Testimone di Genova - Rifiuto delle trasfusioni
23/02/2007 Testimone di Genova - Rifiuto delle trasfusioni - richiesta di risarcimento dei danni morali patiti per essere stato costretto, contro la sua volonta' a subire l’intervento, espressamente rifiutato, di una trasfusione sanguigna
Testimone di Geova - Rifiuto delle trasfusioni - richiesta di risarcimento dei danni morali patiti per essere stato costretto, contro la sua volontà a subire l’intervento, espressamente rifiutato, di una trasfusione sanguigna (Cassazione , sez. III civile, sentenza 23.02.2007 n. 4211)Svolgimento del processo
Con citazione del 14/10/2002 T. S. proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale, sezione stralcio, del 9/7/2002 di rigetto della domanda di risarcimento dei danni morali patiti per essere stato costretto, contro la sua volontà a subire l’intervento, espressamente rifiutato, di una trasfusione sanguigna.
Premesso, in fatto, che la mattina del 15/5/1990 veniva, a seguito di un incidente stradale, ricoverato presso il pronto soccorso dell’Ospedale Santa Chiara ed immediatamente trasferito nel reparto rianimazione perché affetto da rotture multiple e rottura dell’arteria principale con emorragia in atto; che nel corso del successivo intervento chirurgico veniva sottoposto a trasfusione sanguigna nonostante avesse dichiarato che, in ossequio alle proprie convinzioni religiose Testimone di Geova non voleva gli venisse praticato tale trattamento; tutto ciò premesso, si doleva dell’erroneità ed offensività della scarna sentenza, impugnata sotto diversi profili.
In primo luogo lamentava che il primo Giudice avesse affermato che,non essendo stato contestato ai sanitari alcun reato, non potesse essere loro addebitata alcuna responsabilità, ben potendo, al contrario, il Giudice civile accertare la sussistenza di un reato al limitato fine di decidere sulla domanda risarcitoria.
Nella specie, in considerazione dell’esplicita manifestazione di volontà diretta a rifiutare la trasfusione, la consapevole e volontaria violazione, da parte dei sanitari, di tale volontà configurava gli estremi del reato di violenza privata.
In secondo luogo, il Tribunale aveva ritenuto che i sanitari si fossero trovati di fronte alla necessità di salvargli la vita e che, conseguentemente, ciò avrebbe reso comunque lecito, ai sensi dell’articolo 54 c.p., il loro comportamento. Senonché il presunto stato di necessità da una parte era stato causato dagli stessi sanitari, che erano intervenuti tardivamente operandolo dopo ben sei ore dal ricovero, dall’altra sarebbe stato evitabile trasferendolo in altro nosocomio attrezzato per l’autotrasfusione.
L’invito offensivo del Giudice a rivolgersi a “guaritori o sciamani”, poi, era del tutto inconferente non avendo egli assolutamente rifiutato la medicina tradizionale ma solo quel trattamento medico; del pari inaccettabili le considerazioni “etiche” del primo Giudice in ordine alla richiesta risarcitoria ed all’uso che avrebbe fatto della somma eventualmente percepita (mancata devoluzione in beneficenza).
Chiedeva pertanto, in riforma dell’impugnata decisione, il risarcimento di tutti i danni morali, patrimoniali e biologici subiti.
Si costituiva in giudizio l’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari della Provincia Autonoma (ex USL 5) eccependo, in primo luogo, l’inammissibilità delle nuove domande volte ad ottenere il risarcimento anche del danno biologico e patrimoniale. Nel merito, chiedeva la conferma dell’impugnata decisione, evidenziando come la trasfusione fosse stata effettuata quando non c’erano alternative in considerazione delle condizioni di salute del S.; precisava come il diritto alla vita costituisse un diritto indisponibile costituzionalmente garantito di cui nessuno poteva disporre e come il rifiuto alla trasfusione fosse stato effettuato in un momento in cui le condizioni di salute non erano così gravi come quelle verificatesi poi, in sala operatoria, quando tale dissenso non poteva più essere manifestato. In ogni caso, se anche volessero ritenersi ravvisabili gli estremi di un reato, il comportamento dei sanitari doveva ritenersi scriminato, ai sensi dell’articolo 54 c.p., dalla necessità di salvare il S. dall’imminente ed incombente pericolo di morte.
Con sentenza 19 dicembre 2003 la Corte di Appello rigettava il gravame e dichiarava interamente compensate le spese del grado, affermando: che il primo problema era accertare se fosse possibile evitare le trasfusioni, se, cioè, l’aggravarsi dell’emorragia nel corso dell’operazione fosse prevedibile fin dal momento del ricovero; che la risposta doveva essere negativa dal momento che l’aggravamento delle condizioni del paziente era sopravvenuto appunto durante l’intervento e non poteva essere imputato ai sanitari; che l’altro nodo fondamentale da accertare era se il rifiuto al trattamento trasfusionale manifestato al momento del ricovero potesse ritenersi operante anche al momento in cui le trasfusioni si erano rese necessarie; che la risposta era “se non sicuramente negativa, quantomeno fortemente dubitativa”, essendo assai dubbio che il S., qualora avesse saputo dell’effettiva gravità della lesione e dell’incombente pericolo di vita, avrebbe senz’altro ribadito il suo dissenso, che per essere valido deve essere inequivocabile, attuale, effettivo e consapevole; che, comunque, anche nell’ipotesi in cui l’iniziale dissenso dovesse ritenersi perdurante nel tempo e che quindi i medici si fossero trovati ad operare nella certezza che il trattamento trasfusionale non era consentito dal paziente, tuttavia il comportamento dei sanitari doveva ritenersi scriminato alla luce dell’articolo 54 c.p., essendosi trovati nella necessità di salvare il S. dall’imminente ed incombente pericolo di morte.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il S., affidandolo a due motivi, ai quali ha resistito l’azienda provinciale per i servizi sanitari della provincia autonoma con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente, denunciando la contraddittorietà e comunque la insufficienza della motivazione su punti decisivi della controversia, lamenta che il giudice del gravame non si è neppure posto il problema della evidente negligenza professionale dei sanitari nel l’inadeguatezza della diagnosi quanto alla lesione vascolare, nel senso che il quadro clinico, gravemente compromesso e peggiorato manifestatosi nel corso dell’intervento chirurgico, era perfettamente prevedibile proprio alla luce della diagnosi d’ingresso del paziente. In particolare, il S. afferma, in primo luogo, che la Corte d’appello aveva contraddittoriamente ritenuto che, durante l’intervento chirurgico, gli operatori s’erano trovati dì fronte ad una situazione non prevedibile al momento del ricovero e dei successivi esami clinici e strumentali per essere stata in origine diagnosticata una semplice lesione dell’arteria e della vena succlavia” e per essere stata invece riscontrata una “lacerazione” delle stesse in sala operatoria. Proprio la diagnosi di “lesione” dell’arteria e della vena succlavia avrebbe dovuto, all’opposto, indurre i sanitari ad intervenire immediatamente per frenare l’emorragia, così rendendo superflue le trasfusioni, invece di operare solo cinque ore più tardi, quando non erano più possibili terapie alternative alla trasfusione ematica ed il quadro clinico si presentava, come era del tutto prevedibile, gravemente peggiorato. Né poteva conferirsi alla diagnosi di “lesione dell’arteria e della vena succlavia” una valenza tanto riduttiva da escludere che essa comprendesse l’ipotesi, poi effettivamente riscontrata, dì una possibile lacerazione vascolare, giacché continua il ricorrente in tal caso ai medici sarebbe stato ascrivibile un errore diagnostico risoltosi non solo nella sottoposizione del paziente ad un trattamento terapeutico esplicitamente e ripetutamente rifiutato, ma anche nell’amputazione completa del braccio sinistro che era stata poi necessario praticare.
Si sostiene, in secondo luogo, che il paziente aveva immediatamente domandato di essere trasferito in un ospedale attrezzato per terapie alternative alla trasfusione ematica. La Corte d’appello aveva escluso che ai sanitari fosse ascrivibile qualsiasi responsabilità al riguardo in quanto le indispensabili indagini strumentali avrebbero consentito che ciò avvenisse “al più verso le ore 10”, quando egli non era più in condizione di essere trasferito. Ma osserva il ricorrente se già alle 10 i valori dell’ematocrito erano tanto pregiudicati da rendere impraticabile il trasferimento, è stato logicamente contraddittorio concludere sia che la situazione di emergenza fosse imprevedibile al momento del successivo intervento chirurgico, sia che i medici non versassero in colpa per non avere immediatamente frenato l’emorragia, suturando i vasi la cui “lesione” pure era stata riscontrata dalla ore 7,05.
Né, ancora, la Corte di merito s’era chiesta se l’arteriografia (pur ritenuta necessaria, unitamente all’indagine radiologica ed a quella tomografica, al fine di giustificare il tempo trascorso fino alle ore 10) fosse stata effettivamente eseguita, così offrendo anche una motivazione insufficiente sul punto.
Con il secondo motivo il S. denuncia la violazione e la falsa applicazione degli articolo 13, comma 1 e 32, comma 2, Costituzione e 54 c.p., contestando l’affermazione della Corte territoriale circa la non operatività del suo dissenso alle trasfusioni anche nel successivo momento in cui le stesse si erano rese necessarie. Obietta al riguardo il ricorrente che la richiesta di consenso per la trasfusione non poteva che riferirsi alla necessità di tale trattamento per il mantenimento in vita del paziente e che pertanto il suo rifiuto, espresso sino a pochi minuti prima dell’operazione, era pienamente valido anche pochi minuti dopo ed avrebbe dovuto indurre i medici a non violentare la sua volontà, ma ad adeguarvisi anche se ciò avesse dovuto mettere in pericolo la sua stessa vita.
Osserva inoltre che il richiamo della Corte di merito all’articolo 54 c.p. è erroneo, sia in ragione del fatto che lo stato dì necessità era venuto a determinarsi per negligenze degli stessi medici che si erano avvantaggiati della sua applicazione, sia perché lo stato di necessità può “sostituirsi al consenso mancante per rendere lecito un intervento medico d’urgenza, ma non può in alcun caso elidere e sopraffare il dissenso validamente espresso”, la cui vincolatività si basa sui principi espressi dalle. citate norme costituzionali.
E, nel caso in esame, il paziente aveva legittimamente rifiutato un trattamento medico (trasfusione) che, nella sua scala di valori, gli pareva inaccettabile per motivi morali e religiosi, anche a costo del sacrificio della vita stessa.
Che, del resto, un intervento terapeutico non possa essere praticato senza il consenso “libero ed informato” del paziente è stabilito dall’articolo 5 della legge 28 marzo 2001 (recante “ratifica ed esecuzione della convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina”), la quale fa bensì salvi gli interventi di urgenza indispensabili (articolo 8), ma con la precisazione che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno presi in considerazione” (articolo 9); nonché dall’articolo 32 (recte, 40) del codice di deontologia medica, il quale prescrive che non è “consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”.
Nella specie conclude il ricorrente dopo diffusi richiami della giurisprudenza di legittimità e di merito l’essere stata la trasfusione praticata nonostante un dissenso manifestato per motivi religiosi (in quanto la stessa non è, appunto, ammissibile per gli aderenti alla fede dei testimoni di Geova) l’atto compiuto dai medici aveva comportato anche la violazione del principio stabilito dall’articolo 19 della Costituzione.
I due motivi, che per la stretta connessione e conseguenzialitá logico-giuridica possono esaminarsi congiuntamente, non sono fondati.
Per quanto concerne il primo motivo la Corte trentina, condividendo con apprezzamento consapevole e critico le conclusioni del C.T.U. , ha ritenuto che al momento del ricovero “appariva possibile una terapia alternativa alla trasfusione, che fu correttamente attuata dai sanitari della rianimazione”; che le emotrasfusioni si erano rese necessarie nel corso dell’intervento chirurgico “quando l’ulteriore peggioramento dell’ematocrito, l’ipertensione arteriosa ed il sanguinamento copioso dell’arteria lacerata ha fatto temere per la vita del paziente”; che il riscontro dell’importante lacerazione dell’arteria e della vena succlavia aveva prodotto necessariamente una emorragia del campo operatorio molto maggiore di quella prevista prima dell’intervento quando, in sede di visita preoperatoria, l’anestesista aveva annotato, mediante l’arteriografia, una ostruzione arteriosa a causa di un grosso ematoma, cosicché l’intervento era presumibilmente limitato allo svuotamento dell’ematoma ed alla decompressione dell’arteria; che neppure il C.T. di parte aveva ipotizzato la prevedibilità ex ante della lacerazione dell’arteria; che l’accertata situazione, oggettivamente diversa da quella iniziale, non poteva essere rimediata con il trasferimento del paziente nell’ospedale, meglio attrezzato, di Piacenza, atteso che le condizioni generali del S. e la caduta verticale dei valori ematici rendevano tale viaggio “molto rischioso per la vita”; tutto ciò premesso, la suddetta Corte ha tratto la conclusione che l’aggravamento del paziente, rivelatosi in sede operatoria, costituiva una situazione clinica oggettivamente e pesantemente diversa da quella diagnosticata all’atto del ricovero, non altrimenti evitabile e, soprattutto, non causata da imperizia e/o negligenza dei sanitari (si tenga presente, a quest’ultimo riguardo, che il S., pur avendo dovuto successivamente subire l’amputazione dell’arto, non ha mai proposto domanda risarcitoria per responsabilità professionale ex articolo 2236 c.c.).
Orbene, sembra doversi riconoscere che tali conclusioni sono sostenute da una motivazione ampia, analitica e niente affatto contraddittoria ed il primo motivo va, pertanto, rigettato. Le conclusioni svolte introducono opportunamente l’esame dell’altro motivo con cui si affronta il nodo fondamentale per la decisione della presente controversia: accertare, cioè, se il rifiuto al trattamento trasfusionale, esternato dal S. al momento del ricovero, potesse ritenersi operante anche al momento in cui le trasfusioni si resero necessarie.
Il giudice del gravame, conformemente a quello di primo grado. ha ritenuto che la risposta ... è, se non sicuramente negativa, quanto meno fortemente dubitativa” in quanto “è più che ragionevole chiedersi se iI S., qualora avesse saputo dell’effettiva gravità della lesione e dell’attuale pericolo di vita, avrebbe senz’altro ribadito il proprio dissenso”. Ciò in virtù delle seguenti considerazioni: che anche il dissenso, come il consenso, deve essere inequivoco, attuale, effettivo e consapevole; che l’originario dissenso era stato espresso dal S. in un momento in cui le sue condizioni di salute non facevano temere un imminente pericolo di vita, tanto che il paziente era stato trattato con terapie alternative, che lo stesso S. aveva chiesto, qualora fosse stato ritenuto indispensabile ricorrere ad una trasfusione, di essere immediatamente trasferito presso un ospedale attrezzato per l’autotrasfusione, così manifestando, implicitamente ma chiaramente, il desiderio di essere curato e non certo di morire pur di evitare d’essere trasfuso; che alla luce di questi elementi e di un dissenso espresso prima dello stato d’incoscienza conseguente all’anestesia, era lecito domandarsi se sicuramente il S. non volesse essere trasfuso, ... o se invece fosse altamente perplesso e dubitabile, se non certo, che tale volontà fosse riferibile solo al precedente contesto temporale, meno grave, in cui l’uomo non versava ancora in pericolo di vita.
Ha aggiunto il suddetto giudice che anche nell’ipotesi in cui il dissenso originariamente manifestato dal S. fosse ritenuto perdurante, comunque il comportamento adottato dai sanitari sarebbe stato scriminato ex articolo 54 c.p. e che, quindi, esclusa l’illiceità di tale comportamento, doveva escludersi la sussistenza di un qualsiasi danno risarcibile.
Ora questa Corte, pur consapevole dell’importanza morale e culturale, prima ancora che giuridica della questione, ritiene che la motivazione dell’impugnata sentenza (perché, oltre alle asserite violazioni di legge, il ricorrente denuncia implicitamente anche un vizio di contraddittorietà della motivazione a pag. 9 - 10 del ricorso) non sia censurabile. Perché questo è il problema da risolvere: non circa il valore assoluto e definitivo di un dissenso pronunciato in virtù di un determinato credo ideologico e religioso (il rifiuto delle trasfusioni di sangue è fondato dalla comunità dei Testimoni di Geova su una particolare lettura di alcuni brani delle scritture: Gen. 9,3 - 6; Lev. 17,11; Atti 15, 28, 29), ma la correttezza della motivazione con cui il giudice trentino ha ritenuto che il dissenso originario, con una valutazione altamente probabilistica, non dovesse più considerarsi operante in un momento successivo, davanti ad un quadro clinico fortemente mutato e con imminente pericolo di vita e senza la possibilità di un ulteriore interpello dei paziente ormai anestetizzato.
Va aggiunto e precisato che tale motivazione non è viziata da errori di diritto, perché rispettosa della legge 145/01 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina), che all’articolo 9 stabilisce che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione”. e che i sanitari trentini li abbiano tenuti in considerazione, risulta non foss’altro dall’avere interpellato telefonicamente, in costanza di intervento operatorio, il Procuratore della Repubblica ricevendone implicitamente un invito ad agire. Per il resto, la motivazione sì fonda su argomenti congrui e logici, non conformi alle credenze della Comunità religiosa d’appartenenza del S., ma certo aderenti ad un diffuso sentire in questo tempo di così vivo ed ampio dibattito sui problemi esistenziali della vita e della morte, delle terapie e dei dolore (si consideri ad esempio, che nei vari disegni di legge sul “testamento biologico”, contenente cioè le anticipate direttive di un soggetto sano con riguardo alle terapie consentite in caso si trovi in stato di incoscienza, spesso è previsto che tali prescrizioni non siano vincolanti per il medico, che può decidere di non rispettarle motivando le sue ragioni nella cartella clinica). Insomma, delle varie situazioni configurabili nell’attuale vivace dibattito sul tema drammatico della morte, situazioni da tenere ben distinte per evitare sovrapposizioni fuorvianti (accanimento terapeutico, rifiuto dì cure, testamento biologico, suicidio assistito), il tema in esame riguarda appunto il rifiuto delle cure; ma non nel senso di statuire sulla legittimità del diritto di rifiutare nel caso dei Testimoni di Geova le trasfusioni di sangue anche se ciò determina la morte, ma, più limitatamente di accertare la legittimità del comportamento dei sanitari che hanno praticato la trasfusione nel ragionevole convincimento che il primitivo rifiuto del paziente non fosse più valido ed operante. A questo specifico riguardo la statuizione della Corte trentina dove ritenersi corretta ed il ricorso del S. non può trovare accoglimento.
La novità e la delicatezza delle questioni trattate costituiscono giusti motivi per compensare le spese di questo grado.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e compensa le spese dei giudizio di cassazione.