Permesso di soggiorno
Permesso di soggiorno - illegittimità costituzionale dell’art.80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato –.. (Corte Costituzionale Sentenza n. 187 del 26 maggio 201)
Permesso di soggiorno - illegittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato dell’assegno mensile di invalidità di cui all’art. 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili)
Corte Costituzionale Sentenza n. 187 del 26 maggio 2010
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), promosso dalla Corte d’appello di Torino nel procedimento vertente tra O.M. e il Ministero dell’economia e delle finanze ed altri con ordinanza del 27 febbraio 2009, iscritta al n. 144 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti l’atto di costituzione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 23 marzo 2010 il Giudice relatore Paolo Grossi;
uditi l’avvocato Nicola Valente per l’INPS e l’avvocato dello Stato Diana Ranucci per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza del 27 febbraio 2009, la Corte di appello di Torino ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), nella parte in cui, «condizionando il diritto dello straniero legalmente soggiornante sul territorio nazionale alla fruizione dell’assegno sociale e delle altre provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali» – fra i quali il giudice a quo ritiene debba essere «certamente» annoverato quello all’assegno di invalidità di cui all’art. 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili) – «al requisito della titolarità della carta di soggiorno e, quindi, alla legale presenza sul territorio dello Stato da almeno cinque anni, pone una discriminazione nei confronti dello straniero rispetto al cittadino», in violazione dell’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, adottato a Parigi il 20 marzo 1952 e reso esecutivo con la legge 4 agosto 1955, n. 848, così come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
La Corte rimettente ha premesso, in fatto, che una cittadina romena dimorante in Italia e munita del permesso di soggiorno, ha proposto ricorso il 15 novembre 2007 davanti al Tribunale di Torino, lamentando che, pur essendo stata riconosciuta invalida con riduzione permanente della capacità lavorativa in misura superiore ai 2/3, in base ad una percentuale accertata dell’80%, poi aggravatasi fino al 90%, ed essendo iscritta alle liste speciali di collocamento obbligatorio dal 4 marzo 2005, le era stato negato l’assegno di invalidità civile di cui all’art. 13 della legge n. 118 del 1971, per non essere titolare della carta di soggiorno, come prescritto dall’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000. Il Tribunale adìto, con sentenza del 16-18 aprile 2008, aveva accolto il ricorso soltanto a decorrere dal 1° gennaio 2007, data dell’ingresso della Romania nella Unione Europea, respingendolo, invece, per il periodo antecedente, reputando legittima la previsione normativa che subordinava la concessione dell’assegno ai soli titolari della carta di soggiorno. Avverso la detta sentenza ha proposto appello la ricorrente, deducendo il contrasto della normativa in questione con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Il giudice rimettente, dopo aver richiamato il contenuto dell’art. 80, comma 2, della legge n. 388 del 2000 nonché la disciplina della carta di soggiorno, e sottolineata la sicura riconducibilità dell’assegno per cui è controversia al novero delle “provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi”, comprese nella disposizione che ne limita la fruibilità da parte degli stranieri al requisito del possesso della carta di soggiorno, ha ricordato come la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo abbia puntualizzato che anche per le prestazioni sociali vale la tutela dei diritti patrimoniali che devono essere riconosciuti a tutti; pena, altrimenti, la violazione dell’art. 14 della Convenzione, che vieta la previsione di trattamenti discriminatori.
Da tutto ciò deriverebbe – al lume delle sentenze di questa Corte n. 348 e n. 349 del 2007 – la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento alle citate previsioni della CEDU e del Protocollo addizionale, sottolineandosi, d’altra parte, la circostanza che questa Corte ha già avuto modo di dichiarare la illegittimità della norma denunciata con la sentenza n. 306 del 2008, in riferimento alla indennità di accompagnamento di cui all’art. 1 della legge 11 febbraio 1980, n. 18 (Indennità di accompagnamento agli invalidi civili totalmente inabili), e con la sentenza n. 11 del 2009, in riferimento alla pensione di inabilità di cui all’art. 12 della legge n. 118 del 1971.
2. – Nel giudizio di costituzionalità si è costituito l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), il quale ha chiesto dichiararsi infondata la proposta questione. Richiamato il quadro normativo di riferimento e la giurisprudenza costituzionale specifica, l’Istituto previdenziale ha sottolineato, infatti, come l’intervento restrittivo oggetto di censura non possa ritenersi incostituzionale, avendo questa Corte affermato la legittimità di interventi legislativi tesi a modificare in senso limitativo, nei rapporti di durata, le prestazioni da erogare, sia nell’an che nel quantum. Inoltre, non potrebbe sindacarsi la scelta del legislatore di differenziare le prestazioni in favore degli stranieri accordandole soltanto a quelli che risiedano in Italia da più tempo e con maggiore stabilità: come d’altra parte è previsto, in tema di assegno sociale, dall’art. 20, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, il quale dispone che «a decorrere dal 1° gennaio 2009, l’assegno sociale di cui all’articolo 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335, è corrisposto agli aventi diritto a condizione che abbiano soggiornato legalmente, in via continuativa, per almeno cinque anni [recte: dieci anni, come modificato in sede di conversione] nel territorio nazionale».
Non sussisterebbe, poi, violazione dell’ordinamento comunitario, in quanto i regolamenti comunitari (numeri 1408/71; 574/72; 859/03) non sono applicabili ai cittadini di paesi terzi, mentre la pretesa violazione della CEDU non potrebbe essere ricondotta né all’art. 10 Cost. né all’art. 11 della stessa Carta. Quanto al dedotto parametro dell’art. 117, primo comma, Cost., alla luce dei princípi enunciati dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, l’Istituto rileva che le norme CEDU, per come interpretate dalla Corte di Strasburgo, non si sottraggono alla verifica di compatibilità con l’ordinamento costituzionale italiano. Dunque, nell’ambito delle norme – peraltro di tipo politico-programmatico – dettate dalla CEDU e dal Protocollo addizionale, non sarebbero «individuabili norme di rango costituzionale che impongano al legislatore di equiparare gli stranieri ai cittadini dell’Unione ai fini della concessione di provvidenze economiche di mera assistenza sociale». Va d’altra parte osservato – rileva conclusivamente l’Istituto – che la norma censurata è stata inserita nella legge finanziaria per il 2001, sicché i limiti di accesso alle prestazioni, sono stati posti tenendo conto delle esigenze finanziarie disponibili per i fini di assistenza sociale: limitazioni, dunque, giustificate dalle esigenze di contenimento della spesa pubblica, in più occasioni evocate dalla giurisprudenza costituzionale (vengono richiamate le sentenze di questa Corte n. 99 del 1995, n. 240 del 1994, e n. 822 del 1988).
3. – Nel giudizio è intervenuto, infine, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, la quale ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile o infondata la questione. Dopo aver analizzato la disciplina coinvolta dal dubbio di legittimità costituzionale ed aver diffusamente richiamato la giurisprudenza costituzionale pertinente alla questione proposta, l’Avvocatura – sottolineando alcuni passaggi della sentenza n. 308 del 2008 – ritiene che il quesito debba essere esaminato in funzione della natura del beneficio cui la questione si riferisce: se cioè lo stesso sia o meno qualificabile come mezzo diretto a “rimediare a gravi situazioni di urgenza”. Al riguardo, l’Avvocatura ritiene che la natura e la ratio dell’assegno di assistenza sia del tutto diversa da quella della pensione di inabilità o dell’indennità di accompagnamento (già scrutinati da questa Corte), giacché, postulando questi ultimi l’inabilità totale dell’istante, «tendono sicuramente a fronteggiare situazioni di gravità e urgenza». L’assegno di assistenza mira, invece, ad integrare l’eventuale minor reddito percepito dalla parte che, malgrado la inabilità parziale, è comunque avviata al lavoro, posto che la erogazione dell’assegno presuppone che l’istante sia iscritto obbligatoriamente nelle liste di collocamento, al precipuo scopo, appunto, «di consentire all’invalido di trovare una condizione lavorativa confacente al suo stato». In tale quadro di riferimento, pertanto, non può ritenersi illogico che lo Stato, in ragione delle limitate risorse finanziarie, subordini la erogazione della prestazione in discorso alla titolarità della carta di soggiorno, che attesta «l’effettivo e stabile inserimento del soggetto extracomunitario nella compagine sociale italiana», mentre la circostanza che si tratti nella specie di un «beneficio di natura non vitale ma accessoria», esclude il contrasto con l’art. 14 della CEDU, potendo lo Stato subordinare la provvidenza per gli stranieri agli stessi requisiti previsti per il cittadino italiano, «primo fra tutti l’inserimento nella compagine sociale italiana, attestato dalla presenza continua nel territorio nazionale […]».
Considerato in diritto
1. – La Corte di appello di Torino solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 28 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), nella parte in cui tale norma, nello stabilire che «ai sensi dell’art. 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, l’assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali sono concessi, alle condizioni previste dalla legislazione medesima, agli stranieri che siano titolari di carta di soggiorno», subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione, agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, dell’assegno mensile di invalidità, previsto dall’art. 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili).
A parere della Corte rimettente, infatti, la disposizione censurata, nel subordinare il diritto alle prestazioni previdenziali che costituiscono diritti soggettivi, fra i quali deve certamente annoverarsi l’assegno di invalidità previsto dall’art. 13 della legge n. 118 del 1971, alla titolarità della carta di soggiorno, e dunque al requisito della presenza nel territorio dello Stato da almeno cinque anni, introdurrebbe un ulteriore requisito atto a generare una discriminazione dello straniero nei confronti del cittadino, in contrasto con i princípi enunciati dall’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, adottato a Parigi il 20 marzo 1952, secondo l’interpretazione che di essi è stata offerta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Da qui la violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, alla stregua dei princípi affermati da questa Corte nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007.
2. – La questione è fondata.
La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha, in varie occasioni, avuto modo di sottolineare come la Convenzione non sancisca un obbligo per gli Stati membri di realizzare un sistema di protezione sociale o di assicurare un determinato livello delle prestazioni assistenziali; tuttavia, una volta che tali prestazioni siano state istituite e concesse, la relativa disciplina non potrà sottrarsi al giudizio di compatibilità con le norme della Convenzione e, in particolare, con l’art. 14 che vieta la previsione di trattamenti discriminatori (in tal senso, Stec ed altri contro Regno Unito, decisione sulla ricevibilità del 6 luglio 2005; Koua Poirrez contro Francia, sentenza del 30 settembre 2003; Gaygusuz contro Austria, sentenza del 16 settembre 1996; Salesi contro Italia, sentenza del 26 febbraio 1993). Al tempo stesso, la Corte di Strasburgo ha anche sottolineato l’ampio margine di apprezzamento di cui i singoli Stati godono in materia di prestazioni sociali, in particolare rilevando come le singole autorità nazionali, in ragione della conoscenza diretta delle peculiarità che caratterizzano le rispettive società ed i correlativi bisogni, si trovino, in linea di principio, in una posizione privilegiata rispetto a quella del giudice internazionale per determinare quanto risulti di pubblica utilità in materia economica e sociale. Da qui l’assunto secondo il quale la Corte rispetta, in linea di massima, le scelte a tal proposito operate dal legislatore nazionale, salvo che la relativa valutazione si riveli manifestamente irragionevole (Carson ed altri contro Regno Unito, sentenza del 16 marzo 2010; Luczak contro Polonia, sentenza del 27 novembre 2007). A proposito, poi, dei limiti entro i quali opera il divieto di trattamenti discriminatori stabilito dall’art. 14 della Convenzione, la stessa Corte non ha mancato di segnalare il carattere relazionale che contraddistingue il principio, nel senso che lo stesso non assume un risalto autonomo, «ma gioca un importante ruolo di complemento rispetto alle altre disposizioni della Convenzione e dei suoi protocolli, perché protegge coloro che si trovano in situazioni analoghe da discriminazioni nel godimento dei diritti garantiti da altre disposizioni» (da ultimo, Oršuš ed altri contro Croazia, sentenza del 16 marzo 2010). Il trattamento diviene dunque discriminatorio – ha puntualizzato la giurisprudenza della Corte – ove esso non trovi una giustificazione oggettiva e ragionevole; non realizzi, cioè, un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e l’obiettivo perseguito (ad es., Niedzwiecki contro Germania, sentenza del 25 ottobre 2005). Non senza l’ulteriore puntualizzazione secondo la quale soltanto «considerazioni molto forti potranno indurre a far ritenere compatibile con la Convenzione una differenza di trattamento fondata esclusivamente sulla nazionalità» (da ultimo, Si Amer contro Francia, sentenza del 29 ottobre 2009, ed i precedenti ivi citati).
Lo scrutinio di legittimità costituzionale andrà dunque condotto alla luce dei segnalati approdi ermeneutici, cui la Corte di Strasburgo è pervenuta nel ricostruire la portata del principio di non discriminazione sancito dall’art. 14 della Convenzione, assunto dall’odierno rimettente a parametro interposto, unitamente all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale, che la stessa giurisprudenza europea ha ritenuto raccordato, in tema di prestazioni previdenziali, al principio innanzi indicato (in particolare, sul punto, la citata decisione di ricevibilità nella causa Stec ed altri contro Regno Unito).
A tal proposito, occorre preliminarmente rilevare come la disposizione oggetto di impugnativa abbia senz’altro perseguito una finalità restrittiva in tema di prestazioni sociali da riconoscere in favore dei cittadini extracomunitari. L’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000, stabilisce, infatti, per quanto qui interessa, che «l’assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali sono concessi, alle condizioni previste dalla normativa medesima, agli stranieri che siano titolari di carta di soggiorno» (ora permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo). La norma, dunque, è intervenuta direttamente sui presupposti di legittimazione al conseguimento delle provvidenze assistenziali, circoscrivendo la platea dei fruitori, quanto ai cittadini extracomunitari, a coloro che siano in possesso della carta di soggiorno, il cui rilascio presuppone, fra l’altro, il regolare soggiorno nel territorio dello Stato da almeno cinque anni, secondo l’originaria previsione dell’art. 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero). Periodo elevato a sei anni, a seguito delle modifiche apportate al citato art. 9 dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), e nuovamente determinato in cinque anni, con la nuova disciplina dello stesso articolo 9, introdotta ad opera del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo). In sostanza, dopo l’entrata in vigore della normativa censurata, è venuta meno, con riferimento ai soggetti legittimati a fruire di trattamenti previdenziali costituenti diritti soggettivi, la equiparazione, precedentemente esistente, fra i cittadini italiani e gli stranieri extracomunitari in possesso di regolare permesso di soggiorno.
Ebbene, proprio con riferimento alla normativa in questione, questa Corte non ha mancato di sottolineare come al legislatore italiano sia senz’altro consentito di dettare norme, non palesemente irragionevoli e non in contrasto con gli obblighi internazionali, intese a regolare l’ingresso e la permanenza degli stranieri extracomunitari in Italia. Ed ha altresì soggiunto che «è possibile, inoltre, subordinare, non irragionevolmente, l’erogazione di determinate prestazioni – non inerenti a rimediare a gravi situazioni di urgenza – alla circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero al soggiorno nel territorio dello Stato ne dimostri il carattere non episodico e di non breve durata; una volta, però – ha soggiunto questa Corte – che il diritto a soggiornare alle condizioni predette non sia in discussione, non si possono discriminare gli stranieri, stabilendo, nei loro confronti, particolari limitazioni per il godimento dei diritti fondamentali della persona, riconosciuti invece ai cittadini» (sentenza n. 306 del 2008).
Ciò che dunque assume valore dirimente, ai fini dell’odierno scrutinio, non è tanto la configurazione “nominalistica” dello specifico strumento previdenziale che può venire in discorso, quanto, piuttosto, il suo concreto atteggiarsi nel panorama degli istituti di previdenza, così da verificarne la relativa “essenzialità” agli effetti della tutela dei valori coinvolti. Occorre, in altri termini, accertare se, alla luce della configurazione normativa e della funzione sociale che è chiamato a svolgere nel sistema, lo specifico “assegno” che viene qui in discorso integri o meno un rimedio destinato a consentire il concreto soddisfacimento dei “bisogni primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana, che è compito della Repubblica promuovere e salvaguardare; rimedio costituente, dunque, un diritto fondamentale perché garanzia per la stessa sopravvivenza del soggetto. D’altra parte, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha sottolineato come, «in uno Stato democratico moderno, molti individui, per tutta o parte della loro vita, non possono assicurare il loro sostentamento che grazie a delle prestazioni di sicurezza o di previdenza sociale». Sicché, «da parte di numerosi ordinamenti giuridici nazionali viene riconosciuto che tali individui sono bisognosi di una certa sicurezza e prevedono, dunque, il versamento automatico di prestazioni, a condizione che siano soddisfatti i presupposti stabiliti per il riconoscimento dei diritti in questione» (la già citata decisione sulla ricevibilità del 6 luglio 2005, Staic ed altri contro Regno Unito). Ove, pertanto, si versi in tema di provvidenza destinata a far fronte al “sostentamento” della persona, qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con il principio sancito dall’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, avuto riguardo alla relativa lettura che, come si è detto, è stata in più circostanze offerta dalla Corte di Strasburgo.
A tale riguardo può rilevarsi che l’art. 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118, prevedeva, nel suo testo originario, la corresponsione di un assegno mensile per tredici mensilità «ai mutilati ed invalidi civili di età compresa fra il diciottesimo ed il sessantacinquesimo anno nei cui confronti sia accertata una riduzione della capacità lavorativa, nella misura superiore a due terzi, incollocati al lavoro e per il tempo in cui tale condizione sussiste», con le stesse condizioni e modalità previste per l’assegnazione della pensione di invalidità di cui all’art. 12 della stessa legge. Stabiliva, poi, il secondo comma dello stesso art. 13, che l’assegno di invalidità potesse «essere revocato, su segnalazione degli uffici provinciali del lavoro e della massima occupazione, qualora risulti che i beneficiari non accedono a posti di lavoro adatti alle loro condizioni fisiche».
Il medesimo art. 13 è stato poi sostituito ad opera dell’art. 1, comma 35, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale). Stabilisce il nuovo testo della norma che «agli invalidi civili di età compresa fra il diciottesimo e il sessantaquattresimo anno nei cui confronti sia accertata una riduzione della capacità lavorativa, nella misura pari o superiore al 74 per cento, che non svolgono attività lavorativa e per il tempo in cui tale condizione sussiste, è concesso, a carico dello Stato ed erogato dall’INPS, un assegno mensile di euro 242,84 per tredici mensilità, con le stesse condizioni e modalità previste per l’assegnazione della pensione di cui all’art. 12». Prevede, poi, il comma 2 del medesimo articolo che il fruitore del beneficio provvede ad autocertificare all’INPS di non svolgere attività lavorativa e l’obbligo di dare tempestiva comunicazione al medesimo Istituto ove tale condizione venga meno.
Dalla disciplina innanzi richiamata emerge, dunque, che l’assegno in questione può essere riconosciuto soltanto in favore di soggetti invalidi civili, nei confronti dei quali sia riconosciuta una riduzione della capacità lavorativa di misura elevata; che la provvidenza stessa, in tanto può essere erogata, in quanto il soggetto invalido non presti alcuna attività lavorativa; che l’interessato versi, infine, nelle disagiate condizioni reddituali stabilite dall’art. 12 della stessa legge n. 118 del 1971, per il riconoscimento della pensione di inabilità.
Si tratta, dunque, all’evidenza, di una erogazione destinata non già ad integrare il minor reddito dipendente dalle condizioni soggettive, ma a fornire alla persona un minimo di “sostentamento”, atto ad assicurarne la sopravvivenza; un istituto, dunque, che si iscrive nei limiti e per le finalità essenziali che questa Corte – anche alla luce degli enunciati della Corte di Strasburgo – ha additato come parametro di ineludibile uguaglianza di trattamento tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato.
La norma impugnata deve pertanto essere dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione, agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, dell’assegno mensile di invalidità di cui all’art. 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118.
per questi motivi
la corte costituzionale
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato dell’assegno mensile di invalidità di cui all’art. 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2010.