Danni patrimoniali e non patrimoniali ad un cittadino ingiustamente condannato per errore giudiziario
22/01/2004 Danni patrimoniali e non patrimoniali ad un cittadino ingiustamente condannato per errore giudiziario - Risarcibile anche il danno esistenziale
Penale e procedura - Danni patrimoniali e non patrimoniali ad un cittadino ingiustamente condannato per errore giudiziario - Risarcibile anche il danno esistenziale (Cassazione , sez. IV penale, sentenza 22.01.2004 n. 2050)
La Corte osserva
I) Premessa.
La Corte d’appello di Genova, con ordinanza 6 febbraio 2003, ha accolto la domanda di riparazione dell’errore giudiziario proposta da Barillà Daniele che, con sentenza 17 luglio 2000 della Corte d’appello di Genova, non impugnata, era stato definitivamente assolto con la formula “per non aver commesso il fatto” da reati, concernenti il traffico illecito di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti, per i quali era stato in precedenza condannato alla pena, divenuta definitiva, di anni quindici di reclusione e lire 150.000.000 di multa, con sentenza 7 dicembre 1993 del Tribunale di Livorno parzialmente confermata dalla sentenza 1° dicembre 1994 della Corte d’appello di Firenze (che aveva soltanto ridotto la pena); quest’ultima decisione era divenuta definitiva a seguito della sentenza 25 ottobre 1996 della Corte di cassazione.
A seguito di questa vicenda Barillà, aveva subito una detenzione, prima cautelare e poi in espiazione di pena, pari ad anni sette, mesi cinque e giorni dieci.
La Corte genovese, dopo aver nominato due periti per l’accertamento delle conseguenze di natura psico fisica della detenzione (con particolare riguardo ai riflessi sulla capacità lavorativa) e di quelle di natura reddituale derivanti dalla cessazione dell’attività d’impresa in precedenza svolta dall’istante, ha determinato l’entità della riparazione (dopo avere nelle more liquidato una somma a titolo di provvisionale) nella somma complessiva di euro 3.947.994,00, oltre alle pronunzie accessorie (interessi decorrenti dal 1° gennaio 2003, spese di difesa, spese della procedura ecc.).
Contro questo provvedimento hanno proposto distinti ricorsi (in gran parte di identico contenuto) l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Genova e il Pg presso la Corte d’appello della medesima Città deducendo vari motivi di ricorso (che verranno di seguito analiticamente esaminati) riferibili ai criteri utilizzati dalla Corte di merito per la determinazione dell’entità della riparazione. Ha resistito il difensore di Barillà con memorie con le quali ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi e comunque il loro rigetto.
Il Pg presso questo Ufficio ha concluso chiedendo il parziale accoglimento dei ricorsi.
II) Questioni preliminari.
Con la memoria datata 10 novembre 2003, e depositata presso questo Ufficio il giorno successivo, il difensore di Barillà ha contestato l’ammissibilità dei ricorsi sotto diversi profili che vanno separatamente esaminati.
a) La prima eccezione di inammissibilità si riferisce alla natura dei motivi posti a sostegno dei ricorsi. Si sostiene, nella memoria, che i ricorrenti avrebbero in realtà censurato esclusivamente i dati di fatto presi in considerazione dalla Corte di merito per stabilire l’entità della riparazione ma questa censura non rientrerebbe tra quelle consentite dall’articolo 606 comma lo Cpp perché diretta ad una rivalutazione degli elementi di prova acquisiti dal giudice di merito.
Il motivo deve peraltro essere ritenuto infondato perché, se se è vero che al giudice di legittimità non è consentito rivalutare il compendio probatorio acquisito e preso in considerazione dal giudice di merito, è altrettanto vero che rientra nel controllo di legittimità devoluto alla Corte di cassazione verificare innanzitutto l’esistenza della motivazione e poi la correttezza delle argomentazioni logiche che il giudice di merito ha utilizzato al fine di controllare se egli sia incorso in mancanza o manifesta illogicità della motivazione. Naturalmente quanto più ampi siano i poteri discrezionali del giudice (per es. proprio in tema di valutazione equitativa dell’indennizzo) tanto minori saranno i poteri di sindacato del giudice di legittimità ma non per questo può ritenersi che venga meno il potere dovere di verifica del corretto esercizio dei poteri in esame.
b) Sotto un diverso profilo nella memoria si eccepisce l’inammissibilità del ricorso del Pg che sarebbe privo della legittimazione attiva qualora, come nella specie, si discuta soltanto della quantificazione della somma dovuta a titolo di indennizzo perché in questo caso la scelta di contestare la somma liquidata sarebbe riservata al contradditore naturale, cioè al ministero dell’Economia e delle finanze, mentre il Pm non avrebbe interesse all’impugnazione non ‘potendosi sostituire alle scelte negoziali delle parti private.
Ma anche questa tesi è priva di fondamento: il Cpp non pone infatti, in generale, alcun limite al potere di impugnazione del Pm e, allorquando ha voluto limitare questo potere rispetto a quelli conferiti alle parti private, lo ha espressamente precisato (v. articolo 443 comma 30 Cpp). Ciò del resto è conforme alla disciplina ordinamentale del Pm che (articolo 73 Rd 30 gennaio 1941, ordinamento giudiziario) “veglia alla osservanza delle leggi” e quindi ha una competenza di carattere generale, e non limitata, anche per questioni che riguardano rapporti tra parti private che concernono comunque l’applicazione di leggi aventi riflessi pubblicistici e che sarebbe quindi illogicamente amputata seguendo l’interpretazione proposta. Del resto questo è il senso dell’intervento del Pm in tutta una serie di cause civili normativamente previste e in tutte le cause civili davanti alla Corte di cassazione.
Né, può negarsi, come fa la difesa Barillà, che l’interesse sia concreto (e non generico ed astratto come sostiene la difesa Barillà) perché, contestando i criteri utilizzati dal giudice di merito per la liquidazione dell’indennizzo, il Pg ha posto in discussione la corretta applicazione, nel caso concreto, della disciplina di liquidazione dell’indennizzo dovuto per la riparazione dell’errore giudiziario e non ha inteso semplicemente riaffermare astrattamente principi dalla cui violazione non sia derivata alcuna lesione effettiva del pubblico interesse di riferimento.
Errata è infine la tesi secondo cui la materia della riparazione (dell’errore giudiziario o dell’ingiusta detenzione) sia devoluta esclusivamente alle scelte negoziali delle parti private come è dimostrato dalla scelta legislativa di consentire la liquidazione non per autonoma scelta del ministero ma solo in esito al giudizio di riparazione la cui decisione conclusiva ha natura costitutiva del diritto (v. Cassazione, Su, 14/2001, Caridi).
c) La terza eccezione di inammissibilità, formulata in relazione ad entrambi i ricorsi, riguarda invece un’asserita acquiescenza che vi sarebbe s tata da parte di entrambi i ricorrenti. Tacita da parte del Pg che mai avrebbe interloquito nel corso del procedimento di riparazione svoltosi davanti alla Corte d’appello; espressa da parte dell’Avvocatura dello Stato che, in più occasioni, avrebbe dichiarato di non opporsi all’accoglimento della domanda e di rimettersi alla valutazione del giudice per quanto riguarda la determinazione del quantum dovuto.
Va in contrario rilevato che, anche ammessa la possibilità (ma soprattutto la rilevanza: il giudice della riparazione ben potrebbe respingere la domanda cui il Ministero avesse prestato adesione) dell’ acquiescenza in un rapporto di tipo pubblicistico quale quello in esame, questo comportamento passivo va valutato in relazione alle evidenze disponibili e quindi all’esistenza dei presupposti per la liquidazione dell’indennizzo, all’assenza di cause ostative quali il dolo o la colpa, all’esistenza astratta del diritto; non certo in relazione a quanto non è stato ancora accertato e quindi sia da considerare allo stato privo di giuridico rilievo, se non inesistente, e possa sorgere solo con la pronunzia del giudice. Insomma sembra del tutto ovvio che rimettersi alla decisione del giudice in merito alla determinazione della somma dovuta non corrisponde ad accettare preventivamente l’entità della riparazione, poi determinata in concreto, anche se con un giudizio a posteriori non si condivideranno i criteri utilizzati a tale fine.
V’è un’ulteriore ragione per non attribuire rilievo di acquiescenza al comportamento dell’Avvocatura. È principio ormai indiscusso (fin dalla decisione delle sezioni unite di questa Corte 6 marzo 1992, Ministero del Tesoro C. Fusilli, in Cassazione penale, 2035/92) che il procedimento relativo alla riparazione per l’ingiusta detenzione ‑ che ha la medesima natura del procedimento per la riparazione dell’errore giudiziario ‑ ha per vari aspetti natura civilistica; da ciò consegue che la ripartizione delle spese di lite va effettuata in base al principio della soccombenza di cui all’articolo 91 del Cpc.
Questo principio trova certamente piena attuazione nel caso in cui il procedimento in questione assuma carattere contenzioso; il che avviene quando l’amministrazione si opponga all’accoglimento della domanda anche soltanto in relazione al “quantum” richiesto. Ma, nel caso in cui l’Amministrazione non ritenga neppure di costituirsi in giudizio ovvero, pur essendosi costituita, non si opponga all’accoglimento della domanda, il procedimento conserva natura (se non di volontaria giurisdizione) certamente non contenziosa. In questo caso il ministero del Tesoro (adesso ministero dell’Economia e delle finanze) è contradditore necessario di chi ha proposto l’istanza sol perché, come si è in precedenza accennato, non ha la possibilità, al di fuori della sede giurisdizionale prevista dalla legge, di liquidare la somma dovuta per la riparazione (cfr. in questo senso Cassazione, sezione quarta, 9 maggio 1996, Citarella, in Cassazione penale, 1838/97).
Ne consegue un interesse specifico dell’Avvocatura quando non ritenga di contestare i presupposti per il riconoscimento della riparazione ‑consistente nella necessità di assumere un comportamento processuale che valga ad evitare la condanna del ministero al pagamento delle spese di lite quando ritenga equa la quantificazione dell’indennizzo. Ma ciò non può certo significare la rinunzia ad impugnare la decisione che travalichi invece i limiti di quello che la parte ritiene equo.
Del tutto privi di rilievo sono poi, per i ‑ fini che interessano, i comportamenti processuali che nella memoria vengono indicati a conferma dell’asserita acquiescenza. Trattasi, in realtà, di comportamenti idonei a fondare il consenso solo per quanto riguarda gli aspetti procedimentali dell’accertamento (nomina dei periti, criteri indicati ai medesimi, formulazione dei quesiti ecc.) mentre la mancata contestazione del rilievo della documentazione prodotta e la mancata opposizione alle richieste dell’istante non significano certo rinunzia a far valere il dissenso in ordine ai risultati del procedimento valutativo del giudice ma possono assumere esclusivamente valore di accettazione della genuinità della documentazione prodotta (e neppure della sua rilevanza) e della correttezza del procedimento probatorio seguito dal giudice.
d) Manifestamente infondata è l’ultima eccezione con la quale si lamenta, deducendo la violazione dell’articolo 581 Cpp, che i ricorrenti si sarebbero limitati a chiedere l’annullamento dell’ordinanza impugnata senza precisare se si tratti di annullamento con rinvio o senza rinvio e senza delineare il principio di diritto al quale il giudice di rinvio, nel primo caso, dovrebbe attenersi. Ma anche questa eccezione è palesemente infondata perché il thema decidendum dell’impugnazione è stato ampiamente delineato dai ricorrenti con l’esposizione dei motivi di ricorso e con la richiesta di annullamento dell’ordinanza impugnata. Stabilire, in relazione all’eventuale accoglimento dei motivi, il tipo di annullamento e formulare, se del caso, il principio di diritto spetta al giudice di legittimità e non a chi il provvedimento ha impugnato.
III) Formazione del giudicato parziale.
La difesa di Barillà ha chiesto che si dia atto della formazione del giudicato per alcune voci dell’indennizzo che non sono state contestate con i motivi di ricorso (perdita dell’autovettura cointestata, vendita della casa di abitazione, spese per trattamenti medici); per queste statuizioni la richiesta appare corretta perché si tratta di voci che non formano oggetto delle censure contenute nei ricorsi.
Non altrettanto può dirsi in relazione alle spese di lite liquidate dalla Corte di merito; la condanna alle spese è infatti conseguente alla decisione definitiva sul merito della causa per cui diverrebbe definitiva con il rigetto o l’inammissibilità dei ricorsi ma, in tutta evidenza, un annullamento anche parziale con rinvio (e a maggior ragione un annullamento senza rinvio) porrebbe in discussione anche questa statuizione direttamente ricollegata alla decisione definitiva sulla pretesa dell’istante; d’altro canto l’Avvocatura ricorrente, nel chiedere l’annullamento dell’ordinanza impugnata, ha aggiunto la richiesta di “ogni conseguenziale pronuncia” che può essere legittimamente intesa come riferita anche alla liquidazione delle spese tra le parti.
IV) Le censure di carattere generale.
I ricorsi del Pg e dell’Avvocatura distrettuale sono, come si è detto, largamente sovrapponibili per cui gli identici motivi di ricorso saranno sintetizzati ed esaminati congiuntamente.
I ricorrenti censurano innanzitutto l’ordinanza della Corte genovese sia in merito ai criteri utilizzati nella ripartizione dell’onere della prova sia per quanto riguarda i criteri di valutazione delle risultanze peritali.
In particolare nei ricorsi ci si duole:
‑ con il primo motivo (con cui si denunzia la violazione degli articoli 115 Cpc, 127 e 645 Cpp) della circostanza che i giudici della riparazione avrebbero recepito acriticamente le risultanze delle perizie disposte senza tener conto della circostanza che l’istante non aveva provato di aver percorso altre strade al fine di pervenire alla liquidazione dell’azienda. L’unica circostanza che potrebbe ritenersi provata è quella che l’istante non era in grado di provvedere personalmente alla liquidazione dell’azienda ma non certo che non potesse farlo per mezzo di un procuratore o del socio familiare;
‑ con il secondo motivo (riferito alla violazione degli articoli 62, 115, e 198 Cpc, 645 e 646 Cpp) della circostanza che il perito contabile, violando i limiti dell’incarico conferitogli, abbia esteso i suoi accertamenti con l’assunzione di informazioni (presso i committenti di Barillà, le associazioni di categoria, altre aziende svolgenti attività analoga) compiendo quindi un’indagine non autorizzata dal giudice. Ciò renderebbe invalida la perizia perché svolta con modalità tali da alterare i criteri di ripartizione dell’onere della prova e senza che venisse garantito il contraddittorio tra le parti; il compito del perito non è infatti quello di ricercare le prove ma di fornire al giudice elementi di giudizio per la valutazione delle prove acquisite. In ogni caso difetterebbe, nel provvedimento impugnato, ogni motivazione sulle ragioni che hanno indotto la Corte a condividere le conclusioni del perito contabile che sarebbero state invece acriticamente accolte;
‑ con il terzo motivo (che denunzia la violazione degli articoli 314, 315, 645 e 646 Cpp) si sostiene che l’istituto della riparazione dell’errore giudiziario deve ritenersi ispirato ai medesimi criteri di equità previsti per la riparazione dell’ingiusta detenzione con la conseguenza che, pur non essendo previsto per l’errore giudiziario un tetto massimo, a differenza dell’ingiusta detenzione, la somma liquidata non potrebbe discostarsi, in modo rilevante e irragionevole, da quella prevista per l’ingiusta detenzione essendo identico il bene della vita tutelato.
Il Pg presso questo ufficio ha ritenuto infondate tutte queste critiche chiedendo il rigetto dei motivi in cui sono state espresse e la Corte condivide questa valutazione.
Sui criteri di ripartizione dell’onere della prova deve escludersi che la Corte di merito abbia violato i principi stabiliti dalla legge in materia. Riservato l’esame della censura che si riferisce all’avvenuta liquidazione dell’azienda alla valutazione dei motivi relativi a questo argomento si osserva che l’istante ha provato i fatti costitutivi della domanda (condanna, revisione, detenzione ed espiazione della pena) e ha documentato in larga parte i danni effettivamente subiti. I giudici, che hanno ritenuto di applicare criteri risarcitori e non indennitari, hanno disposto due perizie per fondare l’accertamento dei danni su valutazioni tecnicamente adeguate e non di parte.
Le critiche dei ricorrenti (che non contestano l’utilizzazione del criterio risarcitorio) sembrano denunziare una violazione dei principi sulla ripartizione della prova che la legge pone a fondamento del processo civile ma dimenticano che nel processo civile il giudice è dotato (articolo 115 Cpc) di ampi poteri officiosi nella disponibilità delle prove, sia pure nei soli casi previsti dalla legge, peraltro numerosi ed incisivi (interrogatorio non formale delle parti: articolo 117; ispezione di persone e di cose: articolo 118; nomina di consulente tecnico: articolo 191; richiesta d’informazioni alla Pa: articolo 213; assunzione di testi de relato: articolo 257 ecc.).
Se quindi dovessero integralmente applicarsi al procedimento per la riparazione dell’errore giudiziario i principi del processo civile non per questo sarebbe sottratto al giudice ogni potere istruttorio al fine di verificare l’esistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda una volta provati i fatti costitutivi della medesima. Si pensi, in particolare, al potere di richiedere d’ufficio informazioni alla pubblica amministrazione o di disporre una consulenza tecnica d’ufficio (perizia, in questo caso, dovendosi applicare le norme del processo penale) per comprendere come, al di là dell’iniziativa delle parti, siano attribuiti anche al giudice civile (in questo caso al giudice della riparazione) i più ampi poteri per acquisire tutte le informazioni e la documentazione necessarie al fine di decidere (anche) il quantum della riparazione.
Ma v’è di più: come questa sezione ha più volte sottolineato (v. da ultimo sentenza 2815 dell’11 maggio 2000, Salamone) il procedimento per la riparazione (i precedenti sono riferiti all’ingiusta detenzione ma pacificamente applicabili anche alla riparazione a seguito di revisione), pur essendo ispirato ai principi del processo civile, si riferisce pur sempre ad un rapporto obbligatorio di diritto pubblico; dal che non può non discendere un rafforzamento dei poteri officiosi del giudice che può quindi fondare la sua decisione su atti diversi da quelli prodotti dalle parti, purché conosciuti o conoscibili, eventualmente attraverso la richiesta di cui all’articolo 116 Cpp.
Quanto alla violazione del contraddittorio i ricorsi sono parimenti infondati. Va premesso, su questo punto, che il perito commercialista nominato dalla Corte ha acquisito informazioni ‑ al fine di accertare il valore dell’azienda che Barillà è stato costretto a dismettere a causa della imprevista carcerazione sofferta ‑ presso importanti aziende del settore motociclistico (l’azienda di Barillà svolgeva attività di assemblaggio di materiale elettrico per motocicli per conto di due imprese non più esistenti), presso aziende che svolgono attività di cablaggio elettrico per motocicli e presso un’associazione di categoria di queste aziende.
Orbene l’acquisizione di questo tipo di informazioni rientra pienamente nei poteri del perito ed è espressamente prevista dall’articolo 228 comma 30 Cpp in questa parte certamente applicabile non esistendo alcuna incompatibilità con la procedura della riparazione. Va ancora osservato che il perito era stato autorizzato, all’udienza del 30 gennaio 2002, «ad accedere presso uffici e stabilimenti pubblici e ad acquisire copia dei documenti ivi reperiti in particolare presso gli istituti carcerari presso cui il Barillà è stato detenuto e ospedali presso cui è stato ricoverato, uffici fiscali, camera di commercio».
Ma, accertato che non vi è stato alcun travalicamento del perito dal l’ambito dei suoi poteri, va aggiunto che neppure può ritenersi sussistente alcuna violazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova perché sia il Pg che l’Avvocatura distrettuale non hanno esercitato il diritto di nominare un loro consulente tecnico, che avrebbe potuto partecipare alle operazioni peritali (articolo 230 comma 2° Cpp), e comunque non hanno chiesto l’assunzione di mezzi di prova o provveduto a compiere le indagini e gli accertamenti eventualmente ritenuti utili per contrastare l’esito degli accertamenti svolti dal perito i quali, oltre tutto, non hanno valore di prova incontestabile ma costituiscono elementi di conoscenza, posti a disposizione del giudice per la sua autonoma valutazione, ai quali le parti possono contrapporre altri elementi di conoscenza.
In definitiva, su questo punto: non può lamentare la violazione del principio del contraddittorio la parte che, pur avendo a disposizione i mezzi processuali necessari per controllare la formazione della prova, di fatto non se ne avvalga.
Resta da esaminare la censura che si riferisce all’adesione acritica, che sarebbe stata fatta dalla Corte di merito, alle conclusioni peritali. Ma anche questa doglianza è infondata perché la Corte di merito, anche con l’esame comparato delle valutazioni compiute dai due consulenti di parte (quelli di Barillà), con l’integrazione tra ì risultati delle due perizie (in particolare nel calcolo del danno derivante dalla riduzione della capacità lavorativa) e in assenza di specifiche contestazioni, nella fase di merito, delle singole voci di danno ha mostrato di aver recepito le conclusioni dei periti, in particolare del perito commercialista, dopo aver vagliato criticamente le conclusioni adottate anche se queste sono state di fatto accolte integralmente. Anzi, poiché alcune parti della motivazione consistono nel mero rinvio alle relazioni dei periti (in particolare a quella del commercialista), i vizi di motivazione denunziati dovranno essere conseguentemente valutati con l’esame delle argomentazioni del perito alle cui argomentazioni è stato fatto rinvio per relationem.
V) Principi generali in tema di riparazione.
Come è comunemente riconosciuto la riparazione per l’errore giudiziario, come quella per l’ingiusta detenzione, non ha natura di risarcimento del danno ma (e qui il consenso è meno univoco) di semplice indennità o indennizzo in base a principi di solidarietà sociale per chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale o ingiustamente condannato. L’origine solidaristica della previsione dei due casi di riparazione non esclude però che ci si trovi in presenza di diritti soggettivi qualificabili di diritto pubblico cui si contrappone, specularmente, un’obbligazione dello Stato da qualificare parimenti di diritto pubblico.
Il criterio seguito dalla legge e diretto ad escludere una tutela obbligata di tipo risarcitorio risponde ad una precisa finalità: se il legislatore avesse costruito la riparazione dell’errore giudiziario, o dell’ingiusta detenzione, come risarcimento dei danni avrebbe dovuto richiedere, per coerenza sistematica, che il danneggiato fornisse non solo la dimostrazione dell’esistenza dell’elemento soggettivo, fondante la responsabilità per colpa o per dolo, nelle persone che hanno agito ma anche la prova dell’entità dei danni subiti. Ciò si sarebbe peraltro posto in un quadro di conflitto con l’esigenza (fondata non solo su una precisa disposizione della nostra Costituzione articolo 24 comma 40 ‑ma anche sull’articolo 5 comma 50 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e sull’articolo 9 n. 5 del Patto internazionale dei diritti civili e politici) di garantire un adeguato ristoro a chi sia stato comunque ingiustamente condannato o privato della libertà personale senza costringerlo a defatiganti controversie sull’esistenza dell’elemento soggettivo di chi aveva agito e sulla determinazione dei danni.
Se la scelta del legislatore è condivisibile deve però rilevarsi come essa non sia scevra da inconvenienti. Il primo è costituito dalla circostanza che il significato di indennità e di indennizzo (che peraltro il codice in questo caso non usa: di qui le opinioni che contestano questa costruzione teorica) non è utilizzato dal legislatore in senso univoco. In alcuni casi l’indennità è intesa come un corrispettivo per la perdita o la limitazione di un diritto; sono i casi di espropriazione, servitù coattive, occupazioni di fondo altrui (per es. articolo 938 Cc. In altri casi
come prestazione derivante dalla conclusione di un contratto (per es. i casi nei quali l’assicuratore gode di un limite alla sua responsabilità). In un terzo gruppo di casi il pregiudizio deriva da una condotta conforme all’ordinamento che però ha prodotto un danno che deve comunque essere riparato; alcuni esempi possono trarsi dal codice civile: articolo 2045 (indennità per il danneggiato da chi abbia agito in stato di necessità), 2047 comma 2° (danno cagionato dall’incapace), 843 comma 20 (accesso al fondo per costruire o riparare) ecc..
La riparazione per l’errore giudiziario o per l’ingiusta detenzione sembra avvicinarsi a questa terza specie di indennità, per la quale si è fatto ricorso alla figura dell’atto lecito dannoso: l’atto è stato infatti emesso nell’esercizio di un’attività legittima (e doverosa) da parte degli organi dello Stato anche se, in tempi successivi, ne è stata dimostrata (non l’illegittimità ma) l’erroneità o l’ingiustizia.
Un altro inconveniente del sistema delineato è costituito dalla necessità di utilizzare, prevalentemente se non esclusivamente, criteri equitativi per la liquidazione dell’indennizzo. Il giudice, per limitare il margine di discrezionalità, ineliminabile in questa forma di liquidazione, può soltanto utilizzare parametri, non previsti normativamente, che valgano a rendere razionali, trasparenti e non casuali i criteri utilizzati. Si tratta quindi di verificare, in questa ottica, se possano essere utilizzati per la liquidazione dell’indennizzo anche criteri normativi previsti per la liquidazione del danno.
La necessità di utilizzare criteri equitativi non è esclusa, nel caso della riparazione dell’errore giudiziario, dall’eliminazione dell’aggettivo l’equa, che qualificava la riparazione e che più non compare nel 1° comma dell’articolo 643 Cpp a differenza di quanto previsto dall’articolo 571 dell’abrogato codice di rito e dal vigente articolo 314 in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione. Dottrina e giurisprudenza sono infatti concordi nel ritenere che il mancato espresso richiamo all’equità sia privo di concreta rilevanza, come confermato anche dalla relazione al progetto preliminare del codice, essendo ineliminabile l’uso di criteri equitativi per determinare in concreto, con la successiva traduzione in termini monetari, le conseguenze dell’ingiusta condanna.
Il mancato richiamo all’equità da parte dell’articolo 643 può però consentire di affermare che non è inibito al giudice della riparazione fare riferimento anche a criteri di natura risarcitoria che possono validamente contribuire a restringere i margini di discrezionalità inevitabilmente esistenti nella liquidazione di tipo esclusivamente equitativo. E infatti in dottrina si è affermato che «attraverso la procedura di riparazione dell’errore giudiziario, la vittima può in definitiva ottenere la liquidazione dei danni provocati dall’ingiusta condanna». Più di un autore, d’altra parte, ha ravvisato nella riparazione per l’errore giudiziario una componente indennitaria e una risarcitoria, quasi si trattasse di un tertium genus rispetto alle due forme di ristoro.
In conclusione, su questo punto, deve ritenersi corretto il procedimento (peraltro non posto in discussione dai ricorrenti) seguito dalla Corte genovese laddove ha applicato criteri risarcitori ai danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti da Barillà limitando il criterio equitativo alle voci di danno non esattamente quantificabili seguendo un criterio già adottato da altre Corti di merito (v., per es. App. Palermo 15 febbraio 2000, in Foro it., 2001, 11, 41) in contrapposizione ad altre decisioni (si veda in particolare App. Perugia 24 gennaio 1996, in Giur. it., 1996, 366) che hanno invece utilizzato un criterio esclusivamente equitativo con una liquidazione globale di tutte le conseguenze dell’errore giudiziario (procedimento, peraltro, da ritenersi parimenti corretto ove il giudice di merito abbia comunque dato adeguato conto dei criteri seguiti nella liquidazione, ancorché di natura esclusivamente equitativa, e questi criteri non appaiano manifestamente illogici).
Deve però rilevarsi ‑ e qui il discorso completa le osservazioni in precedenza espresse in merito all’eccezione di inammissibilità dei ricorsi formulata dalla difesa dell’istante nella memoria difensiva ‑ che, come nella liquidazione esclusivamente equitativa il giudice di merito deve esplicitare i criteri o parametri utilizzati che rendano la sua decisione logicamente motivata e trasparente, ancorché fondata esclusivamente sull’equità, a maggior ragione il giudice che ritenga di utilizzare i criteri risarcitori deve procedere con il rispetto delle regole civilistiche applicabili al risarcimento del danno. Non potrebbe quindi il giudice della riparazione, dopo aver optato per il criterio risarcitorio, liquidare danni che in base alla disciplina applicabile ai danni civili non siano ritenuti risarcibili o con criteri confliggenti con tali regole; ferma restando la possibilità di applicare criteri equitativi per la liquidazione di un danno che non può essere provato nel suo preciso ammontare (articoli 1226 e 2056 comma lo Cc).
Per concludere sui criteri generali di liquidazione della riparazione per l’errore giudiziario va ora esaminata l’eccezione, formulata da entrambi i ricorrenti (per la verità con poca convinzione), sulla sostanziale applicabilità alla somma liquidata a titolo di riparazione per l’errore giudiziario, quanto meno come termine di riferimento, del tetto massimo per la riparazione per l’ingiusta detenzione. Il rilievo è manifestamente infondato ove si considerino non solo l’eccezionalità della previsione di un tetto ma, soprattutto, la diversità della natura del titolo privativo della libertà personale nell’ingiusta detenzione (un titolo provvisorio soggetto a verifiche successive e assistito dalla presunzione di non colpevolezza) rispetto alle conseguenze, di ben altro rilievo, provocate da una condanna non più soggetta ad impugnazione e atta a rimuovere l’indicata presunzione (sulla inapplicabilità del ricordato “tetto” alla riparazione per l’errore giudiziario v. Cassazione, sezione quarta, 532/94, Moroni).
VI) Danno patrimoniale.
L’ordinanza impugnata ha esaminato separatamente le conseguenze di natura patrimoniale rispetto a quelle di carattere non patrimoniale e appare opportuno seguire il medesimo criterio nell’esame delle censure proposte al fine di verificare se la Corte di merito si sia attenuta a corretti criteri logico giuridici per la determinazione delle singole voci di danno.
a) Perdita dell’attività commerciale. Barillà, all’epoca dell’arresto (13 febbraio 1992), era titolare di una ditta artigiana che svolgeva attività di assemblaggio di materiale elettrico per motocicli fin dall’ottobre 1989. La Corte ha determinato in lire 65.000.000, sulla scorta degli accertamenti svolti dal perito, il reddito riferibile all’anno 1991; ha elaborato questo reddito secondo le prospettive di sviluppo per gli anni successivi con un incremento annuo del 5 % e ha stabilito un reddito medio ponderato annuo che può variare, a seconda dei criteri utilizzati, da lire 75.800.000 a lire 81.750.000. Partendo da quest’ultima somma, ritenuta reddito medio annuale, e applicando per un periodo di dieci anni un tasso di attualizzazione della rendita del 15 %, il perito, con valutazione condivisa dalla Corte genovese, ha fissato in lire 784.287.308 il valore dell’azienda alla data del 31 dicembre 1991 detraendo la somma di lire 33.000.000 che Barillà, è riuscito a realizzare.
Il perito ha poi capitalizzato la somma indicata al 31 dicembre 2001, applicando il tasso medio di rendita dei titoli pubblici del 7,50 %, pervenendo alla somma di lire 1.630.000.000 come determinazione del danno complessivo derivante dalla perdita dell’azienda (in questa somma è compresa la perdita di lire 40.000.000, nella misura attualizzata, conseguente alla vendita della casa di abitazione ad un prezzo inferiore a quello di mercato). La somma complessiva indicata è stata attualizzata al 31 dicembre 2002 ‑ con una maggiorazione del 4,78 % corrispondente alla rendita attuale dei titoli pubblici ‑ e determinata definitivamente in Euro 888.247,00.
Il Pg e l’Avvocatura ricorrenti denunziano la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione sotto diversi profili:
- l’ordinanza. impugnata non avrebbe considerato che la perdita dell’azienda era dovuta ad un atteggiamento passivo ed inerte dell’istante che, sia pure detenuto, avrebbe potuto attivarsi per la liquidazione della medesima invece di ,lasciarla morire;
- i giudici di merito non avrebbero spiegato perché un’attività artigiana, iniziata da poco più di due anni e riguardante beni di nessun pregio tecnologico, fosse soggetta ad espansione, tanto più che le imprese committenti non sono più esistenti e le capacità imprenditoriali di Barillà sono soltanto affermate ma non dimostrate;
- non si sarebbe tenuto conto della circostanza che la ditta di Barillà era cointestata con la cognata e l’ordinanza impugnata non avrebbe considerato che il Ctu aveva quantificato l’apporto personale di Barillà in misura pari ad un terzo del reddito complessivo prodotto dall’impresa;
- priva di motivazione sarebbe la decisione di considerare l’esistenza di un reddito non contabilizzato senza che venisse addotta alcuna prova (se non le dichiarazioni dell’interessato) a fondamento di una maggior redditività rispetto a quella fiscalmente dichiarata (lire 15.210.000 nel 1989 e lire 14.242.000 nel 1990) e con l’applicazione, al fine. di calcolare il reddito medio ponderato, di un coefficiente annuo di incremento pari al 5% determinato in via del tutto congetturale e contraddetto dall’evoluzione dimostrata nei due anni per i quali è stata presentata la dichiarazione dei redditi (1990 e 1991) che dimostravano addirittura un decremento di redditività;
- la sola Avvocatura ricorrente lamenta poi l’illogicità dei criteri utilizzanti per determinare il valore del danno derivante dalla perdita del patrimonio dell’impresa (con particolare riferimento ai criteri ‑ non esplicitati e non giustificati in alcun modo ‑ con cui è stato determinato il valore di realizzo dei beni in leasing e dei beni residui) e l’inesistenza della prova delle spese eccezionali incontrate per la repentina cessazione dell’attività;
- illogico sarebbe poi aver determinato un ulteriore incremento della somma stabilita per determinare il valore dell’azienda (assumendo che, se la medesima fosse stata liquidata al 31 dicembre 1991, l’istante avrebbe potuto impiegare la,somma ricavata in titoli di stato) senza che si fossero verificati i presupposti di fatto ipotizzati.
Il Pg presso questo ufficio, in merito alle censure riassunte, ha chiesto che venissero accolte solo quelle relative alla mancata considerazione, da parte della Corte d’appello, della circostanza che Barillà non era l’unico titolare dell’azienda e all’inesistenza di motivazione sulla attualizzazione del credito non in base al tasso d’interesse corrente ma in base ad un impiego maggiormente remunerativo senza che sia stata indicata alcuna ragione a fondamento di questa scelta.
Le censure proposte contro la determinazione del valore dell’azienda cessata sono solo in parte fondate.
Va premesso che di seguito verranno esaminate, ovviamente, solo le censure formulate dai ricorrenti restando esclusi i punti sui quali i medesimi non hanno manifestato alcun dissenso.
E innanzitutto infondata la critica che si riferisce alla scelta di Barillà di “lasciar morire” l’azienda invece di liquidarla e ricavarne un ben più sostanzioso prezzo di vendita. La censura, che implicitamente richiama la violazione dell’articolo 1227 comma 20 Cc, appare inammissibile (perché riguarda una valutazione di merito motivatamente compiuta dal giudice della riparazione) e comunque non fondata perché il giudice di merito ha adeguatamente argomentato non solo sull’impossibilità (ovvia, ma neppure i ricorrenti la pongono in discussione) per Barillà, di seguire l’attività d’impresa, eventualmente per mezzo di una terza persona, stante la natura artigianale dell’attività svolta personalmente dall’istante, ma altresì sull’estrema difficoltà, in considerazione del suo stato di detenzione, che egli avrebbe comunque incontrato per cedere o liquidare ad un prezzo congruo l’azienda incaricando terze persone di questo incombente. Affermazione certamente esente da vizi logici o giuridici che la esonerano dal sindacato di legittimità.
Le stesse considerazioni possono farsi in merito alle censure, rivolte dalla sola Avvocatura all’ordinanza impugnata, che si riferiscono alla determinazione del valore del danno derivante dalla perdita del patrimonio dell’impresa del quale fu possibile realizzare solo la somma di lire 33.000.000. È vero che su questo punto la motivazione dell’ordinanza è mancante ma è altrettanto vero che il rinvio alla perizia consente di ritenere che alle considerazioni in questo atto contenute si sia fatto riferimento; e l’esame di esse permette di affermare che questi valori siano stati ragionevolmente accertati con motivazione in parte del tutto adeguata (quella dei beni in leasing) e in altra parte sufficiente; il che rende, anche per questa parte, incensurabile in sede di legittimità il relativo accertamento non potendosi ritenere mancante la motivazione.
Sono invece fondate le altre censure rivolte dai ricorrenti al provvedimento impugnato sotto il profilo dei criteri utilizzati per la determinazione del reddito d’impresa al fine di accertare il valore dell’impresa prematuramente cessata e (nei limiti di cui si dirà) quelle relative alla ripartizione del valore dell’azienda e del reddito tra i soci della medesima.
Sul primo punto va rilevata la manifesta illogicità della motivazione contenuta nell’ordinanza impugnata. Occorre premettere che questa Corte non ritiene che il contenuto della dichiarazione dei redditi costituisca un ostacolo insuperabile all’accertamento di un reddito superiore a quello fiscalmente dichiarato in tutti ì casi in cui l’interessato abbia un interesse in tal senso, come quello in esame. L’affermazione di una preclusione in tal senso presupporrebbe (oltre che l’applicazione esclusiva di principi processualcivilistici) la possibilità di inquadrare la dichiarazione dei redditi nell’istituto della confessione stragiudiziale e l’affermazione che la dichiarazione dei redditi ‑ essendo diretta al medesimo soggetto (il ministero dell’Economia e delle finanze) che oggi è contradditore del dichiarante ha la stessa efficacia probatoria della confessione giudiziale (articolo 2735 comma lo Cpp).
Sembra peraltro più ragionevole, in considerazione delle diverse vesti funzionali che assume il medesimo ministero, nell’ambito degli adempimenti tributari e quale contradditore nel procedimento per la riparazione, ritenere la dichiarazione una confessione stragiudiziale che può essere liberamente apprezzata dal giudice, del resto in armonia con la natura del procedimento di riparazione disciplinato dal codice di rito penale che rifiuta la stessa esistenza di prove legali (compresa la confessione).
Ma di questo libero apprezzamento nell’ordinanza impugnata non v’è traccia. I giudici di merito hanno recepito integralmente e acriticamente una ricostruzione di natura induttiva fondata su mere supposizioni e in assenza di qualsiasi elemento atto ad intaccare la fondatezza delle notizie contenute nelle dichiarazioni dei redditi presentate dal contribuente. S’è detto che il giudice, ai fini che interessano, può ricostruire il flusso reddituale in modo diverso da quanto risulta dalle dichiarazioni dei redditi ma deve pur sempre fondare questo diverso accertamento su elementi di fatto obiettivi idonei, se non a dimostrare, a rendere ragionevolmente credibile lo scostamento tra reddito prodotto e reddito dichiarato.
Oorbene il provvedimento impugnato non solo non dà alcun conto di questi elementi dai quali possa dedursi, sia pure in via induttiva, tale scostamento ma addirittura ne indica diversi di segno contrario. In particolare la circostanza che l’azienda era stata appena avviata; la natura tecnologicamente modesta delle lavorazioni; la chiusura delle aziende committenti; il decremento del reddito dichiarato nel secondo anno d’attività. Trattasi di elementi tutti contrastanti con le ipotesi ricostruttive del reddito reale e di espansione dell’attività d’impresa formulate dal perito che, difatti, le ha elaborate con riferimento al settore motociclistico in generale e quindi senza alcun riferimento al settore specifico e, soprattutto, senza alcun riferimento all’azienda di Barillà; e con un’ulteriore apodittica previsione di riemersione del reddito occultato che non trova alcun elemento di conferma.
Non compete certamente al giudice di legittimità rivalutare gli elementi di giudizio presi in considerazione dai giudici di merito. In questa sede è solo possibile verificare la manifesta illogicità di una ricostruzione che, in presenza di elementi inidonei a fondare la valutazione di produzione di maggior reddito (oltre tre volte quello dichiarato) non indica alcun elemento di supporto idoneo a fondare questo giudizio e non prende in alcuna considerazione, come si è detto, quelli, tutti di segno contrario, pur esistenti e ritenuti provati. Un accertamento induttivo di questo tipo effettuato in malam partem (nei confronti del contribuente) da un ufficio finanziario non reggerebbe al vaglio di qualunque commissione tributaria.
Ma v’è un ulteriore errore metodologico contenuto nella perizia richiamata dall’ordinanza impugnata. Il perito ha così calcolato il reddito complessivo, al lordo dell’imposizione fiscale, prodotto dall’impresa nell’anno 1991 attribuendo alle persone che contribuivano alla formazione del reddito le seguenti quote di contributo alla sua formazione: lire 30.000.000 al suo titolare; lire 20.000.000 al collaboratore familiare; lire 40.000.000 agli altri collaboratori.
Orbene mentre le quote al titolare e al collaboratore costituiscono quote di reddito dell’impresa familiare, e possono quindi essere utilizzate al fine di ricostruire la potenzialità economica dell’impresa, lo stesso non può dirsi per i compensi ai collaboratori (che neppure vengono indicati) che invece costituiscono costi per l’impresa. Certamente la disponibilità di collaboratori, siano essi dipendenti o lavoratori autonomi, può costituire un dato utilizzabile per la determinazione del valore dell’azienda (secondo i criteri utilizzati, per es., nella determinazione dei parametri reddituali per i fini fiscali) ma ciò che non è certamente possibile è trasformare un costo in un reddito.
Solo parzialmente fondata è invece la censura che si riferisce alla ripartizione del reddito tra Barillà e il socio familiare Favorido Miriam. Anche in questo caso il dato fattuale, peraltro non contestato dalle parti, risulta dalla relazione peritale (più volte richiamata dall’ordinanza della Corte di merito) dalla quale emerge (pag. 15) che il «reddito risulta integralmente assegnato al titolare malgrado l’impresa familiare con la cognata Favorido Miriam risulti essere stata costituita con scrittura a firma autenticate dal Notaio Elefante in data 5 dicembre 1990 (all. 11)».
Le ragioni per le quali il reddito sia stato integralmente attribuito al titolare non vengono spiegate dal perito e questa circostanza non è stata presa in alcuna considerazione dall’ordinanza impugnata pur essendo stata richiamata nella medesima con il rinvio alla relazione. Non può quindi il giudice di legittimità ricostruire la volontà delle parti private della società familiare richiedendo questa operazione una valutazione di merito (in particolare l’interpretazione di un contratto che risulta essere allegato alla relazione del perito) tra l’altro resa difficoltosa dalla non chiara formulazione degli accordi in precedenza riportati.
Su questo punto la difesa di Barillà si è ampiamente diffusa, nella seconda memoria di replica, con argomentazioni largamente condivisibili sulla natura dell’impresa familiare ritenuta impresa individuale con un solo titolare. Questa ricostruzione dell’impresa familiare è corretta anche alla luce della giurisprudenza civile di legittimità che ha sempre ritenuto che questa forma di impresa appartenga esclusivamente al suo titolare (v. Cassazione, sezione lavoro, 9897/03; 1917/99; 8959/92) che solo ha la qualifica di imprenditore e al quale spettano i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro (v., oltre alla sentenza 1917 citata, sezione lavoro 10412/95).
Peraltro l’articolo 230bis Cc attribuisce al socio familiare la partecipazione agli utili dell’impresa familiare in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato; dal che consegue che al titolare dell’impresa familiare non può essere attribuita l’intera quota di reddito se il socio familiare ha contribuito alla sua formazione; tanto è vero che l’articolo 230bis Cc prevede che le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi sono adottate da tutti i familiari che partecipano all’impresa (v., su questo punto, Cassazione, sezione seconda civile, 11689/99).
Da questa complessa disciplina possono trarsi le seguenti conclusioni sul caso in esame: il valore complessivo dell’azienda dismessa deve essere valutato tenendo conto anche del contributo del socio familiare ma poiché l’azienda appartiene al titolare l’intero valore va a lui attribuito. È vero che il socio familiare ha diritto, nel caso di alienazione dell’azienda, alla liquidazione del suo diritto di partecipazione (articolo 230bis comma 4°) ma ciò può comportare esclusivamente il diritto del socio familiare di ottenere la liquidazione della sua quota nel caso di alienazione. Insomma l’impresa e l’azienda sono uniche e appartengono al titolare; il socio familiare, oltre ad aver diritto ad una quota del reddito prodotto, ha diritto di ottenere dall’unico titolare la liquidazione del suo diritto di partecipazione nel caso di cessazione dell’impresa o di liquidazione dell’azienda, ma ciò si risolve nell’ambito di un rapporto di debito credito tra titolare e socio familiare e non intacca il principio dell’unità dell’impresa e della sua titolarità esclusiva in capo alla persona fisica del titolare.
L’attribuzione del valore dell’intera impresa al titolare Barillà, deve quindi ritenersi corretta (salvo il ricalcolo del suo valore tenendo conto di quanto già evidenziato). Invece ‑ anticipando l’esame delle censure che si riferiscono alla diminuzione della capacità di lavoro poiché dal reddito dell’impresa familiare il titolare deve detrarre la quota corrisposta al socio familiare nel calcolo della capacità di guadagno del titolare non può prendersi in considerazione l’intero reddito dell’impresa familiare perché questo reddito non corrisponde, ed è superiore, a quello di cui gode effettivamente il titolare.
Il giudice del rinvio dovrà quindi compiere un accertamento ulteriore sulla natura del patto intervenuto tra le parti e sulla quota di partecipazione del socio familiare agli utili con la conseguente detrazione di questa percentuale di reddito da quello preso in considerazione ai fini della determinazione della capacità di Barillà di produrre reddito.
Infine deve ritenersi fondata anche la censura che si riferisce alla capitalizzazione della somma di lire 751.287.000 (comprensiva della perdita dell’attività d’impresa e del danno derivante dalla vendita della casa di abitazione) effettuata dal perito, con criterio acriticamente recepito dal giudice della riparazione, che ha applicato il tasso medio di rendita dei titoli pubblici (pari al 7,50 %). A parte il rilievo che questo rendimento, essendo annualmente determinabile, non poteva essere calcolato come media tra i diversi anni deve rilevarsi che la Corte di merito ha implicitamente applicato il disposto dell’articolo 1224 Cc e ciò ha fatto correttamente trattandosi di obbligazione pecuniaria.
Non poteva però la Corte applicare il disposto del 2° comma dell’articolo 1224 in esame perché il maggior danno (sostitutivo e non aggiuntivo degli interessi legali) rispetto alla misura degli interessi legali può essere liquidato solo nel caso in cui il creditore ne dimostri l’esistenza. E, nel caso di specie, questa prova, a quanto risulta dall’ordinanza impugnata, non è stata sicuramente fornita neppure in via presuntiva (facoltà peraltro fortemente limitata in base ai più recenti orientamenti della giurisprudenza civile di legittimità).
b) Spese di difesa. La Corte d’appello ha liquidato per tale titolo la somma di Euro 206.582,75 (corrispondente a 400 milioni di lire) ritenendo la somma richiesta dall’istante “congrua e liquidabile in via equitativa”. I ricorrenti lamentano l’irrazionalità di questa statuizione rilevando che i compensi in esame (compresi quelli che l’istante afferma essere stati corrisposti ad un’agenzia di investigazioni private) o sono stati effettivamente corrisposti ‑ e in tal caso dovranno essere integralmente rimborsati ma previa produzione della necessaria documentazione ‑ o non lo sono state e in questo caso è irragionevole liquidarle equitativamente.
Secondo il Pg presso questo Ufficio non sarebbe necessaria la prova dell’avvenuto pagamento perché comunque il ricorrente sarebbe debitore delle somme vantate da difensori e investigatori. Solo la contestazione delle singole poste potrebbe formare oggetto del giudizio di legittimità.
Osserva la Corte che, effettivamente, la soluzione accolta dal giudice di merito presenta aspetti di manifesta illogicità. Non sono anzitutto condivisibili le conclusioni su questo punto del Pg presso questa Corte. L’istante ha dichiarato di aver pagato difensori e investigatori privati e non di essere rimasto loro debitore; è conforme alla disciplina risarcitoria utilizzata dal giudice di merito, quindi, affermare la necessità che i pagamenti vengano documentati o, quanto meno, che la statuizione si fondi su prove idonee a dimostrare l’avvenuto pagamento.
Deve infatti essere ribadito che non è possibile, in relazione alla medesima voce di danno, combinare i criteri equitativo e risarcitorio. Scelta la via risarcitoria il criterio equitativo assume carattere residuale ma esclusivamente per quei danni di cui sia certa l’esistenza ma che non possono essere provati nel loro preciso ammontare. Il che, evidentemente, non si verifica nel caso in esame nel quale i compensi pagati ben possono essere documentati con regolari fatture o, quanto meno, con dichiarazioni di coloro che hanno effettuato le prestazioni o con altri mezzi di prova idonei a dimostrare l’avvenuto pagamento (tali non sono certamente le fatture “pro forma” prodotte dall’istante perché non documentano l’avvenuto pagamento che l’istante afferma essere avvenuto).
c) Riduzione della capacità lavorativa. La Corte di merito, sulla scorta delle conclusioni del secondo perito nominato, ha ritenuto che Barillà, «ha contratto in conseguenza della vicenda giudiziaria e carceraria un’invalidità permanente e una inabilità al lavoro pari al 70%». E per questo titolo, prendendo a riferimento il reddito prodotto prima della carcerazione, rivalutato al 1999, ha determinato in lire 57.120.000 all’anno la perdita reddituale; ha moltiplicato per 34 questa somma considerando gli anni (26) fino all’età pensionabile e, aggiungendo 8 anni per integrazioni contributive previdenziali corrispondenti alla forzata omissione contributiva per gli anni dal 1991 al 1999, è pervenuto alla liquidazione di una somma complessiva, per tale titolo, pari a Euro 1.003.000,00.
I ricorrenti, con identiche considerazioni, lamentano che il danno accertato dal perito in realtà si riferisca non alla capacità lavorativa ma al danno biologico anche perché Barillà è riuscito a reimpiegarsi in una nuova attività lavorativa e lo stesso perito, secondo i ricorrenti, escluderebbe una perdita della capacità lavorativa. L’errore concettuale nel quale sarebbe incorsa l’ordinanza impugnata è la corrispondenza tra invalidità accertata e la conseguente incapacità lavorativa mentre è noto che ad un’invalidità permanente non corrisponde una percentualmente uguale riduzione della capacità lavorativa generica e di quella specifica.
In realtà, secondo i ricorrenti, la Corte avrebbe liquidato all’istante la somma indicata a titolo di “lucro cessante” senza peraltro che vi fosse la prova dell’effettiva riduzione della capacità di produrre reddito anche perché la Corte non ha tenuto conto della circostanza che l’istante attualmente svolge un’attività lavorativa ‑ da cui deriva un reddito che avrebbe dovuto essere detratto da quello accertato per il titolo in esame ‑ «ma si è limitata ad una mera operazione aritmetica assumendo come fattori il reddito medio accertato al momento dell’arresto e la vita
lavorativa residua (26 anni) aggiungendovi, senza per altro motivare in merito, altri otto anni per compensare il Barillà della forzata omissione contributiva».
Il Pg presso questo Ufficio ha concluso, su questo punto, dichiarando di condividere le censure proposte dai ricorrenti contro la liquidazione di cui trattasi.
Le censure sono solo in parte fondate. Innanzitutto va rilevato che, ovviamente, in sede di rinvio il reddito presunto su cui calcolare il valore economico della riduzione della capacità lavorativa dovrà essere rideterminato a seguito del corretto calcolo del reddito prodotto da Barillà al momento dell’arresto secondo i principi indicati in precedenza. Per quanto attiene invece alle censure che si riferiscono ai criteri utilizzati dalla Corte d’appello per la valutazione del danno conseguente alla riduzione della capacità lavorativa vanno fatte alcune precisazioni.
La giurisprudenza civile di legittimità opera una distinzione nell’ambito delle conseguenze dell’invalidità procurata da atto illecito ritenendo che quelle inabilità che determinano l’esclusione o la riduzione della capacità lavorativa specifica, idonea a produrre reddito, vadano risarcite come danno patrimoniale mentre la riduzione della capacità lavorativa generica costituisca una componente del danno biologico e vada quindi in esso considerata.
In questo senso si veda la recente Cassazione, sezione terza civile, 2589/02 (per est. in Foro it., 2002,1,2074) che così si esprime: esiste, dal punto di vista scientifico e medico legale, una fondamentale distinzione tra invalidità (temporanea o permanente) quale compromissione dell’integrità e della validità biologica dell’individuo, che è valutata e risarcita integralmente come danno biologico, ed incapacità (temporanea o permanente) che riguarda le perdite e i riflessi patrimoniali derivanti dalla momentanea o definitiva impossibilità, per il soggetto leso, di svolgere la propria attività lavorativa, ovvero di iniziare in futuro un’attività lavorativa.
Orbene, malgrado la Corte di merito non abbia specificato nella motivazione se la capacità lavorativa presa in considerazione sia quella generica o quella specifica, dalle argomentazioni sul punto emerge incontestabilmente che ì giudici hanno inteso riferirsi a quella specifica perché si fa, nel provvedimento, più volte richiamo alla capacità lavorativa come “capacità di produrre reddito”; tanto è vero che viene calcolato il danno patrimoniale facendo riferimento ai presunti redditi che Barillà avrebbe potuto produrre se non fosse stato coinvolto nella descritta vicenda. Non è vero, dunque, che vi sia stata sovrapposizione tra la riduzione della capacità lavorativa e il danno biologico per cui la censura deve ritenersi infondata anche se è vero che l’ordinanza impugnata ha omesso di esplicitare parte del percorso decisionale.
Né può parlarsi di duplicazione del risarcimento essendo stato più volte affermato, dalla giurisprudenza di legittimità, che entrambi i danni devono essere liquidati e che, solo nel caso di chi non svolga attività produttive di reddito e non sia in procinto di svolgerle, è escluso il risarcimento del danno patrimoniale (non di quello biologico): in tal senso v., da ultimo, Cassazione, sezione terza civile, 8599/01; 13409/01; 239/01.
La riduzione della capacità lavorativa generica è stata invece ricompresa dall’ordinanza impugnata, anche se in modo non del tutto esplicito, nel danno biologico e questa soluzione deve ritenersi corretta in base ai principi enunciati. Ed è vero che il perito ha accertato (con motivazione richiamata per relationem dall’ordinanza impugnata) una riduzione percentualmente uguale dei due fattori (riduzione della capacità lavorativa specifica e danno biologico) ma ciò ha fatto motivatamente con considerazioni (peraltro neppure specificamente oggetto di impugnazione sotto il profilo indicato) cui l’ordinanza impugnata rinvia e che non possono essere oggetto del sindacato di legittimità perché congruamente e logicamente motivate.
In ogni caso va ulteriormente ribadito che ben distinti concettualmente sono i presupposti per accertare la riduzione della capacità lavorativa specifica, che attiene esclusivamente alla riduzione della capacità reddituale del soggetto, e ha quindi natura di danno patrimoniale, da quelli utilizzati per valutare l’esistenza e la consistenza del danno biologico che consiste invece nella lesione dell’integrità psico fisica della persona, indipendentemente dalla riduzione reddituale, e del quale si parlerà in seguito (cfr., nel senso indicato, Cassazione, sezione terza civile, 13126/97; 605/98, entrambe per est. in Resp. civ. e prev., 1998, 363).
È quindi vero che la somma è stata liquidata a titolo di “lucro cessante” ma questa qualificazione appare corretta perché costituisce la sostanza della riduzione della capacità lavorativa specifica (che può dar luogo anche a un “danno emergente” ‑ nella specie non liquidato ‑per quegli oneri ai quali il danneggiato deve far fronte per sopperire al venir meno, totale o parziale, della fonte di reddito: cfr. Cassazione, sezione terza civile, 2589/02, per est. in Foro it., 2002,1,2074).
Solo parzialmente condivisibile è invece la doglianza che si riferisce alla mancata detrazione, dalla somma liquidata per il titolo indicato (danno patrimoniale per riduzione della capacità lavorativa specifica), delle somme percepite per l’attività lavorativa che attualmente Barillà svolge (peraltro nella seconda memoria il difensore dell’istante afferma che questa attività dell’istante sarebbe cessata).
Anche in questo caso soccorre la giurisprudenza civile di legittimità che ha affermato che lo svolgimento di un’attività lavorativa idonea a garantire alla persona parzialmente invalida un reddito identico a quello precedentemente ricavato dalla medesima attività non consente di ritenere automaticamente inesistente il corrispondente danno patrimoniale dovendosi accertare se sia maggiormente usurante la prestazione svolta e se l’invalidità inibisca comunque futuri miglioramenti dovuti ad un’intensificazione delle prestazioni (v., riferita ad un caso di lavoro subordinato ma con principi estensibili al ‘ lavoro autonomo, Cassazione, sezione terza civile, 15641/02).
Attenendosi a questi principi il giudice di rinvio dovrà sottrarre dall’entità di quanto dovuto per il titolo in esame il reddito eventualmente prodotto verificando altresì ‑ al fine di confermare in tutto o in parte la detrazione (in questo caso da determinare ovviamente in via esclusivamente equitativa) dalla somma attribuita a titolo di riduzione della capacità lavorativa specifica se la produzione del reddito sia riconducibile ad un’usura non ordinaria delle residue energie lavorative e se l’invalidità inibisca ulteriori miglioramenti reddituali.
VII) Danno non patrimoniale.
a) Le statuizioni della Corte di merito e i motivi di ricorso sul danno non patrimoniale.
La Corte d’appello ha liquidato, in base a criteri esclusivamente equitativi, la somma di Euro 800.000,00 a titolo di danno biologico per la grave compromissione della salute psico fisica subita da Barillà, a causa dell’arresto, della carcerazione subita e del processo. Le gravi conseguenze, causalmente ricollegabili alla vicenda in cui è rimasto coinvolto Barillà, sono state ritenute accertate in base alla perizia disposta e a considerazioni svolte dal giudice di merito che ha così descritto il quadro clinico accertando la ,la presenza di una grave sintomatologia depressiva con idee di rovina e autosoppressive, accompagnate da una sorta di ottusità emotiva, tendenza all’isolamento e al pessimismo morale, disturbi del sonno e dell’adattamento sociale, la presenza di una sindrome ansiosa con una sintomatologia cefalalgica sovrapposta, la presenza di un’ideazione persecutoria ben delineata determinata dallo sviluppo di tematiche di sospettosità e diffidenza.
I ricorrenti contestano sia la mancanza di uno specifico quesito al perito per determinare l’esistenza e la portata del danno biologico sia il criterio equitativo utilizzato dalla Corte per la liquidazione del danno rilevando che il danno biologico deve essere espresso in percentuale e deve evitarsi una sovrapposizione con il danno esistenziale pure liquidato nell’ordinanza impugnata.
Sempre in merito al danno non patrimoniale la Corte ha premesso che non è liquidabile, a favore dell’istante, alcuna somma a titolo di danno morale perché l’articolo 2059 Cc limita la risarcibilità del danno morale al solo caso di fatti costituenti reato mentre la natura non patrimoniale del danno biologico non ne escluderebbe la risarcibilità ai sensi degli articoli 32 della Costituzione e 2043 Cc. Ha peraltro affermato la Corte che esiste un ulteriore danno non patrimoniale risarcibile, costituito dal danno esistenziale inteso come «peggioramento oggettivo delle condizioni di vita della vittima in conseguenza di un fatto ingiusto», ha ravvisato i presupposti per il risarcimento “nelle obbligate rinunce alle proprie abitudini di vita”, e ha liquidato a tale titolo, in via meramente equitativa, la somma di Euro 1.000.000,00 già indicata.
I ricorrenti lamentano, nei confronti della liquidazione per il danno non patrimoniale, la sostanziale duplicazione della voce di danno costituita dal danno biologico e rilevano come giurisprudenza e dottrina siano concordi nel riconoscere la risarcibilità del danno esistenziale nei soli casi in cui non sia risarcibile il danno morale o non sia risarcibile il danno biologico ovvero quest’ultimo non sia trasmissibile a terzi perché chi l’ha subito è deceduto in conseguenza del fatto dannoso. E poiché la Corte ha riconosciuto l’esistenza del danno biologico nulla avrebbe potuto liquidare a titolo di danno esistenziale.
In merito agli indicati danni non patrimoniali il Pg presso questo Ufficio ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi per quanto attiene alla liquidazione del danno biologico mentre ne ha chiesto l’accoglimento relativamente alle censure formulate in merito alla liquidazione del danno esistenziale.
b) Premessa sulla natura del danno non patrimoniale. Sulla valutazione del danno non patrimoniale vanno fatte alcune premesse di carattere generale rese necessarie dall’evoluzione giurisprudenziale verificatasi negli ultimi tempi su questo tema che presenta, indubbiamente, maggiori difficoltà teoriche e ricostruttive rispetto al danno patrimoniale.
Tradizionalmente i danni non patrimoniali erano ritenuti risarcibili nei ristretti limiti previsti dall’articolo 2059 Cc che, prevedendone il ristoro nei soli casi previsti dalla legge, limitava la loro risarcibilità alla sola ipotesi in cui il danno fosse stato cagionato da un reato (articolo 185 comma 20 cod. penale) perché questo era l’unico caso previsto dalla legge.
In tempi più recenti, rispetto all’approvazione del codice penale, sono state introdotte, con innovazioni legislative, ulteriori forme di risarcimento di danni non patrimoniali (vengono richiamati, da dottrina e giurisprudenza, l’articolo 2 legge 117/88, sui danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie; l’articolo 29 comma 90 legge 675/96 sull’impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; l’articolo 44 comma 70 D.Lgs 286/98, per gli atti discriminatori per motivi razziali, etnici e religiosi; l’articolo 2 legge 89/2001 in tema di mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo; si aggiunga il disposto dell’articolo 89 comma 20 Cpc nel caso di espressioni sconvenienti o offensive contenute negli scritti difensivi).
L’evidente iniquità della limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale alle ipotesi di reato (e alle altre limitate ipotesi via via introdotte dal legislatore) ha indotto dottrina e giurisprudenza a costruire, in un primo tempo, ipotesi di danni risarcibili come danni patrimoniali anche in casi nei quali la lesione patrimoniale era assai poco evidente e comunque poteva mancare: ci si riferisce in particolare al danno biologico costituito, come si è detto, dalla lesione dell’integrità psico‑fisica della persona ‑ che è stato fondato sulla diretta violazione del diritto alla salute e all’integrità psico fisica della persona, garantito dall’articolo 32 della Costituzione, ma con il richiamo all’articolo 2043 Cc, e non all’articolo 2059 del medesimo codice, anche dopo che ne è stata riconosciuta la natura non patrimoniale.
Più complesso appare il percorso argomentativo utilizzato per affermare la risarcibilità del danno esistenziale la cui natura non patrimoniale, a differenza di quello biologico, è sempre stata indiscussa ma per il quale era meno agevole rinvenire il fondamento normativo (difatti ancor oggi importanti orientamenti dottrinari dubitano della risarcibilità, o riparabilità, del danno esistenziale).
Questa tendenza ad ampliare l’ambito di risarcibilità (ma spesso si preferisce parlare di riparabilità) dei danni non patrimoniali si è manifestata sotto diversi profili. Innanzitutto si è affermato il concetto, ormai comunemente condiviso, che il danno non patrimoniale risarcibile non può essere riduttivamente ricondotto al c.d. “danno morale soggettivo” (che peraltro né l’articolo 2059 Cc né l’articolo 185 cod. penale menzionano) ‑ cioè alla mera sofferenza psicologica, al patema d’animo, al turbamento contingente conseguente al fatto illecito ‑riguardando invece tutte le conseguenze dell’illecito che non sono suscettibili di una valutazione pecuniaria.
L’ampliamento della nozione di danno non patrimoniale oltre la nozione di danno morale soggettivo ha avuto come prima conseguenza quella di consentire di estendere la risarcibilità del danno non patrimoniale anche a soggetti diversi dalle persone fisiche (in questo senso v. Cassazione civile, sezione terza, 2367/00, per est. in Danno e resp. 2000, 490). Non ignora la Corte che nella giurisprudenza penale di legittimità questi principi siano stati ancor di recente posti in discussione (v. Cassazione, sezione sesta, 32957/01, Policella che così si esprime: «non è ravvisabile, come ritenuto dal giudice del merito, un danno all’immagine, riconducibile al comune, giacché esso per la sua natura di danno morale, come tale correlabile ad una sofferenza fisica o psichica è più propriamente riferibile al soggetto privato danneggiato e non ad un ente della Pa»). È peraltro da rilevare che la prevalente giurisprudenza penale di legittimità è nel senso accolto da quella civile (v. Cassazione, sezione prima, 8 luglio 1995, Costioli; 8381/92, Bono; sezione prima, 9105/92, Maggi; sezione prima, 13850/98, Paticchia) di talché l’orientamento ricordato, anche se più recente, deve ritenersi isolato.
Non è poi privo di significato l’orientamento della giurisprudenza comunitaria che, dopo avere in più occasioni riaffermato che la risarcibilità del danno morale costituisce problema riservato alle legislazioni nazionali, ha in un caso che potrebbe anche essere recentemente affermato ritenuto di natura “bagatellare” (quello della “vacanza rovinata”) e che, proprio per questa ragione, conferma la tendenza espansiva del danno non patrimoniale ‑ la risarcibilità del danno morale conseguente all’inadempimento delle prestazioni pattuite dagli organizzatori di viaggi organizzati (v. sentenza della Corte di giustizia delle comunità europee 12 marzo 2002, causa C-168/00, per est. in Foro ít., 2002,IV,329).
Ma l’evoluzione giurisprudenziale più significativa in tema di danno non patrimoniale è recentissima. Con due sentenze depositate il medesimo giorno (31 maggio 2003 nn. 8828, che indica le soluzioni proposte, e 8827 che, su questi temi, richiama e fa proprie le argomentazioni dell’altra sentenza) la terza sezione civile di questa Corte ha ribadito innanzitutto come non possa più essere ricondotto, il concetto di danno non patrimoniale, al mero danno morale soggettivo e ha interpretato l’articolo 2059 in esame nel senso che «il danno non patrimoniale deve essere inteso come che categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona». Ha ritenuto che una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 Cc imponga di ritenere inoperante il limite posto da tale norma «se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti» ed in particolare i diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti e garantiti dall’articolo 2 della Costituzione.
Il giudice civile di legittimità sembra propendere per un concetto unitario di danno non patrimoniale e ritiene non proficuo «ritagliare all’interno di tale generale categoria specifiche figure di danno etichettandole in vario modo: ciò che rileva, al fini dell’ammissione al risarcimento, in riferimento all’articolo 2059, è l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica». In questa ottica le sentenze citate della terza sezione evitano di fare espresso riferimento al danno esistenziale ma l’esame dei casi presi in considerazione conferma che i danni accertati erano riferiti a questo tipo di danno (in un caso riguardavano la perdita del rapporto parentale; nell’altro lo sconvolgimento delle abitudini dei genitori conseguente alle gravissime lesioni subite dal figlio ridotto allo stato vegetativo) perché si riferivano a casi che la precedente giurisprudenza, anche di legittimità, collocava tra i danni di natura esistenziale.
Le considerazioni svolte nelle due sentenze, come è agevole verificare dai punti sintetizzati, hanno peraltro una portata interpretativa ben più ampia che consente di esaminare le censure formulate dai ricorrenti sotto il profilo del danno non patrimoniale.
c) L’esame delle censure. il danno morale soggettivo. Va premesso che un’affermazione contenuta nell’ordinanza impugnata non può più essere posta in discussione: quella secondo cui il danno morale (da intendere come danno morale soggettivo consistente nella sofferenza psicologica o nel turbamento transitorio provocato dal fatto illecito) non sarebbe risarcibile in quanto non derivante da reato per la nota richiamata interpretazione dell’articolo 2059 Cc che ne limiterebbe l’ambito di applicazione ai soli danni derivanti da reato. Pur non avendo l’istante impugnato il punto concernente questo diniego alcune puntualizzazioni sono necessarie perché la Corte parrebbe in realtà far rifluire il danno morale soggettivo in quello esistenziale che forma oggetto delle due impugnazioni in esame.
L’interpretazione della Corte di merito sul danno morale soggettivo appare riduttiva perché questa tipologia di danno ha perso, o visto attenuato nel tempo, l’originario carattere sanzionatorio per assumere sempre più una veste anche riparatoria estesa, dalla più recente giurisprudenza di legittimità, anche a danni provocati da condotte che solo astrattamente possono costituire reato (il “reato” commesso dall’incapace; i casi di presunzione di concorso di colpa ecc. ; v. Cassazione, sezione terza civile, 7283/03, per est. in Danno e resp., 2003, 713). Anzi la citata sentenza 8827 della terza sezione civile di questa Corte ha compiuto un ulteriore passo per svincolare dal reato anche il danno morale soggettivo avendo ritenuto che, nel caso di pregiudizi derivanti dalla lesione di un interesse costituzionalmente protetto, «il pregiudizio consequenziale integrante il danno morale soggettivo (patema d’animo) è risarcibile anche se il fatto non sia configurabile come reato».
Potrebbe quindi essere posto in discussione, ove si seguisse questo orientamento, il diniego del danno morale soggettivo: sia per la riparazione a seguito di revisione che per quella per l’ingiusta detenzione ‑ le cui conseguenze neppure astrattamente (proprio per la causa che ha dato origine alla vicenda ravvisabile nel legittimo esercizio di una pubblica funzione) possono essere ricondotte alla consumazione di un reato ‑ potrebbe infatti essere riconosciuta anche il danno morale soggettivo vertendosi, come si vedrà più avanti, in tema di lesione dei diritti inviolabili dell’uomo.
In realtà all’istante non è derivato alcun danno da questa statuizione perché le sofferenze fisiche e morali sono state prese in considerazione dai giudici di merito per la liquidazione del danno esistenziale. Peraltro non appare condivisibile l’affermazione della Corte di merito, secondo cui il danno esistenziale di fatto assorbirebbe quello morale; se così fosse si tratterebbe di un modo singolare per aggirare l’affermazione sul diniego della riparazione del danno morale soggettivo. In realtà la Corte, quando individua i presupposti per la liquidazione del danno esistenziale fa riferimento ai presupposti per la riparazione di questo danno e non a quelli del danno morale soggettivo come si preciserà meglio nel capitolo dedicato al danno esistenziale.
d) Il danno biologico. Vanno invece ora prese in esame le doglianze che si riferiscono alla liquidazione del danno biologico e di quello esistenziale. Prescindendo per il momento dalle critiche sui criteri adottati dalla Corte di merito per la liquidazione del danno non patrimoniale, che verranno successivamente esaminate, occorre anzitutto premettere alcune considerazioni sulla natura del danno biologico e, successivamente, verificare se sia corretto l’inquadramento, da parte della Corte genovese, del danno biologico nella categoria del danno non patrimoniale.
La nozione di danno biologico è frutto di elaborazione giurisprudenziale (ma recentemente ha trovato significative conferme a livello legislativo con l’entrata in vigore del D.Lgs 38/2000 e della legge 57/2001) ed è costituito dalla compromissione, di natura areddituale, dell’integrità psicofisica della persona. Generalmente è ritenuto necessario che a questa compromissione si accompagni una perdita o riduzione di funzioni vitali, anche non definitiva.
Sul punto della collocazione teorica del danno biologico deve rilevarsi che la qualificazione come danno non patrimoniale data dal giudice della riparazione appare del tutto corretta e confermata dalla giurisprudenza di legittimità. La lesione del bene giuridico tutelato non necessariamente comporta un pregiudizio di natura patrimoniale: chi vive esclusivamente di investimenti finanziari potrà continuare a farlo, e a percepire i medesimi introiti, anche se ha subito un gravissimo incidente che ne provoca l’immobilità. Per converso un danno biologico modesto (per es. una lesione permanente ad una mano) potrà provocare un danno economico rilevantissimo ad un affermato pittore o ad un noto pianista. Ma, in quest’ultimo caso, il danno economico andrà risarcito autonomamente come riduzione della capacità lavorativa (in questo caso specifica) e non come danno biologico che troverà un suo autonomo risarcimento (ma taluni, come si è già accennato, preferiscono usare, per il danno non patrimoniale e quindi anche per il danno biologico, il termine riparazione).
Le due citate sentenze della terza sezione della Corte di cassazione, 8827 e 8828/03, laddove hanno posto il problema della qualificazione del danno biologico non hanno messo quindi in discussione un principio ormai consolidato quello della natura non patrimoniale del danno ‑ ma il suo fondamento normativo riservandosi peraltro di affrontarlo in altra occasione non essendo rilevante nei casi esaminati (le decisioni citate, dopo aver ricordato che «la tutela risarcitoria del c.d. danno biologico viene somministrata in virtù del collegamento tra l’articolo 2043 Cc e l’articolo 32 Costituzione e non già in ragione della collocazione del danno biologico nell’ambito dell’articolo 2059, quale danno non patrimoniale» concludono peraltro nel senso che l’anche tale orientamento, non appena ne sarà fornita l’occasione, merita di essere rimeditato).
Il messaggio, seppur soltanto accennato come obiter dictum, della terza sezione civile è chiaro: fermo restando che il danno biologico è un danno di natura non patrimoniale, e come tale va considerato, il fondamento della tutela deve però rinvenirsi nell’articolo 2059 Cc e non nell’articolo 2043; e questa impostazione è stata autorevolmente accolta anche dalla Corte costituzionale che, investita per l’ennesima volta della questione di costituzionalità dell’articolo 2059 Cc, ha, con la sentenza 233/03, condiviso integralmente il mutamento giurisprudenziale del giudice di legittimità sul danno non patrimoniale e ha espressamente affermato la natura non patrimoniale del danno biologico tutelabile attraverso la tutela fornita dall’articolo 2059 Cc che, proprio in conseguenza di questa interpretazione costituzionalmente orientata, si è salvato ancora una volta dalla dichiarazione di incostituzionalità.
Questo collegio non ignora che autorevole corrente dottrinaria ha posto motivatamente in discussione questo orientamento ed in particolare la tendenza a creare, con l’interpretazione ricordata dell’articolo 2059 Cc, una clausola generale di responsabilità non patrimoniale relegando l’articolo 2043 del medesimo codice a clausola generale di responsabilità patrimoniale. Ritiene pero di condividere l’orientamento ricordato per affermare la natura non patrimoniale del danno biologico e la sua collocazione all’interno dell’articolo 2059 Cc quale danno alla salute tutelato direttamente dall’articolo 32 della Costituzione.
Senza addentrarsi in una problematica che sarebbe opera di presunzione tentare di risolvere da parte del giudice penale di legittimità, è infatti possibile osservare che le fondate preoccupazioni della corrente dottrinaria contraria a questa evoluzione della giurisprudenza ‑preoccupazioni dirette soprattutto alla finalità di non estendere in modo abnorme una forma di responsabilità per sua natura dai contorni generici e indefiniti ‑ possono essere significativamente attenuate con una duplice considerazione: 1) anche il danno non patrimoniale richiede pur sempre l’ingiustizia (oltre che l’elemento soggettivo e il rapporto di causalità) secondo i criteri di valutazione formatisi nell’interpretazione dell’articolo 2043 Cc (che può quindi continuare a rappresentare la clausola generale della responsabilità compresa quella per danni non patrimoniali; un passaggio della sentenza 8828/03 lo dice espressamente); 2) l’applicazione estensiva dell’articolo 2059 Cc non dà luogo ad un abnorme ampliamento dei casi di danni risarcibili perché la selezione degli interessi meritevoli di tutela avviene con il parametro costituzionale (addirittura, se il riferimento è all’articolo 2, con la sola considerazione dei diritti l’inviolabili).
In definitiva il sistema della responsabilità per danno non patrimoniale è dotato di due filtri, quello dell’articolo 2043 e, una volta superato questo varco, quello dell’articolo 2059 (casi previsti dalla legge, reato, lesione di diritti costituzionalmente protetti). E questo assetto, tra l’altro, garantisce un sufficiente grado di tipicità delle ipotesi di danno riparabile venendo incontro ad un’altra preoccupazione espressa da una parte della dottrina. Si aggiunga, come possibile (e discusso) ulteriore criterio selettivo (peraltro non richiamato né dalla Corte costituzionale né dalla Cassazione), quello sostenuto da autorevole dottrina che richiede inoltre, come previsto da altri ordinamenti per i danni non patrimoniali, una gravità dell’offesa che giustifichi la riparazione.
Insomma ingiustizia del danno e valori costituzionali valgono sufficientemente a selezionare i danni meritevoli di tutela riparatoria, anche se provocati nell’esercizio di attività legittime (ma con conseguenze ingiuste) rispetto a quelli bagatellari. Sarà pur vero, come è stato autorevolmente osservato a commento ironico delle due sentenze della terza sezione di questa Corte, che con queste decisioni l’articolo 2059 Cc è stato «tirato fuori dallo stanzino dei robivecchi, fatto oggetto di respirazione bocca a bocca, riverniciato completamente, salvato all’ultimo momento dalla rottamazione», ma ciò è avvenuto in un disegno complessivo di razionalizzazione del sistema della responsabilità civile nell’ambito di un processo che mostra una condivisibile tendenza alla tutela dei valori della persona anche quando i pregiudizi subiti dalla medesima non abbiano risvolti economici ma si risolvano nella lesione dell’integrità fisica e morale, degli interessi riguardanti gli affetti, i rapporti personali e familiari. Situazioni giuridiche spesso contrabbandate come aventi carattere patrimoniale proprio per garantirne la tutela giurisdizionale (lo stesso Autore, del resto, constata come spesso sono stati i danni ingiusti a orientare l’interpretazione della norma e non viceversa).
Devono quindi ritenersi infondate le critiche dei ricorrenti, peraltro solo in parte esplicitate, che lamentano, se non una duplicazione di risarcimento, un sostanziale appiattimento, che avrebbe operato la Corte di merito, del danno biologico sulla riduzione della capacità lavorativa. Critica che sarebbe difficile superare ove il danno biologico fosse considerato di natura patrimoniale mentre, ritenendolo di natura non patrimoniale, riescono di maggiore evidenza le linee di demarcazione con il danno economico derivante dalla lesione della capacità lavorativa.
In conclusione su questo punto: corretta è l’affermazione dell’ordinanza impugnata che ritiene di natura non patrimoniale il danno biologico anche se può essere ritenuto non condivisibile il percorso argomentativo che si fonda interamente sull’articolo 2043 Cc ritenendo non applicabile l’articolo 2059. Ma la conclusione cui il giudice della riparazione è pervenuto deve ritenersi giuridicamente corretta.
e) Il danno esistenziale. Questa tipologia di danno ‑ al quale si è già fatto ampiamente cenno trattando in generale del danno non patrimoniale ‑ costituisce il frutto di un’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale relativamente recente. Si è già precisato che il danno esistenziale è ricollegato ad un peggioramento non temporaneo della qualità della vita del danneggiato con un conseguente mutamento radicale delle sue abitudini, dei suoi rapporti personali e familiari. Sulla natura, presupposti e fondamento del danno esistenziale la dottrina è divisa (si sono formate tre scuole facenti capo a sedi universitarie denominate triestina, torinese e pisana, quest’ultima contraria alla categoria del danno esistenziale) mentre la giurisprudenza è sempre più orientata a ritenere ammissibile la riparazione del danno esistenziale e questo percorso è da ritenere confermato dalle citate sentenze 8828 e 8827 e da quella della Corte costituzionale n. 233 (quest’ultima, a differenza delle altre due, fa esplicito riferimento anche al danno esistenziale).
Quanto al danno esistenziale non è condivisibile la critica di fondo contenuta nei due ricorsi che, sostanzialmente, lamentano che, con il riconoscimento del danno esistenziale, si opererebbe un’indebita duplicazione risarcitoria con il danno biologico. Questa duplicazione non esiste perché il danno esistenziale è cosa diversa dal danno biologico e non presuppone alcuna lesione fisica o psichica, né una compromissione della salute della persona, ma si riferisce ai già indicati sconvolgimenti delle abitudini di vita e delle relazioni interpersonali provocate dal fatto illecito. Si vedano gli esempi esaminati, e già accennati, nelle sentenze 8827 e 8828.
Neppure appare corretta l’affermazione, contenuta nell’ordinanza impugnata, secondo cui il danno morale soggettivo, non risarcibile per la ragione indicata, sarebbe di fatto assorbito dal danno esistenziale perché, anche con questa affermazione, si confonde la natura delle due tipologie di danno: il danno morale soggettivo (pati) si esaurisce nel dolore provocato dal fatto dannoso, è un danno transeunte di natura esclusivamente psicologica; il danno esistenziale (non facere ma anche un facere obbligato che prima non esisteva), pur avendo conseguenze di natura psicologica, si traduce in cambiamenti peggiorativi permanenti, anche se non sempre definitivi, delle proprie abitudini di vita e delle relazioni interpersonali.
La non sovrapponibilità tra le due categorie di danno emerge chiaramente proprio in relazione all’ingiusta detenzione: la privazione della libertà personale per un solo giorno può provocare un gravissimo danno morale ma il danno esistenziale, in questi casi, può anche mancare. Si è però già rilevato che la statuizione sulla non risarcibilità del danno morale è da ritenere ormai definitiva per mancata impugnazione; sotto altro profilo i danni che la Corte indica come produttivi di questo danno sono invece tutti riferibili a conseguenze di natura esistenziale e come tali correttamente considerate (la Corte fa infatti riferimento al “carico di sofferenze” ma lo ricollega l’al modificato regime di vita e alla privazione della libertà personale, le cui conseguenze perdurano nel tempo, non avendo potuto il Barillà, dopo la scarcerazione, ripristinare le sue precedenti abitudini di vita. Non quindi sofferenza psicologica transitoria connaturata al danno morale soggettivo ma sconvolgimento perdurante nel tempo (anche successivamente all’avvenuta scarcerazione) delle abitudini di vita che costituisce l’aspetto caratterizzante del danno esistenziale.
Orbene, nel caso in esame il giudice di merito ha accertato l’esistenza di tutti i presupposti per la risarcibilità del danno esistenziale subito da Barillà, e ben può affermarsi che l’ipotesi in esame costituisca un caso emblematico dello sconvolgimento esistenziale che procurano una detenzione, una sottoposizione a processo e una condanna ad una lunga pena da espiare, poi rivelatesi ingiuste, e da cui conseguono la privazione della libertà personale, l’interruzione delle attività lavorative e di quelle ricreative, l’interruzione dei rapporti affettivi e di quelli interpersonali, il mutamento radicale peggiorativo e non voluto delle abitudini di vita e altre che non è necessario precisare. Insomma l’ingiusta detenzione e l’ingiusta sottoposizione a processo costituiscono forse un caso ancor più significativo tra quelli che la giurisprudenza ha fino ad oggi preso in considerazione per fondare la risarcibilità del danno esistenziale.
Quanto al fondamento giuridico (il rinvio, da taluno ritenuto riserva di legge, contenuto nell’articolo 2059 Cc) in questo caso la tutela si fonda non solo sulla norma costituzionale generica (articolo 2 che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo) ma anche sulle norme, specifiche, che sanciscono l’inviolabilità della libertà personale (articolo 13) e tutelano le libertà, previste negli articoli successivi, che la detenzione inevitabilmente comprime o addirittura esclude (per es. la libertà di circolazione).
Ne consegue che correttamente la Corte di merito ha ritenuto la risarcibilità (o riparabilità) anche del danno esistenziale perché ricollegato ad una privazione o restrizione legittime ‑ ma successivamente rivelatesi ingiuste ‑ degli indicati diritti garantiti non solo dalla nostra Costituzione ma anche dai già ricordati articolo 5 comma 50 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e sull’articolo 9 n. 5 del Patto internazionale dei diritti civili e politici.
Sicché sembra del tutto condivisibile l’affermazione fatta in dottrina, proprio a commento dell’ordinanza in esame, che l’articolo 643 Cpp “contempli uno dei casi di risarcibilità dei danni non patrimoniali a cui rinvia l’articolo 2059 Cc”.
f) I criteri di determinazione e liquidazione del danno non patrimoniale. Va premesso che le innovazioni giurisprudenziali riferite non influiscono sui criteri di determinazione e liquidazione del danno non patrimoniale. Per quanto riguarda le critiche rivolte dai ricorrenti, sotto questi profili, all’ordinanza impugnata (con particolare riferimento al danno biologico perché di quello esistenziale sembra essere contestata la sola ammissibilità non la quantificazione) si osserva innanzitutto che non è fondata la critica che si riferisce alla quantificazione del danno avendo l’ordinanza impugnata fatto riferimento ai criteri utilizzati dal perito che ha ampiamente motivato la percentualizzazione che, peraltro, i ricorrenti neppure contestano con argomentazioni specifiche per cui la doglianza è altresì da ritenere generica.
Parimenti infondate si rivelano le critiche secondo cui non sarebbe stato formulato al perito alcun quesito in tema di danno biologico e alla mancata percentualizzazione del medesimo. Se è vero infatti che il danno biologico consegue ad una valutazione di tipo medico legale è altrettanto vero che una volta compiuta questa operazione, anche con la percentualizzazione dell’invalidità (cosa che il perito ha fatto), l’inquadramento giuridico nelle varie categorie risarcibili costituisce compito del giudice di merito ‑ che, nel caso di specie, ha correttamente adempiuto a questo compito ‑ cui è attribuito il compito di valutare le conseguenze, di natura patrimoniale o non patrimoniale, dell’invalidità accertata.
Per quanto riguarda invece il mancato uso dei criteri tabellari (sempre in merito al danno biologico) si osserva che questo criterio, comunemente utilizzato dalla giurisprudenza civile di merito, e la cui correttezza è ormai indiscussa anche in sede di legittimità, costituisce un utile strumento di disciplina per limitare la discrezionalità inevitabile della valutazione equitativa. La natura non patrimoniale e areddituale del danno biologico non consente infatti una ricostruzione dell’entità, in termini monetari, del danno risarcibile e il sistema tabellare (peraltro diversificato nelle varie sedi giudiziarie: attualmente quello che forse trova maggior consenso è quello c.d. “a punto tabellare”, elaborato dalla giurisprudenza milanese) viene incontro all’esigenza di evitare ingiustificate disparità di trattamento inevitabili con l’uso di un criterio equitativo “puro”.
Ciò premesso va però precisato che il sistema tabellare non può essere considerato obbligatorio perché nessuna norma ne impone l’adozione per i danni da responsabilità aquiliana e quindi deve ritenersi ammissibile una liquidazione meramente equitativa purché il giudice abbia dato conto dei criteri equitativi seguiti nella liquidazione, questi criteri non appaiano illogici e la liquidazione non si discosti clamorosamente e immotivatamente (in più o in meno) dai criteri tabellari che costituiscono pur sempre il metodo di liquidazione che il diritto vivente adotta e privilegia
V’è da osservare inoltre che la valutazione esclusivamente equitativa del danno biologico potrebbe trovare conferma nelle considerazioni che le sentenze 8827 e 8828 citate svolgono in merito alla opportunità di una valutazione complessiva di tutti i danni non patrimoniali, compreso quello biologico. Una valutazione complessiva renderebbe infatti non impossibile ma certamente più complesso utilizzare il metodo tabellare.
Nel caso di specie il giudice di merito si è adeguato ai principi indicati perché ha preso in esame i criteri prospettati optando per una valutazione equitativa che si discosta in aumento non di molto, in termini percentuali (meno del 25 %), dal risultato conseguibile con il criterio tabellare e costituisce meno di un terzo della richiesta dell’istante. Nella motivazione dell’ordinanza impugnata vengono richiamate le caratteristiche della vicenda per sottolineare la gravità del danno biologico subito evidenziando i gravi danni alla salute provocati dalla detenzione e dalle altre conseguenze della detenzione, del processo e della condanna. Insomma i giudici hanno giustificato congruamente la loro decisione sul punto valutando criticamente le opzioni proposte al fine di determinare il valore definitivo assegnato alla liquidazione per questo titolo.
Quanto alla valutazione del danno esistenziale, che effettivamente potrebbe sembrare liquidato con eccessiva larghezza (Euro 1.000.000,00), va rilevato che tale statuizione si appalesa incensurabile in sede di legittimità trattandosi (ovviamente) di valutazione esclusivamente equitativa per un danno che, per l’estrema variabilità delle situazioni tutelate, neppure si presterebbe ad una disciplina tabellare analoga a quella del danno biologico.
E, anche in questo caso, l’unica censura che potrebbe astrattamente ipotizzarsi ‑ quella della manifesta illogicità conseguente ad una valutazione apoditticamente ed arbitrariamente espressa ‑ è da escludere perché i giudici di merito hanno fornito di adeguata, congrua e certamente non illogica motivazione la loro valutazione facendo ampio riferimento, oltre che alla durata della carcerazione, alle forzate rinunce di Barillà alle proprie abitudini di vita, alla perdita dell’attività d’impresa e di lavoro. all’interruzione del rapporto affettivo, poi risoltosi definitivamente, di Barillà con la fidanzata anche lei colta da disturbi depressivi e costretta a subire un ricovero psichiatrico, alla necessità di vendere la casa di abitazione, all’impossibilità di partecipare ai funerali del padre, al discredito sociale conseguente all’essere stato considerato (con sentenza passata in giudicato ! ) un grosso trafficante di sostanze stupefacenti (il quantitativo sequestrato nell’operazione fu di 50 chili di cocaina).
Come è agevole verificare si tratta di motivazione esente da vizi logici e giuridici sulla quale non può essere esercitato lo scrutinio di legittimità richiesto dai ricorrenti.
Conclusivamente i ricorsi devono essere accolti nei limiti indicati con rinvio alla Corte d’appello di Genova per nuovo esame sui punti oggetto dell’annullamento. L’accoglimento solo parziale dei ricorsi consente di compensare integralmente le spese tra le parti del presente grado di giudizio mentre quelle del giudizio di merito formeranno oggetto di nuova valutazione in esito al giudizio di rinvio.
PQM
La Corte suprema di cassazione, sezione quarta penale, annulla l’ordinanza impugnata limitatamente ai seguenti profili dell’indennizzo: perdita dell’attività commerciale; spese di difesa; riduzione della capacità lavorativa.
Rinvia per nuovo esame sui punti indicati alla Corte d’appello di Genova.
Rigetta nel resto i ricorsi e compensa integralmente le spese di questo grado di giudizio tra le parti.