Responsabilità per cose in custodia - Natura oggettiva -
Responsabilità per cose in custodia - Natura oggettiva - Beni demaniali - Strade pubbliche - Applicazione. Tribunale di Piacenza 2 dicembre 2008 - Est. Morlini. (dal sito www.ilcaso.it)
Responsabilità per cose in custodia – Natura oggettiva – Beni demaniali – Strade pubbliche – Applicazione. Tribunale di Piacenza 2 dicembre 2008 – Est. Morlini. Segnalazione del Dr. Paolo Giovanni Demarchi (dal sito www.ilcaso.it)
La responsabilità ex art. 2051 c.c. per i danni cagionati da cose in custodia, avente natura oggettiva atteso che il caso fortuito esclude il nesso causale e non già la colpa del custode, si applica anche al caso di utilizzo da parte del privato di un bene demaniale quale una strada pubblica. (gm)
PROCESSO
Promuovendo la presente controversia, F. C. esponeva che in data 14/11/2000, allorquando era alla guida della sua autovettura, aveva subito un incidente, impattando contro un muro di cemento posto a margine della strada statale 45 che stava percorrendo in direzione Bobbio-Perino, dopo avere perso il controllo dell’auto; che il sinistro era stato cagionato da un’anomalia stradale, rappresentata da una pozzanghera di rilevanti dimensioni e profondità formatasi sulla carreggiata; che detta pozzanghera si era formata a seguito dell’ostruzione della canalina di scolo a margine della carreggiata, in seguito al sedimentarsi di rifiuti di ogni genere; che di tale fatto doveva rispondere, per omessa pulizia e manutenzione, l’ANAS, ente preposto al mantenimento dell’efficienza e delle condizioni di sicurezza della strada; che nessuna censura, nemmeno per statuire un concorso di colpa, poteva essere mossa nei confronti dell’attrice, che guidava ad una velocità estremamente moderata ed addirittura in terza marcia.
Sulla base di tale narrativa ed invocata l’applicazione dell’art. 2051 c.c., la F. chiedeva la condanna dell’ANAS a ristorare il danno biologico, il danno morale ed il danno patrimoniale subiti, complessivamente quantificati in poco più di 17 mila euro.
Costituendosi in giudizio, resisteva l’ANAS.
In diritto, la convenuta deduceva l’applicabilità al caso di specie del solo art. 2043 c.c., non già dell’art. 2051 c.c. asseritamente inapplicabile alla PA od all’ente gestore delle strade, e l’assenza di ogni responsabilità in ragione dell’inconfigurabilità di un’insidia o trabocchetto, unica figura ritenuta idonea a fondare la responsabilità di un ente pubblico nel caso di sinistri stradali, per essere la pozzanghera perfettamente visibile.
In fatto, eccepiva comunque l’eccessività del danno lamentato e la concorrente colpa della F..
La causa veniva istruita con tre CTU: una affidata al PI Negri per verificare le cause del sinistro; una seconda, sempre affidata allo stesso PI Negri, per individuare i danni subiti dal veicolo; una terza, affidata al dottor Q., per calcolare il danno biologico subito dall’attrice.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La vicenda oggetto di causa ripropone la vexata quaestio del tipo e dell’ambito della disciplina applicabile in caso di incidente avvenuto su strada pubblica, e della possibilità di configurare al riguardo una responsabilità, concorrente od esclusiva, dell’ente che della stessa e delle relative pertinenze è proprietario o custode, quale nel caso di specie è l’ente pubblico economico ANAS.
Relativamente a detta problematica, è noto che, secondo la tradizionale e più datata giurisprudenza, senza dubbio influenzata dall’esigenza, allora avvertita e sopra indicata, di garantire alla P.A. una posizione di privilegio nell’ambito dell’operatività del sistema civilistico, alla materia de qua non è applicabile l’art. 2051 c.c.; deve invece riconoscersi, in favore dell’utente danneggiato dall’utilizzo di beni demaniali in ragione dell’omessa od insufficiente manutenzione delle strade pubbliche, l’applicabilità, unicamente ed esclusivamente, del generale principio di cui all’art. 2043 c.c.
Alla stregua di tale orientamento, l’amministrazione incontra, nell’esercizio del suo potere discrezionale di vigilanza, controllo e manutenzione dei beni di natura demaniale, limiti derivanti dalle norme di legge o di regolamento, nonché dalle norme tecniche e da quelle di comune prudenza e diligenza, ed in particolare dalla norma primaria e fondamentale del neminem laedere ex art. 2043 c.c. In applicazione di tale norma, l’amministrazione è tenuta a far sì che il bene demaniale non sia fonte generatrice di un danno a terzi, a cagione della colposa violazione di specifici doveri di comportamento stabiliti da norme di legge o di regolamento, in modo tale da evitare che possa scaturirne danno per gli utenti che sullo stato di praticabilità delle strade ripongono ragionevole affidamento.
In tale contesto, la giurisprudenza ha elaborato la figura dell’insidia o trabocchetto, quale situazione per l’utente di pericolo occulto, cioè non visibile e non prevedibile, e quindi non evitabile con l’ordinaria diligenza (tra le molteplici pronunce, cfr. le datate Cass. n. 2806/1966, Cass. n. 385/1969, Cass. n. 2244/1969, Cass. n. 3816/1969; più recentemente, Cass. n. 11250/2002, Cass. n. 14993/2002, Cass. n. 15710/2002, Cass. n. 16356/2002, Cass. n. 17152/2002, Cass. n. 1571/2004, Cass. n. 10132/2004, Cass. n. 10654/2004, Cass. n. 22592/2004). Tuttavia, tale figura, inizialmente intesa quale mero elemento sintomatico dell’attività colposa dell'amministrazione, è successivamente stata ricostruita come indice tassativo ed ineludibile della responsabilità dell’amministrazione (Cass. n 22592/2004), con onere della prova della sua esistenza a carico del danneggiato (Cass. n. 10654/2004, Cass. n. 11250/2002, Cass. n. 7938/2001).
Successivamente, la giurisprudenza ha invece iniziato a ritenere concettualmente ed astrattamente configurabile, nei confronti della P.A., la responsabilità per danni da cose in custodia ex art. 2051 c.c. relativamente ai danneggiamenti subiti a seguito dell’utilizzo di strade pubbliche. Sulla scia di sempre più stringenti critiche dottrinali, si è infatti preso atto che il ritenere non applicabile alla P.A., per tali beni, la responsabilità da custodia, ma solo quella ex art. 2043 c.c., rappresenta un ingiustificato privilegio e, di riflesso, un ingiustificato deteriore trattamento per gli utenti danneggiati; viceversa, l’applicazione dell’art. 2051 c.c. si presta ad una migliore salvaguardia e ad un miglior bilanciamento degli interessi in gioco in conformità ai principi dell’ordinamento giuridico e al sentire sociale.
Tuttavia, in una prima fase, l’operatività del principio è stata sminuita dalla considerazione che la norma in parola deve ritenersi applicabile solo con riferimento a beni demaniali che consentono in concreto un controllo ed una vigilanza idonei ad impedire l’insorgenza di cause di pericolo, e quindi non anche ai beni di notevole estensione e suscettibili di generalizzata utilizzazione. E ciò è stato argomentato sulla base dell’insegnamento della Corte Costituzionale, che con la sentenza n. 156/1999, ha chiarito che non viola il dettato costituzionale l’interpretazione dell’art. 2051 c.c. che ne esclude l’applicabilità alla P.A. “allorché sul bene di sua proprietà non sia possibile - per la notevole estensione di esso e le modalità d'uso, diretto e generale, da parte di terzi - un continuo, efficace controllo, idoneo ad impedire l'insorgenza di cause di pericolo per gli utenti”.
Pertanto, con specifico riguardo alle strade, l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. è stata esclusa con riferimento a quelle statali (Cass. n. 16179/2001) ed alle autostrade (Cass. n. 12314/1998, Cass. n. 921/1988); mentre è stata viceversa ammessa relativamente alle strade di proprietà del Comune (Cass. n. 11446/2003, Cass. n. 11749/1998, Cass. n. 4673/1996) o della Provincia, nonché alle pertinenze della sede stradale (Cass. n. 13087/2004) ed anche autostradale (Cass. n. 488/2003, Cass. n. 298/2003), alle scarpate (Cass. n. 10759/1998) ed alle zone limitrofe alla sede stradale di proprietà della P.A. (Cass. n. 17907/2003, Cass. n. 11366/2002).
Ancora più recentemente, la Suprema Corte ha ulteriormente avanzato la linea di tutela dell’utilizzatore delle strade pubbliche, escludendo l’automatismo interpretativo secondo cui la ricorrenza delle caratteristiche della demanialità o patrimonialità del bene, dell’uso diretto della cosa e dell’estensione della medesima, sia da ritenersi idonea ad automaticamente escludere l’applicabilità dell’art. 2051 c.c., atteso che l’esclusione di tale responsabilità è da ricondurre solo all’oggettiva impossibilità dell’esecuzione del potere di controllo, il cui onere della prova ricade in capo alla stessa P.A. (Cass. n. 488/2003, Cass. n. 1144/2003, Cass. n. 6515/2004, Cass. n. 19653/2004, Cass. n. 3651/2006).
A conforto di tali conclusioni, viene richiamata la stessa sentenza di Corte Cost. n. 156/1999, la quale ha effettivamente ritenuto che non è invocabile la responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. allorquando la P.A. non può esercitare sulla res un controllo “continuo, efficace ed idoneo ad impedire l'insorgenza di cause di pericolo per gli utenti”; ma ha altresì chiarito come la “notevole estensione del bene” e “l’uso generale e diretto” da parte di terzi, costituiscono “meri indici” dell’impossibilità di un concreto esercizio del potere di controllo e vigilanza sul bene medesimo, e come quindi detta impossibilità non possa farsi discendere dalla mera natura demaniale del bene, dovendo essa se del caso riscontrarsi solamente all’esito "di un’indagine condotta dal giudice con riferimento al caso singolo, e secondo criteri di normalità".
A tale ultimo insegnamento, nettamente maggioritario ed oramai addirittura pacifico nella giurisprudenza di legittimità successiva al 2005 (tre le più recenti, cfr. Cass. n. 11511/2008, Cass. n. 7403/2007, Cass. n. 2308/2007, Cass. n. 15383/2006, Cass. n. 3651/2006), questo Tribunale intende dare continuità, trattandosi di orientamento interpretativo che si appalesa corretto e che va quindi ribadito.
Va infatti sottolineato che la norma dell’art. 2051 c.c., come del resto già da tempo posto in rilievo anche dalla migliore dottrina, contempla quali due unici presupposti applicativi la custodia e la derivazione del danno dalla cosa.
Il primo presupposto, id est la custodia, consiste nel potere di effettiva disponibilità e controllo della cosa.
Custodi sono infatti tutti i soggetti, pubblici o privati, che hanno il possesso o la detenzione della cosa (da ultimo, Cass. n. 20317/2005), e custodi sono anzitutto i proprietari.
Quale proprietaria delle strade pubbliche ex art. 16 L. n. 2248/1865 All. F, l’obbligo di relativa manutenzione in capo alla P.A. discende non solo da specifiche norme (art. 14 C.d.S.; per le strade ferrate, art. 8 DPR n. 753/1980; per le strade comunali e provinciali, art. 28 L. n. 2248/1865 All. F; per i Comuni, art. 5 RD n. 2506/1923), ma anche dal generale obbligo di custodia, con conseguente operatività nei confronti dell’ente della presunzione di responsabilità ex art. 2051 c.c. in caso di omessa prevenzione.
Il dovere di custodia e la correlata responsabilità ex art. 2051 c.c. non vengono meno per la P.A. nemmeno laddove il bene demaniale-strada sia destinatario di lavori di manutenzione affidati a terzi, nel caso in cui non vi sia stato il totale trasferimento a del potere di fatto sulla res ed il potere di fatto sulla cosa risulti quindi solo in parte trasferito a terzi, atteso che in tal caso l’ente proprietario deve sull’opera continuare ad esercitare la opportuna vigilanza ed i necessari controlli, (Cass. n. 20825/2006, Cass. n. 15383/2006, Cass. n. 6515/2004, Cass. n. 2963/1999, Cass. n. 11855/1998, Cass. n. 5539/1997, Cass. n. 5007/1996).
In particolare, con riguardo a lavori stradali eseguiti in appalto, causativi di sinistro per mancanza di cartelli di segnalazione e conseguente invisibilità dell’esatta ubicazione del pericolo, è configurabile la concorrente responsabilità tanto dell’appaltatore -in relazione al suo obbligo di custodire il cantiere, di apporre e mantenere efficiente la segnaletica, nonché di adottare tutte le cautele prescritte dall’art. 8 CdS- quanto dall’amministrazione committente, in relazione al suo dovere di vigilare sull’esecuzione delle opere date in concessione, ed altresì di emettere i provvedimenti necessari per la sicurezza del traffico.
Ne consegue che, se l’area di cantiere è stata completamente enucleata, delimitata ed affidata all’esclusiva custodia dell’appaltatore, con assoluto divieto del traffico veicolare e pedonale, dei danni subiti all’interno di questa area non potrà che risponderne esclusivamente l’appaltatore, quale unico custode della stessa. Se invece l’area su cui vengono realizzati i lavori è ancora contestualmente adibita a tale traffico, ciò denota che l’ente titolare della strada ne ha conservato la custodia, sia pure insieme all’appaltatore, utilizzando la strada ai fini della circolazione: ciò comporta che la responsabilità per danni subiti dall’utente a causa dei lavori in corso su detta strada graverà su entrambi detti soggetti, salvo poi l’eventuale azione di regresso dell’ente proprietario della strada nei confronti dell’appaltatore a norma dei comuni principi in tema di responsabilità solidale ex art. 2055 comma 2 c.c.
Circa il secondo requisito della custodia, e cioè il nesso causale rappresentato dalla derivazione del danno dalla cosa, si osserva che il danneggiato, secondo la regola generale in tema di responsabilità civile extracontrattuale, è tenuto a darne la prova.
Tale prova del nesso causale va peraltro ritenuta assolta con la dimostrazione che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta o assunta dalla cosa (ex aliis, Cass. n. 2075/2002 e Cass. n. 2331/2001), in ragione di un processo in atto o una situazione determinatasi, ancorché provocati da elementi esterni (tra le tante, Cass. n. 10641/2002 e Cass. n. 4480/2001), che conferiscano cioè alla cosa quella che in giurisprudenza si è a volte indicata come “idoneità al nocumento”, non richiedendosi viceversa anche la prova dell’intrinseca dannosità o pericolosità (qualità viceversa rilevante per la diversa fattispecie prevista dall’art. 2050 c.c.) della cosa medesima.
Tutte le cose, anche quelle normalmente innocue, sono infatti suscettibili di assumere ed esprimere potenzialità dannose in ragione di particolari circostanze, e in conseguenza di un processo dannoso provocato da elementi esterni (Cass. n. 3041/1997), risultando ormai superata la distinzione tra cose inerti e cose intrinsecamente dannose in quanto idonee a produrre lesione a persone e cose in virtù di connaturale forza dinamica o per l’effetto di concause umane o naturali (ex pluribus, cfr. Cass. n. 14606/2004, Cass. n. 4480/2001, Cass. n. 6616/2000).
La derivazione del danno dalla cosa può essere peraltro dal danneggiato offerta anche per presunzioni, giacché la prova del danno è di per sé indice della sussistenza di un risultato anomalo, e cioè dell’obiettiva deviazione dal modello di condotta improntato ad adeguata diligenza che avrebbe normalmente evitato il danno (da ultimo, cfr. Cass. n. 2308/2007 e Cass. n. 3651/2006).
La norma di cui all’art. 2051 c.c. non richiede, invero, altri e diversi presupposti applicativi, ulteriori rispetto alla prova da parte del danneggiato della sussistenza dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con la cosa.
In particolare, al danneggiato non può farsi carico della prova dell’insidia o trabocchetto, trattandosi di fattispecie estranee alla responsabilità ex art. 2051 c.c., che tantomeno possono pertanto considerarsi (diversamente da quanto affermato, tra le ultime, da Cass. n. 22592/2004; cfr. in particolare Cass. n. 15383/2006 e Cass. n. 3651/2006) indici tassativi ai fini della configurabilità della responsabilità della P.A.: così facendo, infatti, si opererebbe un’interpretazione della norma contraria al suo tenore letterale e sostanziale, aggravando la posizione probatoria del danneggiato al fine di limitare le ipotesi di responsabilità della P.A. e creare di un ingiustificato privilegio a suo favore.
Né è necessaria, d’altro canto, la dimostrazione dell’insussistenza di impulsi causali autonomi ed estranei alla sfera di controllo propria del custode e quindi per il medesimo inevitabili, giacché è al custode che incombe la prova del fortuito (Cass. n. 2075/2002). Nel porre infatti una responsabilità presunta a carico del soggetto che si trova in una data relazione con la cosa, la norma determina un’inversione probatoria rispetto alla regola generale in tema di illecito extracontrattuale posta dall’art. 2043 c.c.: l’onere della prova incombe cioè, diversamente che nella detta ipotesi generale, in capo non già al danneggiato, bensì a chi si trova nella particolare situazione che gli attribuisce i poteri di disponibilità e controllo sulla cosa.
La responsabilità ex art. 2051 c.c. integra quindi un’ipotesi di vera e propria responsabilità oggettiva, che trova piena giustificazione in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa attribuisce al custode (cfr. in particolare Cass. n. 15383/2006, che confuta convincentemente la tesi di Cass. n. 3651/2006, la quale aveva parlato di responsabilità colposa aggravata dall’inversione dell’onere della prova; nella più recente giurisprudenza, cfr. anche Cass. n 21684/2005, Cass. n. 376/2005, Cass. n. 5236/2004, Cass. n. 10641/2002), così come il fortuito penalistico ex art. 45 c.p. esclude non già la colpevolezza, ma lo stesso nesso causale.
Non rileva, quindi, la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia non presuppone né implica uno specifico obbligo di custodire analogo a quello previsto per il depositario, e funzione della norma è, d’altro canto, quella di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa.
Ne consegue che, in aderenza al piano disposto letterale della norma, tale tipo di responsabilità è esclusa solamente dal caso fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile, bensì al profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata, ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’imprevedibilità (rilevante non già ad escludere la colpa, bensì quale profilo oggettivo, al fine di accertare l’eccezionalità del fattore esterno, sicché anche un’utilizzazione estranea alla naturale destinazione della cosa diviene prevedibile dal custode laddove largamente diffusa in un determinato ambiente sociale) e dell’inevitabilità, a nulla viceversa rilevando che il danno risulti causato da anomalie o vizi insorti nella cosa prima dell’inizio del rapporto di custodia (ex multis Cass. n. 5326/2005, Cass. n. 15429/2004, Cass. n. 472/2003, Cass. n. 12219/2003; Cass. n. 5578/2003; Cass. n. 472/2003).
Acutamente, è stato osservato che rileva solo ‘il fatto della cosa, non già ‘il fatto dell’uomo’, poiché la responsabilità si fonda sul mero rapporto di custodia, e solo lo stato di fatto, non già l’obbligo di custodia, può assumere rilievo nella fattispecie. Il profilo del comportamento del responsabile è di per sé estraneo alla struttura della normativa; né può esservi reintrodotto attraverso la figura della presunzione di colpa per mancata diligenza nella custodia, giacché il solo limite previsto dall’articolo in esame è l’esistenza del caso fortuito, non l’assenza di colpa, tanto che la dottrina parla al riguardo di ‘rischio da custodia’, più che di ‘colpa nella custodia’
Il fortuito -che va inteso nel senso più ampio comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso danneggiato, purché detto fatto costituisca la causa esclusiva del danno (Cass. n. 5326/2005, Cass. n. 11264/1995, Cass. n. 1947/1994)- esclude così il nesso causale e non già la colpa, essendo suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all’elemento esterno, anziché alla cosa che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi. Infatti, la responsabilità si fonda non su un comportamento o un’attività del custode, ma su una relazione di custodia intercorrente tra questi e la cosa dannosa, ed il limite della responsabilità risiede nell’intervento di un fattore (id est il caso fortuito), che attiene non ad un comportamento del responsabile come nelle prove liberatorie degli artt. 2047, 2048, 2050 e 2054 c.c., ma alle modalità di causazione del danno.
Pertanto e con riferimento all’onere della prova, all’attore compete provare l’esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l’evento lesivo; il convenuto per liberarsi dovrà invece provare l’esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.
La ratio di tale accollo del costo del danno non è più la colpa, ma un criterio oggettivo, che tuttavia rimane fuori dalla norma. Ricorda Cass. n. 15383/2006 che tale criterio fu individuato nella deep pocket negli ordinamenti di common law e nella richesse oblige della tradizione francese, mentre nell’affinamento dottrinale successivo si è ritenuto che la ratio vada individuata nel principio dell’esposizione al pericolo o all’assunzione del rischio, ovvero nell’imputare il costo del danno al soggetto che aveva la possibilità della cost-benefit analysis, per cui deve sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente. In altre parole e da altra angolazione, al custode si imputa la responsabilità, giacché è al soggetto che trae profitto dalla cosa, secondo il brocardo cuius commoda eius et incomoda, che deve addebitarsi la responsabilità.
Tuttavia, se la custodia presuppone il potere di governo della res, e cioè il potere di controllare la cosa, di modificare la situazione di pericolo creatasi, nonché di escludere qualsiasi terzo dall’ingerenza sulla cosa nel momento in cui si è prodotto il danno (da ultimo e per tutte, cfr. Cass. n. 7403/2007), certamente l’esistenza della custodia non può essere a priori esclusa in relazione alla natura demaniale del bene; ma neppure può essere ritenuta in ogni caso sussistente anche quando vi è l’oggettiva impossibilità di tale potere di controllo del bene, che è il presupposto necessario per la modifica della situazione di pericolo. Se il potere di controllo è oggettivamente impossibile, non vi è custodia, e quindi non vi è responsabilità dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 2051 c.c. Ove tale attività di controllo non sia oggettivamente possibile, non potrà invocarsi alcuna responsabilità della P.A., proprietaria del bene demaniale, a norma dell’art. 2051 c.c., per mancanza di un elemento costitutivo della custodia e cioè la controllabilità della cosa, residuando, se ne ricorre gli estremi, la responsabilità di cui all’art. 2043 c.c.
Indici sintomatici dell’impossibilità del controllo del bene demaniale sono la notevole estensione e l’uso generalizzato dello stesso da parte degli utenti; ma tali elementi non attestano in modo automatico l’impossibilità di custodia. La possibilità o l’impossibilità di un continuo ed efficace controllo e di una costante vigilanza, dalle quali rispettivamente dipendono l’applicabilità o la non applicabilità dell’art. 2051 c.c., non si atteggiano peraltro univocamente in relazione a tutti i tipi di beni demaniali, ma vanno accertati in concreto da parte del giudice di merito.
Segnatamente, per i beni del demanio stradale la possibilità in concreto della custodia, nei termini sopra detti, va esaminata non solo in relazione all’estensione delle strade, ma anche alle loro caratteristiche, alla posizione, alle dotazioni, ai sistemi di assistenza che li connotano, agli strumenti che il progresso tecnologico di volta in volta appresta e che, in larga misura, condizionano anche le aspettative della generalità degli utenti.
Per le autostrade, per loro natura destinate alla percorrenza veloce in condizioni di sicurezza, l’apprezzamento relativo alla effettiva possibilità del controllo alla stregua degli indicati parametri, non può che indurre a conclusioni in via generale affermativa, e dunque a ravvisare la configurabilità di un rapporto di custodia per gli effetti di cui all’art. 2051 c.c. (Cass. n. 15383/2006, Cass. n. 298/2003, Cass. n. 488/2003).
Figura sintomatica della possibilità dell’effettivo controllo di una strada del demanio stradale comunale è invece che la stessa si trovi all’interno della perimetrazione del centro abitato (da ultimo, cfr. Cass. n. 23924/2007, Cass. n. 4962/2007, Cass. n. 20825/2006, Cass. n. 15779/2006, Cass. n. 15383/2006). Infatti, la localizzazione della strada all’interno di tale perimetro, dotato di una serie di altre opere di urbanizzazione e, più in generale, di pubblici servizi che direttamente o indirettamente sono sottoposti ad attività di controllo e vigilanza costante da parte del Comune, denotano la possibilità di un effettivo controllo e vigilanza della zona, per cui sarebbe arduo ritenere che eguale attività risulti oggettivamente impossibile in relazione al bene stradale.
Ove l’oggettiva impossibilità della custodia renda inapplicabile l’art. 2051 c.c., come detto, la tutela risarcitoria del danneggiato rimane esclusivamente affidata alla disciplina di cui all’art. 2043 c.c.
Peraltro, relativamente a tale norma va specificato che la responsabilità dell’amministrazione per danni conseguenti all’utilizzo di bene demaniale da parte del soggetto danneggiato, non può essere limitata ai soli casi di insidia o trabocchetto, essendosi già chiarito che essi vanno intesi come meri elementi sintomatici della responsabilità pubblica, ma essendo ben possibile che la stessa possa anche individuarsi nella singola fattispecie in un diverso comportamento colposo dell’amministrazione. Limitare aprioristicamente la responsabilità della P.A. per danni subiti dagli utenti dei beni demaniali alle sole ipotesi della presenza di insidia o trabocchetto, non trova alcuna base normativa nella lettera dell’art. 2043 c.c., e rappresenterebbe un’indubbia posizione di privilegio per la parte pubblica (in questo senso, Cass. n. 5445/2006).
Una volta ritenuta l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 2043 c.c., alla stregua dei principi generali il riparto dell’onere probatorio vedrà gravare sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene demaniale, segnatamente della strada, ciò che è di per sé idoneo, in linea di principio, a configurare il comportamento colposo della P.A.; su quest’ultima ricadrà invece l’onere della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità, quali, nella teorica dell’insidia o trabocchetto, la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia.
In ogni caso, secondo il costante indirizzo di legittimità, il principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato postulato dall’art. 112 c.p.c., non osta a che il Giudice renda una pronuncia in base ad una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante, id est l’art. 2051 c.c. in luogo dell’art. 2043 c.c., laddove la pronuncia si fondi su fatti ritualmente allegati e provati, essendovi solo il divieto di attribuire alla parte un bene della vita diversa da quello richiesto (tra le ultime, Cass. n. 2308/2007, Cass. n. 11039/2006, Cass. n. 17764/2005; specificamente, per Cass. n. 12694/1999, “non viola il principio della corrispondenza tra chiesto e giudicato il giudice che, investito di una domanda di risarcimento ex art. 2043 c.c., fondi l’accoglimento della domanda sulla responsabilità oggettiva ex art. 2051 c.c.”).
Sia nell’ipotesi che la fattispecie rientri nell’art. 2043 c.c., sia che rientri nell’art. 2051 c.c., è rilevante l’eventuale comportamento colposo del danneggiato, poiché esso incide sul nesso causale.
Invero, l’interruzione del nesso di causalità può essere anche l’effetto del comportamento sopravvenuto dello stesso danneggiato, quando il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, sì da privare dell’efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell'autore dell’illecito.
Corollario di detto principio è la regola posta dall’art. 1227 comma 1 c.c., certamente applicabile alla fattispecie de qua (ex pluribus, Cass. n. 7403/2007, Cass. n. 4962/2007, Cass. n. 15383/2006, Cass. n. 5445/2006, Cass. n. 3651/2006, Cass. n. 20334/2004, Cass. n. 19653/2004, Cass. n. 11414/2004, Cass. n. 6516/2004, Cass. n. 17152/2002, Cass. n. 15710/2002, Cass. n. 2067/2002, Cass. n. 10641/2002, Cass. n. 7727/2000), il quale prevede la riduzione del risarcimento in presenza della colpa del danneggiato. Ciò avviene, secondo la più recente ed accorta impostazione dogmatica, non tanto in virtù del principio di autoresponsabilità postulato dalla tradizionale dottrina per imporre ai potenziali danneggiati doveri di attenzione e diligenza e per indurli a contribuire, insieme con gli eventuali responsabili, alla prevenzione dei danni che potrebbero colpirli; quanto piuttosto per il citato principio di causalità, per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile (da ultimo, Cass. n. 15383/2006). La regola di cui all’art. 1227 c.c. va allora inquadrata esclusivamente nell’ambito del rapporto causale ed è espressione del principio che esclude la possibilità di considerare danno risarcibile quello che ciascuno procura a se stesso (per tutte, Cass. n. 6988/2003).
La colpa del creditore-danneggiato, stante la genericità dell’art. 1227 comma 1 c.c. punto, sussiste non solo in ipotesi di violazione da parte del creditore-danneggiato di un obbligo giuridico, ma anche nella violazione della norma comportamentale di diligenza, sotto il profilo della colpa generica.
Se tanto avviene in caso di concorso del comportamento colposo del danneggiato nella produzione del danno, per eguale ragione il comportamento commissivo o omissivo colposo del danneggiato, che sia sufficiente da solo a determinare l’evento, esclude il rapporto di causalità delle cause precedenti.
In questa ottica, la diligenza del comportamento dell’utente del bene demaniale, e segnatamente della strada demaniale, va valutata anche in relazione all’affidamento che era ragionevole porre nell’utilizzo ordinario di quello specifico bene demaniale, con riguardo alle specifiche condizioni di luogo e di tempo: in questi termini il colpevole comportamento del danneggiato modula la corretta applicazione del principio della causalità adeguata ai fini del nesso causale, o escludendolo o dando un apporto concorrente.
In applicazione di tale principio, la diligenza che è richiesta al danneggiato nell’uso del bene demaniale, costituito nella specie da strada, sarà diversa a seconda che si tratti di una strada campestre o del corso principale della città, pur facendo capo entrambe allo stesso demanio stradale dello stesso Comune, proprio perché il danneggiato fa affidamento su una diversa attività di controllo-custodia in relazione ai due tipi di strada dello stesso demanio.
Così inquadrato sotto il profilo eziologico il comportamento colposo del danneggiato-utente del bene demaniale, va osservato che esso non concreta un’eccezione in senso proprio, ma una semplice difesa, che deve essere esaminata anche d’ufficio dal giudice, attraverso le opportune indagini sull’eventuale sussistenza dell’incidenza causale dell’accertata negligenza nella produzione dell’evento dannoso, indipendentemente dalle argomentazioni e richieste della parte, sempre ovviamente che risultino prospettati gli elementi di fatto su cui si fonda il comportamento colposo del danneggiato (Cass. n. 15383/2006, Cass. n. 4799/2001, Cass. n. 13403/2000 e Cass. n. 13460/1999).
In ragione di tutto quanto sopra ed in perfetta aderenza all’insegnamento da ultimo espresso da Cass. n. 15383/2006, vanno allora affermati i seguenti principi di diritto:
La responsabilità ex art. 2051 c.c. per i danni cagionati da cose in custodia, anche nell'ipotesi di beni demaniali in effettiva custodia della P.A., ha carattere oggettivo e, perché tale responsabilità possa configurarsi in concreto, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, per cui tale tipo di responsabilità è esclusa solo dal caso fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile bensì al profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’oggettiva imprevedibilità ed inevitabilità e che può essere costituito anche dal fatto del terzo o dello stesso danneggiante.
La presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia, di cui all’art. 2051 c.c., non si applica agli enti pubblici per danni subiti dagli utenti di beni demaniali ogni qual volta sul bene demaniale, per le sue caratteristiche, non sia possibile esercitare la custodia, intesa quale potere di fatto sulla stessa. L’estensione del bene demaniale e l’utilizzazione generale e diretta dello stesso da parte di terzi, sono solo figure sintomatiche dell’impossibilità della custodia da parte della P.A., mentre elemento sintomatico della possibilità di custodia del bene del demanio stradale comunale è che la strada, dal cui difetto di manutenzione è stato causato un danno, si trovi nel perimetro urbano delimitato dallo stesso Comune, pur dovendo dette circostanze, proprio perché solo sintomatiche, essere sottoposte al vaglio in concreto da parte del giudice di merito.
Ove non sia applicabile la disciplina della responsabilità ex art. 2051 c.c., per l’impossibilità in concreto dell’effettiva custodia del bene demaniale, l’ente pubblico risponde dei danni da detti beni, subiti dall’utente, secondo la regola generale dettata dall’art. 2043 c.c., che non prevede alcuna limitazione della responsabilità dell’amministrazione per comportamento colposo alle sole ipotesi di insidia o trabocchetto. In questo caso graverà sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene demaniale della strada, fatto di per sé idoneo in linea di principio a configurare il comportamento colposo della P.A., sulla quale ricade invece l’onere della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità, quali ad esempio la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia.
Tanto in ipotesi di responsabilità oggettiva della P.A. ex art. 2051 c.c., quanto in ipotesi di responsabilità della stessa ex art. 2043 c.c., il comportamento colposo del soggetto danneggiato nell’uso di bene demaniale (che sussiste anche quando egli abbia usato il bene demaniale senza la normale diligenza o con affidamento soggettivo anomalo) esclude la responsabilità dell’amministrazione, se tale comportamento è idoneo ad interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno e il danno stesso, integrando altrimenti un concorso di colpa ai sensi dell’art. 1227 comma 1 c.c., con conseguente diminuzione della responsabilità del danneggiante in proporzione all’incidenza causale del comportamento del danneggiato.
Le conclusioni sopra esposte consentono di fornire le coordinate per la soluzione del caso che qui occupa.
Ritenuta l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. (in particolare, con riferimento alla responsabilità ex art. 2051 dell’ANAS per la mancata manutenzione ordinaria e straordinaria delle strade, cfr. Cass. n. 3651/2006), spettava alla convenuta ANAS dar prova che il sinistro è avvenuto per caso fortuito. Invece, non solo ANAS non ha provato, e per la verità nemmeno dedotto, l’esistenza di tale fortuito; ma anzi, è stata addirittura l’attrice a dar prova dell’inesistenza di tale fortuito, e della presenza piuttosto di una rilevante condotta colposa della convenuta.
Risulta infatti per tabulas dai rilievi effettuati nell’immediatezza dei fatti ad opera dei carabinieri, che l’odierna attrice ha perso il controllo del mezzo “a causa di una grossa pozzanghera di acqua creatasi sulla corsia di marcia per la pioggia” (cfr. all. 1 citazione).
Ribadisce e spiega il CTU, con motivazione convincente e pienamente condivisibile, sul punto nemmeno contestata dalle parti, dalla quale il Giudicante non ha motivo di discostarsi in quanto frutto di un iter logico ineccepibile e privo di vizi, condotto in modo accurato ed in continua aderenza ai documenti agli atti ed allo stato di fatto analizzato, che il sinistro è stato effettivamente cagionato dalla “anomala presenza sul piano viabile di una pozzanghera d’acqua di dimensioni tali da occupare pressoché completamente la semicarreggiata”, con ciò provocando una “grave instabilità nella marcia dell’autovettura… fino a determinare un altrettanto grave sbandamento”; che la formazione della pozzanghera è “ascrivibile alla totale ostruzione” della cunetta di scolo; che tale ostruzione è dovuta alla “mancata periodica manutenzione ordinaria” (pag. 12-14 perizia).
Discende, in conclusione, che non solo non vi è prova del caso fortuito, unica circostanza che consentirebbe di escludere la responsabilità dell’ANAS, ma vi è addirittura prova della colpa di parte convenuta.
Né può ritenersi esistente un concorso di colpa del danneggiato ex art. 1227 c.c., atteso che l’attrice “stava procedendo con inserita la terza marcia ed alla velocità di 79 km/h, quindi da ritenersi prudenziale ed abbondantemente al di sotto del limite massimo previsto dal C.d.S. per le strade extraurbane” (pag. 13 perizia), ciò che risulta sostanzialmente confermato anche dal fatto che la P.S., intervenuta in loco nell’immediatezza dei fatti, non ha ritenuto di elevare alcuna contravvenzione all’attrice.
Sotto questo profilo nessuna rilevanza ha la circostanza, capitolata in sede di memoria ex art. 184 c.p.c. ed attinente a circostanza non contestata (per questo non ammessa alla richiesta prove testimoniale), che qualche centinaia di metri prima del luogo in cui il sinistro si è verificato, era posizionato un cartello stradale indicante strasa sdrucciolevole, proprio perché la causa del sinistro è addebitabile alla presenza della pozzanghera di cui sopra si è detto; e comunque, perché nessun rilievo può essere mosso, in ragione di quanto già argomentato, alla prudenza nella guida da parte dell’attrice.
Detto dell’an della responsabilità di ANAS, può ora passarsi a trattare del quantum.
Con riferimento al danno non patrimoniale, il CTU Q., con motivazione pienamente condivisibile e nemmeno contestata dalle parti, dalla quale il Giudicante non ha motivo di discostarsi in quanto frutto di un iter logico ineccepibile e privo di vizi, condotto in modo accurato ed in continua aderenza ai documenti agli atti ed allo stato di fatto analizzato, ha spiegato che le lesioni subite dalla F. consistono nel 4% di danno biologico permanente, in 15 giorni di ITT, in 10 giorni di ITP al 75%, in 25 giorni di ITP al 50%.
Pertanto, sulla base dei parametri liquidatori dell’art. 139 D.Lgs. n. 209/2005 aggiornato dal DM 24/6/2008, tenuto conto di un’età di 32 anni al momento del sinistro nel 2000, spetta alla ricorrente un complessivo risarcimento per danno biologico di € 4.808,66 (ed in particolare, € 3.336,56 per danno biologico permanente; sulla base teorica di euro 42,06 giornaliere per ITT, € 630,9 per ITT, € 315,45 per ITP al 75%, € 525,75 per ITP al 50%). Circa il danno morale, stimasi equo procedere al cd. appesantimento del punto biologico di circa un terzo (cfr. Cass. Sez Un. n. 26972/2008), portando il complessivo danno non patrimoniale ad € 6.400,00.
Su tale somma capitale, che integra all’evidenza un debito di valore in quanto posta risarcitoria, così come da domanda ed in base ai principi generali, vanno riconosciuti, secondo la pacifica giurisprudenza, rivalutazione ed interessi legali sulla somma stessa via via rivalutata, dalla data del fatto, id est il 14/11/2000, al saldo. Tuttavia, essendo la somma capitale già calcolata all’attualità ed in ragione della difficoltà di procedere alla devalutazione, in piena aderenza all’insegnamento dalla Suprema Corte, gli interessi possono essere calcolati sulla somma integralmente rivalutata, ma da un momento intermedio tra il fatto e la sentenza, id est il 1/1/2005.
Quanto al danno patrimoniale, la CTU medica del dottor Q. ha ritenuto congrue e documentate spese mediche per € 72,30; la CTU meccanica del PI Negri ha invece ritenuto che le spese per la riparazione del veicolo ammontano ad € 7.005,77.
Pertanto, sommando tali due poste ed aggiungendo equitativamente ex art. 1226 c.c. altri 350 euro per i dieci giorni di fermo tecnico dell’auto (cfr. penultima pagina perizia), il danno patrimoniale deve essere conteggiato in complessivi € 7428,07.
Su tale somma, non calcolata all’attualità ed integrante anch’essa debito di valore in quanto posta risarcitoria, così come da domanda ed in base ai principi generali, vanno riconosciuti, secondo la pacifica giurisprudenza, rivalutazione ed interessi sulla somma stessa via via rivalutata, dalla data del fatto, id est il 14/11/2000, al saldo.
Non vi sono motivi per derogare ai principi generali codificati dall’art. 91 c.p.c. in tema di spese di lite, che, liquidate come da dispositivo in assenza di nota, sono quindi poste a carico della soccombente parte convenuta ed a favore della vittoriosa parte attrice.
Per gli stessi principi in tema di soccombenza, anche le spese di CTU, già liquidate in corso di causa con i separati decreti indicati in dispositivo, sono definitivamente poste a carico di parte convenuta.
Si dà atto che il presente fascicolo è per la prima volta pervenuto a questo Giudice, a seguito del suo trasferimento al Tribunale di Piacenza nominato Istruttore il 11/6/2008 di un migliaio di fascicoli tutti già calendarizzati, all’udienza del 21/10/2008, ed in tale udienza è stato introitato a decisione con concessione di termini abbreviati ex art. 190 c.p.c.
p.q.m.
il Tribunale di Piacenza in composizione monocratica
definitivamente pronunciando sulla causa proposta da F. C. nei confronti di A.N.A.S. s.p.a. Ente Nazionale per le strade
nel contraddittorio tra le parti, ogni diversa istanza disattesa
dichiara tenuta e condanna ANAS s.p.a. Ente nazionale per le strade, a pagare a F. C. per danno non patrimoniale € 6.400,00, oltre interessi legali sulla somma via via rivalutata dal 1/1/2005 al saldo;
dichiara tenuta e condanna ANAS s.p.a. Ente nazionale per le strade, a pagare a F. C. per danno patrimoniale € 7.428,07, oltre interessi legali sulla somma via via rivalutata dal 14/11/200 al saldo;
dichiara tenuta e condanna ANAS s.p.a. Ente nazionale per le strade, a rifondere a F. C. le spese di lite del presente giudizio, che liquida in € 5.000,00 per diritti ed onorari, € 200,00 per rimborsi, oltre IVA, CPA ed art. 14 TP;
pone definitivamente a carico di ANAS s.p.a. Ente nazionale per le strade le spese di CTU, già liquidate in coso di causa con separati decreti 6/4/2005, 12/9/2005 e 10/11/2005.
Piacenza, 2/12/2008.