Skip to main content

Diffamazione a mezzo della stampa-  Espressione diffamatoria:"Faccia da schiaffi"

Diffamazione a mezzo della stampa-  Espressione diffamatoria:"Faccia da schiaffi"

Penale - Diffamazione a mezzo della stampa -  Espressione diffamatoria:"Faccia da schiaffi" (Cassazione – Sezione quinta penale (up) – sentenza 2 luglio-8 settembre 2004, n. 36086)

Cassazione – Sezione quinta penale (up) – sentenza 2 luglio-8 settembre 2004, n. 36086

La Corte osserva

Ariosto Stefania veniva tratta a giudizio innanzi il Tribunale di Como per rispondere del reato di diffamazione a mezzo della stampa, con attribuzione di fatti determinati, per avere rilasciato una intervista, pubblicata sul periodico “La Provincia” in data 30 gennaio 1997, nel corso della quale si era espressa, nei confronti dell’Onorevole Sgarbi Vittorio, nei seguenti termini:

a) «…accusa me di avere venduto oggetti falsi ma sotto processo per una perizia su un certo quadro è finito proprio Sgarbi»;

b) «…la cortigiana sarei io che da Berlusconi non ho mai preso una lira…non pare che lui possa dire altrettanto»;

c) «…se non lo condannano mi faccio giustizia da sola, lo prendo a schiaffi come ha fatto Teodoro Bontempo con il giornalista Giancarlo Perna».

Il giudice di primo grado, con sentenza 30 marzo 2001, assolveva l’imputata, relativamente alla frase sub a) con formula perché il fatto non costituisce reato e, in ordine alla frase sub b), con formula perché il fatto non sussiste; dichiarava l’imputata, viceversa, in ordine alla frase sub c), responsabile di minaccia, così diversamente qualificato il fatto e, per l’effetto, condannava l’Ariosto alla pena di lire 30.000 di multa oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile.

Investita dell’impugnazione della imputata quanto alla condanna per il fatto sub c), nonché della parte civile quanto al giudizio sulla intera imputazione, la Corte di appello di Milano, con sentenza 23 ottobre 2003, fermo il giudizio assolutorio quanto alla frase sub a), affermava viceversa la responsabilità della imputata per il reato di diffamazione in ordine alla frase sub b), nonché in ordine a quella sub c), restituito il fatto ivi descritto alla qualificazione giuridica originaria;

rideterminava, quindi, la pena complessiva, ritenute equivalenti le attenuanti generiche rispetto all’aggravante dell’attribuzione del fatto determinato con l’espressione sub c), in euro 600 di multa.

L’imputata ricorre per cassazione, a mezzo del proprio difensore, deducendo:

1. erronea applicazione della legge per mancata rilevazione della condizione di improcedibilità quanto alla espressione sub c), sul rilevo che la querela era stata espressamente proposta in ordine al delitto di minaccia;

2, erronea applicazione della legge penale, con riferimento alla qualificazione del fatto sub c);

3. omessa motivazione in ordine alla paternità dell’espressione sub c) (sul rilievo che la stessa, per nulla offensiva, sarebbe stata giornalisticamente adattata dall’intervistatore);

4. mancanza di motivazione ovvero manifesta illogicità della medesima quanto al giudizio di colpevolezza in ordine alla frase alla lettera b), sul rilievo di una viziata lettura della medesima;

5. erronea applicazione della legge penale quanto al giudizio di “carica diffamatoria” della frase alla lettera b);

6. erronea applicazione della legge penale, con riferimento ad “omessa valutazione della scriminante della reciprocità”, sul rilievo che l’intervista era stata rilasciata nell’attesa di una udienza relativa a procedimento penale a carico dell’onorevole Sgarbi per diffamazione nei confronti della stessa imputata (qualificata essa stessa come “cortigiana”);

7. erronea applicazione della legge penale ovvero contraddittorietà della motivazione quanto all’aggravante dell’attribuzione del fatto determinato.

Il ricorso non può trovare accoglimento.

In ordine al monito sub 1), infatti, evidentemente non rileva che il querelante abbia ipotizzato nei fatti illustrati nell’atto anche, o soltanto, un reato di minaccia; noto, invero, il principio del giudizi di legittimità secondo cui in ogni caso la querela contiene la notizia di reato con l’istanza di punizione e spetta poi al giudice il potere di qualificazione giuridica del fatto storico, indipendentemente da quella attribuitagli dal querelante.

Il motivo sub 2), poi, prospetta poco più che una censura di merito in punto di apprezzamento della frase di cui alla lettera c) e, peraltro, il giudizio che tale frase, priva di reale efficacia intimidatoria, abbia invece realmente aggredito la figura morale del destinatario, non può dirsi il prodotto di un error in iudicando; derivando, invero, dal dato descrittivo, in termini che richiamano una espressione gergale (“faccia da schiaffi”) ormai entrata nella comprensione di ognuno, di un soggetto meritevole di disprezzo (attraverso schiaffi già ricevuto in altra circostanza).

Il motivo sub 3), ancora, si risolve nella richiesta, inammissibile nella presente sede, di nuovo esame degli elementi di prova in punto alla paternità della frase alla lettera c) e, ciò, peraltro, a fronte di sentenza che ha segnalato come mai, il punto fosse stato messo in discussione dall’imputata e che, infine, ha incensurabilmente acquisito in fatto espressioni proprie del soggetto intervistato (e non, dunque, modificate o enfatizzate dall’intervistatore).

Infondato, poi, è il motivo sub 4): il giudizio di valenza diffamatoria delle espressioni di cui alla lettera b), infatti, risulta esaustivamente motivato, con rinvio all’apprezzamento della intera frase, ritenuta non illogicamente rappresentativa, in termini allusivi ma eloquenti, di una persona che, diversamente dalla intervista, si sarebbe prestata, per mera cortigianeria, a ricevere danaro “da Berlusconi”.

Il collegato motivo sub 5), poi, torna a qualificarsi come censura di merito, perché pretende unicamente assegnare inidoneità lesiva dell’altrui reputazione alla espressione “cortigiano” mutilata di parte essenziale della intera frase – allusiva alla percezione di danaro “da Berlusconi” – e, dunque, pretermette il puntuale richiamo del giudice di appello al senso spregiativo proprio dell’espressione comunemente avvertibile (in termini di soggetto adulatore ovvero in qualche servile, per danaro, nei riguardi di un potente) in una simile rappresentazione del fatto.

Infondato è il motivo sub 6), poiché la ricorrente con tale mezzo invoca, deducendo la reciprocità, l’esimente della ritorsione che è applicabile al diverso reato di ingiuria (articolo 599 comma 1 Cp); né il testo dell’impugnata sentenza, laddove riconosce «l’agitato stato d’animo dell’imputata, effetto almeno parziale del comportamento burrascoso del querelante pure in tutt’altre circostanze» (valorizzato in punto di trattamento sanzionatorio), autorizza minimamente che sia ravvisabile una diffamazione commessa “subito dopo” il fatto ingiusto dell’offeso (articolo 599 comma 2 Cp).

Infondato è anche il superstite motivo sub 7).

Ricorre l’aggravante dell’attribuzione del fatto determinato, infatti, allorché il fatto risulti sufficientemente delineato nei suoi essenziali elementi, in modo che ne derivi quell’aspetto di maggior credibilità in cui si sostanzia la ratio della aggravante, senza che peraltro occorra la rappresentazione degli estremi circostanziali di luogo, tempo e modo in cui l’azione è stata tenuta; nella specie, l’allusione alla disonorevole condotta «di avere preso i soldi da Berlusconi» quale suo “cortigiano”, è stata non illogicamente apprezzata come idonea a configurare l’aggravante, risultando infatti evocata, alla comprensione del lettore l’immagine reale di un soggetto foraggiato, più o meno sistematicamente e quale corrispettivo di cortigianeria, da un bene individuato soggetto politico, derivandone così un maggior pregiudizio della reputazione.

Alla reiezione del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.