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Reato - Remissione querela - Declaratoria di estinzione del reato per remissione di querela

Reato - Remissione querela - Declaratoria di estinzione del reato per remissione di querela - Ricorso del P.M. per violazione di legge (art. 155 cod. pen. E 340 cod. proc. Pen.) - Inammissibilità per difetto di interesse - Sussistenza - Ragioni. È inammissibile per difetto di interesse il ricorso per cassazione - avverso la sentenza che dichiari l'estinzione del reato per remissione di querela - proposto dal Pubblico ministero per dedurre che l'imputato non è stato posto in condizioni di esprimere validamente la volontà di accettare o ricusare la remissione, trattandosi di interesse che può essere riconosciuto solo in capo all'imputato stesso. Corte di Cassazione Sez. 2, Sentenza n. 12393 del 10/03/2011 Cc.

Reato - Remissione querela - Declaratoria di estinzione del reato per remissione di querela - Ricorso del P.M. per violazione di legge (art. 155 cod. pen. e 340 cod. proc. pen.) - Inammissibilità per difetto di interesse - Sussistenza - Ragioni. È inammissibile per difetto di interesse il ricorso per cassazione - avverso la sentenza che dichiari l'estinzione del reato per remissione di querela - proposto dal Pubblico ministero per dedurre che l'imputato non è stato posto in condizioni di esprimere validamente la volontà di accettare o ricusare la remissione, trattandosi di interesse che può essere riconosciuto solo in capo all'imputato stesso. Corte di Cassazione Sez. 2, Sentenza n. 12393 del 10/03/2011 Cc.

OSSERVA

Con sentenza del 5 novembre 2010, il Tribunale di Pordenone, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di To.. Salvo Felice in ordine al reato di cui all'art. 646 c.p.. Al medesimo ascritto perché estinto per intervenuta remissione di querela, considerata la assenza di ricusa espressa o tacita da parte dell'imputato.

Avverso la sentenza indicata in premessa ha proposto ricorso per cassazione il pubblico ministero il quale deduce violazione di legge, non potendosi nella specie ritenere che l'imputato abbia espressamente o tacitamente accettato la remissione di querela. Il tema ha, come è noto, dato luogo ad un contrasto di giurisprudenza. Secondo un orientamento, infatti, la mancata comparizione dell'imputato, ritualmente citato all'udienza in cui il querelante rimetta la querela e dichiarato contumace, non integra accettazione tacita della remissione, ma, di per sè, costituisce un mero esercizio di una facoltà processuale, ove non risulti che l'imputato sia a conoscenza della volontà di remissione manifestata in udienza dalla persona offesa (Cass., Sez. 5, 3 febbraio 2010, p.g. in proc. Ballarmi; Cass., Sez. 5, 3 dicembre 2009, p.g. in proc. Chiaramonti; Cass., Sez. 2, 8 luglio 2009, p.g. in proc. Prinich, ove si è affermato che la mancata comparizione alla udienza del querelato contumace non integra accettazione tacita della remissione di querela, neppure ove egli sia venuto a conoscenza di tale remissione). In senso opposto, si è invece affermato che la mancata comparizione dell'imputato, ritualmente citato, determina l'accettazione tacita della remissione di querela (Cass., Sez. 5, 27 maggio 2010, p.g. in proc. Apicella; Cass., Sez. 5, 5 dicembre 2008, p.g. in proc. Zatti; v. anche RV 240438).

Entrambi gli opposti orientamenti, formatisi tutti a seguito di ricorsi proposti dal pubblico ministero, non tengono peraltro conto, ad avviso di questo collegio, del pregiudiziale profilo rappresentato dalla verifica della sussistenza di un interesse concreto ed attuale del pubblico ministero a proporre impugnazione avverso la sentenza che, in presenza della intervenuta remissione di querela, abbia dichiarato per tale causa estinto il reato, facendo leva - in ipotesi, erroneamente - sulla accettazione tacita della stessa, da parte dell'imputato.

A tale riguardo occorre anzitutto ribadire che la sussistenza di uno specifico interesse a proporre la impugnazione è espressamente richiesto dall'art. 568 c.p.p., comma 4, con una formulazione che riproduce - a fedele testimonianza del carattere più che "tradizionale" del principio - la disposizione enunciata dall'art. 190, comma 4, del codice del 1930; interesse che il codice costruisce - secondo una precisa opzione che vale a qualificarne il risalto - come una condizione di ammissibilità dell'esercizio del diritto di impugnazione, distinto dal contenuto della medesima (Cass., Sez. un., 12 ottobre 1993, Biscione), e che deve essere connotato dai requisiti della concretezza e dell'attualità (Cass., Sez. un., 12 maggio 1992, Amato). In particolare, si è osservato, in coerenza col carattere dispositivo delle impugnazioni, la cui proposizione è rimessa alla iniziativa delle parti e la cui perdurante efficacia è subordinata alla volontà delle stesse, secondo quanto attesta l'istituto della rinuncia, la facoltà di attivare i procedimenti di gravame - o di impugnativa in genere - non è considerata assoluta ed indiscriminata; essa è, infatti, subordinata alla presenza di una situazione in forza della quale il provvedimento del giudice risulta idoneo a produrre la lesione della sfera giuridica dell'impugnante e l'eliminazione o la riforma della decisione gravata rende possibile il conseguimento di un risultato vantaggioso: con la conseguenza, ripetutamente posta in risalto dalla giurisprudenza, che la legge processuale non ammette l'esercizio del diritto di impugnazione avente di mira la sola esattezza teorica della decisione, senza che alla posizione giuridica del soggetto derivi alcun risultato pratico favorevole (Cass., Sez. un., 13 dicembre 1995, p.m. in proc. Timpani;

Cass., Sez. un., 24 marzo 1995, p.m. in proc. Boido; Cass., Sez. un., 16 marzo 1994, Rusconi; Cass., Sez. un., 11 maggio 1992, Amato, nonché, più di recente e fra le tante, Cass., Sez. 6, 19 febbraio 2009, Deriu). Si è pure sottolineato, al riguardo (Cass., Sez. un., 27 settembre 1995, Serafino), che collegare l'interesse ad impugnare alla lesione della sfera giuridica, e, correlativamente, al vantaggio concreto che deve derivare dalla rimozione o dalla modificazione del provvedimento gravato, significa necessariamente attribuire all'impugnazione la configurazione di rimedio a disposizione delle parti per la tutela di disposizioni soggettive giuridicamente rilevanti e non di meri interessi di fatto, giacché, ove così non fosse, lo scrutinio circa la sussistenza di un presupposto di ammissibilità della impugnazione non sarebbe fondato su parametri di tipo obiettivo, ma sul soggettivo (e inconferente) apprezzamento della parte che propone il rimedio impugnatorio.

Principi, quelli enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte, che, non a caso, si trovano in linea con l'intera gamma degli strumenti di impugnazione che l'ordinamento appresta nei vari settori, posto che il requisito dell'interesse concreto ed attuale condiziona, come è noto, anche le impugnazioni civili, quelle amministrative e, financo il giudizio contenzioso del confitto tra poteri dello Stato, ove il ricorso che lo attiva mira a rimuovere l'atto che si assume in vasi vo della sfera di attribuzioni costituzionalmente presidiata (v., fra le tante, Corte cost. ordinanza n. 20 del 2011, nonché ordinanza n. 62 del 2000). Si tratta, dunque, di un principio cardine dell'ordinamento, radicato sull'ovvia considerazione che il contenzioso e il perdurarsi dello stesso, in tanto ha un senso, in quanto il portatore della posizione soggettiva che si intende tutelare coniughi alla astratta titolarità del diritto anche la pretesa concreta di ottenere un determinato "bene della vita" attraverso la coltivazione di quel diritto. Ciò, ad impedire che, proprio di quel diritto, si possa realizzare un "abuso," attraverso l'esercizio di una azione (nella specie di impugnativa) che finisse per risultare priva di "causa" giuridicamente tutelabile. Tali rilievi non mutano anche se viene in discorso la peculiare "prospettiva" del pubblico ministero.

Questa Corte ha infatti avuto modo di affermare, reiteratamente, che, avuto riguardo alla natura di parte sui generis del pubblico ministero, pubblica e non privata, e alla fondamentale funzione di vigilanza sull'osservanza delle leggi e sulla pronta e regolare amministrazione della giustizia, sancito dall'art. 73 ord. giud., non v'è dubbio che in tale organo sussista l'interesse ad impugnare ogni qual volta ravvisi la violazione o l'erronea applicazione di una norma giuridica, sempre che tale interesse presenti i caratteri della concretezza e della attualità, quando cioè la impugnazione miri ad un risultato non teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole, come nella ipotesi in cui il pubblico ministero invochi la sostituzione della formula "fatto non costituisce reato" con quella "fatto non preveduto dalla legge come reato". Infatti, si è osservato, "in tale ultima ipotesi si sanziona l'esclusione del fatto contestato dal novero dei reati, cioè estraneità totale della condotta dall'ambito penalmente rilevante, il che equivale alla affermazione della completa infondatezza dell'accusa sul piano giuridico, che assume, quindi, un valore, ai fini del riconoscimento della innocenza dell'imputato, ben maggiore di quello che può attribuirsi all'affermazione che il fatto non costituisce reato per mancanza dell'elemento psicologico o per la presenza di una causa di giustificazione, cioè di fattori specifici e contingenti, che ben possono non escludere il carattere moralmente e socialmente riprovevole della condotta" (Cass., Sez. un., 24 marzo 1995, p.m. in proc. Boido; v. anche, Cass., Sez. un., 13 dicembre 1995, p.m. in proc. Timpani).

I risultati pratici che attraverso l'azione di impugnativa si intendono conseguire, e che caratterizzano la sussistenza dell'interesse, si saldano dunque intimamente alle peculiari "prospettive" che connotano la posizione della specifica parte processuale che viene in considerazione, proprio perché, correlandosi l'interesse "concreto ed attuale" al principio dispositivo che regola i vari mezzi di impugnazione (attivabili solo a domanda e rinunciabili dalla stessa parte), è esclusivamente la parte a poter "calibrare" le esigenze che, nel processo, si intendono soddisfare attraverso la impugnazione. È, dunque, soltanto "quella" parte a dover "esprimere" l'interesse ad attivare e coltivare l'impugnativa, secondo quella che è la specifica direzione e l'obiettivo che la domanda - di rimozione, modifica e quant'altro, del provvedimento impugnato - intende perseguire. Tale "prospettiva", pertanto, non può non riferirsi anche al pubblico ministero, dal momento che l'"interesse" della parte pubblica, pur con tutte le particolarità connesse alle specifiche attribuzioni, anche di rango costituzionale, che la caratterizzano, si qualificano necessariamente in funzione di uno specifico "obiettivo" che, attraverso la impugnazione, essa è istituzionalmente legittimata a perseguire.

Così, ad esempio, è pacifico, in giurisprudenza, che il pubblico ministero sia privo di interesse ad impugnare ove, attraverso la impugnazione, si persegua il fine di tutelare gli interessi civili che il fatto-reato può aver coinvolto. Il pubblico ministero, infatti, è estraneo al rapporto processuale civile instauratosi incidentalmente nel processo penale tra i soggetti danneggiati dal reato e l'imputato, ed è perciò collocato in una posizione di indifferenza rispetto ai profili di soccombenza propri della azione civile risarcitoria; sicché, lo stesso pubblico ministero non è legittimato ad impugnare un provvedimento all'esclusivo fine di tutelare gli interessi civili delle parti private, ne' a surrogarsi all'eventuale inerzia delle stesse (cfr,. sul punto, Cass., Sez. 1, 10 gennaio 2007, p.c. e p.g. in proc. Bartolucci).

Ma anche nei confronti dell'imputato - specie alla luce del principio di parità delle parti processuali, ora espressamente recepito come "cardine" costituzionale del "giusto processo" - non può concepirsi un analogo potere di surroga, tale da consentire al pubblico ministero una sorta di "intervento sostitutivo" quante volte l'imputato abbia prestato acquiescenza ad una determinata decisione giurisdizionale, secondo una valutazione dei "propri" interessi che ben può non corrispondere a quella - generale ed astratta, quale è quella dell'osservanza della legge - che al contrario è in grado di animare le"prospettive" impugnatorie del pubblico ministero. E tutto ciò risulta, a parere di questo collegio, particolarmente evidente proprio nel caso di specie.

Rispetto, infatti, ad una pronuncia che, in presenza di una remissione di querela, dichiari - in ipotesi ritualmente - la estinzione del reato, il pubblico ministero potrà dolersene ove contesti la intervenuta remissione, ma non, come nella vicenda in esame, qualora deduca, a fondamento del ricorso il "vizio" rappresentato dal fatto che l'imputato non e stato posto n condizione di esprimere validamente la propria volontà se accettare o ricusare la remissione della querela, giacché un simile "interesse" non può che essere riconosciuto soltanto in capo all'imputato stesso. Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Così deciso in Roma, il 10 marzo 2011.
Depositato in Cancelleria il 28 marzo 2011

 

Documento pubblicato su ForoEuropeo - il portale del giurista - www.foroeuropeo.it