Diffamazione - farrneticazioni uterine - attribuzione di natura lewinskiana - frasi offensive contenute in una comparsa di risposta - 2
il regime delle spese va regolato secondo il criterio della soccombenza (Corte di Cassazione - Sezione Quinta - Sentenza del 2 dicembre 2008, n. 44887)
diffamazione - “farneticazioni uterine” - attribuzione di “natura lewinskiana” - frasi offensive contenute in una comparsa di risposta - il regime delle spese va regolato secondo il criterio della soccombenza (Corte di Cassazione - Sezione Quinta - Sentenza del 2 dicembre 2008, n. 44887)
Motivi della decisione
Con sentenza in data 29 settembre 2006 il Tribunale di Foggia in composizione monocratica, in accoglimento dell’appello proposto dalla parte civile contro la pronuncia di assoluzione emessa dal locale giudice di pace, ha dichiarato M. D. V. responsabile del delitto di diffamazione in danno di G. M., in relazione al contenuto offensivo di una comparsa di risposta da lui depositata, quale avvocato, in una controversia civile nella quale era parte la M.; ha quindi condannato l’imputato ai soli effetti civili, ponendo a suo carico il risarcimento dei danni in favore della M. e la rifusione delle spese relative al grado di appello.
La parte civile ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del difensore munito di procura speciale, affidandolo a tre motivi.
Col primo motivo la ricorrente lamenta che sia mancata la condanna del D. V. agli effetti penali, sebbene l’appello fosse stato da essa proposto ai sensi dell’art. 577 c.p.p. prima dell’abrogazione di questa norma.
Col secondo motivo deduce contraddittorietà della motivazione in ordine al quantum dell’obbligazione risarcitoria.
Col terzo motivo, infine, la ricorrente si duole che il Tribunale abbia omesso di condannare l’imputato al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di primo grado.
Il ricorso è fondato in ogni sua parte e merita, perciò, integrale accoglimento.
Il Tribunale ha ritenuto che l’appello della parte civile potesse trovare accesso soltanto nella parte riguardante gli effetti civili, in quanto, dopo la proposizione del gravame, era intervenuta l’abrogazione dell’art. 577 c.p.p. ad opera dell’art. 9 L. 20 febbraio 2006, n. 46. Tale modo di argomentare, peraltro, ha trovato confutazione nel principio, affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte Suprema con sentenza n. 27614 in data 29 marzo 2007 (ric. p.c. in proc. Lista), a tenore del quale l’impugnazione proposta dalla parte civile agli effetti penali contro la sentenza emessa nei procedimenti relativi a reati di ingiuria e diffamazione, prima della data di entrata in vigore dell’art. 9 L. 20 febbraio 2006 n. 46, conserva la sua efficacia anche dopo quella data, stante l’assenza di una disciplina transitoria espressa in senso derogatorio, tale non potendo considerarsi quella contenuta nell’art. 10 della medesima legge. Poiché, nel caso di cui ci si occupa, la sentenza di primo grado è stata emessa il 25 luglio 2005, l’appello proposto dalla parte civile doveva essere considerato ammissibile ed efficace anche ai fini penali.
Priva di consequenzialità logica, in quanto contraddittoria rispetto a una valutazione precedentemente formulata nello stesso provvedimento, è l’affermazione che si legge nella sentenza del Tribunale, nella parte riguardante la liquidazione del danno, secondo la quale le espressioni impiegate dall’Avv. D. V. nel riferirsi alla controparte “non appaiono di rilevante gravità nella loro effettiva consistenza”; poche pagine prima, invero, nell’esprimersi in ordine all’an della pretesa risarcitoria, lo stesso giudice aveva osservato che l’espressione “farneticazioni uterine” era frutto di un retaggio maschilista e gravemente offensiva; aggiungendo poi che anche l’attribuzione alla M. di una “natura lewinskiana” era gravemente lesiva della sua reputazione.
Non si vede, pertanto, in base a quale logica delle espressioni ritenute gravemente offensive ai fini della configurabilità dell’illecito penale possano poi, nello stesso contesto motivazionale, perdere tale connotazione di gravità ai fini della quantificazione del danno.
La fondatezza del terzo motivo di gravame deriva dal principio - mutuato dalla disciplina delle spese processuali civili (art. 91 c.p.c.), in virtù del carattere privatistico dell’azione civile esercitata nel processo penale - secondo cui il regime delle spese va regolato secondo il criterio della soccombenza, da valutarsi in base all’esito finale, a nulla rilevando che una parte, risultata infine soccombente, sia stata vittoriosa in qualche fase o grado (v. Cass. 15 ottobre 1999, Barbisan). Ne consegue che il giudice di appello, avendo riformato ai fini civili la precedente sentenza di assoluzione, avrebbe dovuto disporre (nel senso della condanna dell’imputato, salvo compensazione totale o parziale) non soltanto sulle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di appello, ma anche su quelle di primo grado.
Per tutte le ragioni fin qui esposte la sentenza impugnata deve essere annullata.
Il giudice di rinvio, che si designa nello stesso Tribunale di Foggia in persona di altro magistrato, sottoporrà l’imputato a nuovo giudizio anche ai fini penali, riesaminando le statuizioni civili in base ai principi dianzi indicati. All’esito provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità nei rapporti tra le parti private (v. Cass. 10 luglio 2003, P.M. in proc. Larné).
P.Q.M.
la Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Foggia per nuovo giudizio. Spese della parte civile al definitivo.