riguardo richiamando quanto già ritenuto dal giudice della imposta misura ed ulteriormente ribadendo che tali esigenze scaturivano “dalla gravità delle condotte poste in essere, dalla loro sistematicità e dall’inserimento organico dell’indagato in un sodalizio criminale”, donde il ritenuto “pericolo di reiterazione di condotte della stessa specie di quelle per cui si procede”, altresì rilevando, quanto alla adeguatezza della imposta misura, che non poteva farsi “affidamento sulla spontanea osservanza da parte dell’indagato delle prescrizioni inerenti agli arresti domiciliari, in considerazione della sua appartenenza alla malavita organizzata, e non essendo le altre misure proporzionate alla gravità dei fatti… in considerazione del margine di libertà ad esse connaturato”.
9.2 Col rilievo gravatorio di cui supra, sub d) dei motivi di ricorso, il ricorrente si limita a rilevare gli effetti della “declaratoria di inutilizzabilità”, ai sensi del “combinato disposto degli artt. 191 e 271 c.p.p.”: ma al riguardo si è sopra detto circa la ritenuta insussistenza di tali dedotte ipotesi di inutilizzabilità degli esiti delle disposte intercettazioni telefoniche.
10.0 Il ricorso va, dunque, rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Copia del presente provvedimento va trasmesso al Direttore dell’istituto penitenziario di competenza perché provveda a quanto stabilito dall’art. 94, c. 1-ter, disp. att. c.p.p., come aggiunto dall’art. 23 L. 8.8.1995, n. 332.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti previsti dall’art. 94 disp. att. c.p.p..