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Espressioni sconvenienti od offensive: necessario l’animus iniurandi Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 29 novembre 2012, n. 168

Va esclusa la violazione dell’art. 20 c.d.f. per carenza del necessario elemento soggettivo dell’animus iniuriandi quando non emerga alcun elemento indicativo della volontà dell’incolpato di esprimere apprezzamenti negativi in ordine alla personalità ed al patrimonio morale dell’esponente, rimanendo così nell’ambito dell’esercizio del diritto di critica che non travalica nel non consentito biasimo e nella censurabile deplorazione dell’operato del difensore di controparte (Nel caso di specie, peraltro, le espressioni de qua venivano pronunciate in un processo civile in cui il Giudice le aveva ritenute tutte collegate con la materia del contendere tanto da negarne la richiesta cancellazione). Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 29 novembre 2012, n. 168

Consiglio Nazionale Forense (Pres. f.f. Vermiglio, Rel. Tacchini), sentenza del 29 novembre 2012, n. 168 

FATTO
Con atto depositato il 10 febbraio 2010 presso il COA di Perugia l’avv. S. C. proponeva ricorso avverso la decisione 14 gennaio 2010 depositata il 14 gennaio 2010 e notificata il 22 gennaio/9 febbraio 2010, con la quale gli veniva applicata la sanzione dell’avvertimento di seguito alla contestazione del seguente addebito: violazione dell’art. 20 C.D.F. “avendo usato ripetutamente espressioni sconvenienti ed offensive nel ricorso introduttivo presentato innanzi al Tribunale Civile di Perugia-Sezione Lavoro nei confronti della controparte, che nel caso di specie risulta anche Collega, ed in particolare per aver utilizzato le seguenti espressioni: ”vorrebbe defraudarla (ndr rivolto alla dipendente P. V.) addirittura delle competenze finali”; a pag. 3 “l’organizzazione del tempo di lavoro quale disposta dal titolare dello Studio era molto strana e sghemba” a pag. 5 “la prevista escalation di assurdità” a pag. 7 “se il convenuto è stato incapace (per proprio disordine concettuale) di gestire tali aspetti, ciò può riguardare solo la sua sfera personale“ a pag. 9 “…in definitiva l’atteggiamento del convenuto batte ogni record di incongruità ed infondatezza“ a pag. 11; “solo i soggetti che ignorano il diritto civile, possono infatti confondere il termine triennale….” Ed infine a pag. 13 “…per cui pretendere di negarli è addirittura ripugnante”.
In Perugia il 18.05.2007.
Nonché violazione degli artt. 20 e 29 CDF “Per aver contravvenuto ai divieti, previsti rispettivamente dagli artt.20 e 29 Cod. Deont. Naz. Di usare espressioni sconvenienti ed offensive e di utilizzare in giudizio notizie relative alla persona del Collega senza che l’uso di tali notizie fosse necessario alla tutela di un diritto dei suoi clienti, usando le seguenti espressioni nei confronti del collega D. A. nell’atto di appello notificatogli in data 28.11.2007 relativo alla causa che vede opposti i sigg.ri N. B. e L. T. all’avv. D. A. personalmente: “la controparte, identificatasi in un soggetto iscritto all’Albo degli avvocati“; “tale atteggiamento, cioè la pretesa che nelle questioni che lo riguardano direttamente come soggetto litigante, l’attuale appellato debba ricevere un trattamento di riguardo, e ciò che si debba usare nei suoi confronti termini meno fermi di quelli che si usano nei confronti della generalità dei contendenti, è stato da lui manifestato anche in altra vicenda, alla quale incidentalmente va fatto cenno”; avendo l’attuale appellato avuto alle proprie dipendenze per oltre venti anni una segretaria e per oltre quattordici un’altra segretaria, si era verificato che nel 2006 le avesse, a breve distanza di tempo, licenziate senza corrispondere loro le competenze di fine rapporto e in particolare il trattamento di fine rapporto, frutto del loro lavoro ultradecennale”: avendo il sottoscritto difensore cui la segretaria con anzianità di servizio di oltre venti anni si era rivolta, assunto la sua difesa ed avendo presentato normale ricorso al Giudice del Lavoro, il convenuto ha ritenuto di poter presentare un esposto al Consiglio dell’Ordine nei confronti del sottoscritto difensore solo perché questi aveva fatto il suo dovere professionale e cioè perché aveva stigmatizzato, con la necessaria fermezza, l’atteggiamento di chi, dopo aver tenuto alle proprie dipendenze una persona per oltre venti anni non le aveva versato quanto previsto per legge”; “il sottoscritto difensore non ritiene che il prestigio della categoria dei Legali si conquisti accampando titolo a privilegi processuali e ritiene invece che, quando un iscritto all’albo è parte di una controversia, i due soggetti, egli e la controparte, debbano stare su un piano di assoluta parità”.
In Perugia, il 28 novembre 2007
In data 10.07.2007 perveniva al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Perugia un esposto nel quale l’avv. D. A:rappresentava di aver ricevuto la notifica di un ricorso proposto dalla sig.ra V. P., patrocinata dall’avv. S. C., nella cui narrativa, a giudizio dell’esponente, erano contenute una molteplicità di frasi ed affermazioni sconvenienti ed offensive, non pertinenti alla funzione difensiva assunta dal professionista, in palese violazione di specifici canoni deontologici.
Il COA di Perugia con raccomandata del 12 luglio 2007, invitava a far pervenire le proprie giustificazioni l’incolpato il quale rivendicava la correttezza, anche deontologica, del suo operato, mettendo in particolare in evidenza di avere ricevuto richiesta di assistenza legale da parte della sig.ra P., da lui prima non conosciuta, che gli espose:
a) di essere stata per oltre 20 anni alle dipendenze dell’avv. A.;
b) di esserne stata licenziata;
c) di non avere ricevuto le normali competenze di fine rapporto;
d) di aver ricevuto dall’avv. A. una richiesta di risarcimento danni, prospettato in centinaia di migliaia di euro, per avere ella “fatto scadere i termini di prescrizione” per alcune pratiche e simili addebiti;
e) di essersi rivolta in precedenza ad altri Colleghi, che però avevano declinato la richiesta di assumere la difensa.
L’incolpato ribadiva come le espressioni contenute nel ricorso fossero peraltro indispensabili in quanto utili a ricostruire il quadro organizzativo dello Studio Legale A. e comunque, lungi dall’essere offensive e/o sconvenienti, erano strettamente connesse all’oggetto della causa e funzionali ad una corretta prospettazione del fatto.
Alla seduta consiliare del 19 ottobre 2007 il COA di Perugia deliberava l’apertura del procedimento disciplinare a carico dell’avv. C., formulando il capo d’incolpazione suddetto che veniva notificato all’incolpato e al PM.
L’udienza dibattimentale subiva successivi rinvii sino al 20 febbraio 2009, data nella quale era fissato anche il dibattimento nel procedimento disciplinare originato da altro esposto sempre dell’avv. A. nei confronti dell’avv. C. attinente un atto di appello; riuniti i procedimenti, il COA fissava udienza di discussione al 23 ottobre 2009.
L’incolpato depositava memoria nella quale ribadiva la professionalità e correttezza del proprio operato, essendosi limitato a svolgere l’attività difensiva, ed escludeva la natura ingiuriosa o sconveniente delle espressioni usate.
All’esito della discussione, il COA riteneva che nel caso di specie fossero stati violati i canoni deontologici di cui agli artt. 20 e 29 CDF; riconosceva la sostanziale buona fede dell’avv. C. nell’espletamento dei mandati difensivi ma riaffermava il limite rappresentato dalla intangibilità della persona del contraddittore, a prescindere si tratti o meno di collega : nel senso che se può anche ammettersi crudezza ed asperità dei toni, quando la disputa abbia un contenuto oggettivo e riguardi opposte tesi dibattute, quando invece la diatriba trascende sul piano personale e soggettivo l’esigenza di tutela del decoro e della dignità professionale forense impone di sanzionare i relativi comportamenti.
In altri termini, il COA ha ritenuto che nel caso di specie l’avv. C. non si sia limitato ad esporre con vigore e calore la tesi difensiva della propria assistita, ma abbia fatto invece ricorso ad espressioni e ad un linguaggio non consono al decoro formale che l’incarico defensionale per sua natura obbligatoriamente comporta: espressioni che travalicano e superano il limite, suddetto e che non consentono pertanto di applicare nemmeno il più generale principio posto dall’art. 51 cod. pen..
Infine, quanto alla contestazione di cui all’art. 29 CDF, il COA riteneva non ricorrere l’indispensabile requisito della necessità dell’uso della notizia relativa alla persona del collega, come espressamente richiesto della norma deontologica quale circostanza che consente di derogare a quel divieto, per non avere, le espressioni utilizzate, attinenza alcuna con l’oggetto del contenzioso civile e non risultando necessarie al corretto adempimento del mandato difensivo.
Il COA irrogava quindi la sanzione dell’avvertimento.
Con atto depositato il 10 febbraio 2010, l’avv. C. ricorre avverso la decisione del COA di Perugia articolando tre distinti motivi di impugnazione:
1) Nullità del procedimento disciplinare in quanto conclusosi con un provvedimento nullo per essergli stata comunicata la sanzione dell’avvertimento non già con lettera del Presidente del COA (che deve contenere un richiamo e una esortazione come previsto dall’art. 40 RDL 1578/33) bensì con la mera notifica della decisione;
2) insussistenza della violazione dell’art. 20 CDF: il COA , in primo luogo, non ha separatamente esaminato i sette punti specifici in cui si sarebbe integrato il comportamento contestato, esame che sarebbe stato indispensabile per affermare la travalicazione rispetto alle esigenze difensive e quindi la colpevolezza.
La professione impone all’avvocato, di proclamare la verità sempre e nei confronti di chiunque, anche quando la stessa comporta severa stigmatizzazione del comportamento altrui: come nel caso di specie, nel quale il contesto comportamentale dell’avv. A. era stato comunque grave.
Il ricorrente ricorda infatti che la mancata corresponsione alla dipendente del TFR dopo venti anni di rapporto di lavoro, se non è tecnicamente furto o indebita appropriazione, di tali reati ha una componente sostanziale, mentre l’accusa alle dipendenti dello studio di aver fatto scadere i termini di prescrizione di alcune pratiche è del tutto fuori luogo, atteso che non è proprio della segretaria ma del legale seguire le pratiche e controllare la tempestiva tutela dei diritti dei clienti: le espressioni usate e ritenute non conformi al dettato del CDF erano pertanto assolutamente connesse con la vicenda e necessarie per la tutela delle ragioni della propria assistita.
In particolare: “vorrebbe defraudarla delle competenze finali” va collegato al collegamento del mancato versamento a pretese negligenze della dipendente; “organizzazione strana e sghemba” trova conforto nelle predisposizione di una complicata articolazione dell’orario di lavoro delle dipendenti; “escalation di assurdità” si riferisce a una progressiva anomalia di comportamento dell’avv. A., al cui “disordine concettuale” e non già alle dipendenti andava addebitata la tardiva richiesta di competenze professionali ai clienti dello studio; “record di incongruità e infondatezza” si riferisce alla pretesa di configurare, nei confronti di una addetta alla segreteria con mansioni esclusivamente di ordine, carenze e ritardi nel rapporto professionale fra il titolare dello studio e una sua cliente; “solo i soggetti che ignorano il diritto civile possono confondere il termine di prescrizione triennale della pretesa di pagamento con quello ordinario decennale” era riferito all’addebito mosso dal legale alla segreteria di aver lasciato scadere i termini di prescrizione delle proprie competenze professionali per le quali in realtà era solo maturata la prescrizione presuntiva; infine, il termine “ripugnante” significava il disvalore complessivo attribuito al comportamento dell’avv. A., lesivo non solo del dovere di assolvere all’obbligo proprio del datore di lavoro ma anche di quello previsto dall’art. 25 CDF di “compensare i collaboratori in proporzione all’apporto ricevuto”.
Va rilevato, a proposito delle frasi ora riportate, che il ricorrente ha depositato il 12 giugno corrente, accompagnandola con una nota di aggiornamento, la sentenza del Tribunale di Perugia, Sez. lavoro 23/24 maggio 2012 che ha deciso la controversia de qua e nella quale si afferma espressamente che le frasi stesse “sono tutte collegate alla materia del contendere, collocandosi nelle linee difensive percorse dalla ricorrente” e “devono pertanto considerarsi lecite perché, pur esprimendo una critica acuminata, non sono offensive”; la sentenza dispone invece la cancellazione del riferimento al “disordine concettuale” del convenuto, che ben poteva essere omesso, e la definizione “ripugnante” attribuita alla pretesa di non corrispondere il TFR, che poteva essere sostituita da espressioni di maggior continenza senza indebolire i concetti esposti.
Il Tribunale ha peraltro riconosciuto che le questioni attinenti al pagamento delle prestazioni, ivi comprese quelle della notula e della fatturazione, rientrano nell’ambito dei rapporti fra il professionista e il cliente, rapporti che il primo è chiamato a seguire personalmente controllando, sia pur periodicamente, l’operato delle sue dipendenti e che nel caso tale controllo non vi è stato. Ora, a dire del ricorrente, poiché si trattava di 224 pratiche in ordine alle quali l’avv. A. aveva omesso di esercitare il controllo, il riferimento al disordine concettuale non aveva alcun contenuto offensivo ma era soltanto una sintesi della vicenda di causa.
Quanto infine al termine “ripugnante”, la valutazione non era direttamente riferita al caso di specie ma aveva un valore generale, perchè in una Repubblica fondata sul lavoro e nella quale la retribuzione è qualificata come un diritto fondamentale, pretendere di negare il pagamento del frutto del ventennale lavoro altrui che costituisce il risparmio accantonato integra un comportamento certamente contrario a valori etici e tale da non poter non apparire come ripugnante.
Il ricorrente ricorda quindi la giurisprudenza della Cassazione secondo la quale, perché le espressioni possano ritenersi sconvenienti e offensive, è necessario che non riguardino l’oggetto della causa e non si pongano in rapporto di strumentalità con le tesi difensive, perché la tutela prevista per gli avvocati dall’art.598 cod.pen. costituisce applicazione estensiva del principio posto dall’art.51 cod.pen. (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere).
Anche la giurisprudenza del CNF si pone nello stesso senso, laddove afferma che il professionista, nell’ambito della propria attività difensiva può, anzi, deve esporre con vigore e calore la tesi difensiva del proprio assistito, impegno difensivo quale quello posto nella tutela di una umile lavoratrice, con fermezza e lucidità che il COA avrebbe dovuto apprezzare, soprattutto atteso che il comportamento dell’avv. A. integrava un atteggiamento di ritorsione nei confronti del collega che aveva assunto la difesa della sua segretaria, licenziata dopo 20 anni senza corresponsione del TFR e addirittura con una richiesta di € 200.000 di danni, collega che aveva cercato di condizionare prospettando una sua responsabilità disciplinare.
3) Quanto infine al contenuto dell’atto di appello oggetto della seconda contestazione disciplinare, il ricorrente sostiene l’insussistenza della violazione del precetto di cui all’art. 28 CDF perché nell’atto suddetto non vi sono espressioni offensive ma solo il richiamo a fatti del tutto veritieri e comunque connessi alla vicenda giudiziaria in atto, fatti il cui richiamo appariva necessario e utile al perseguimento di finalità eminentemente difensive.
L’avv. C. ricorda che fu l’avv. A. a sostenere, nella causa promossa contro ex clienti morosi, che il difensore di costoro aveva utilizzato nella comparsa di risposta una espressione, quella per cui egli avrebbe agito senza ragionevolezza, che sarebbe stata impropria e al limite della deontologia professionale.
Si rendeva quindi necessario il riferimento al procedimento disciplinare aperto nei confronti del difensore stesso in un’altra vicenda, (quella di cui al primo capo di incolpazione) riferimento che si era limitato alla materiale trascrizione delle espressioni riportate nel secondo capo di incolpazione: richiamo che conteneva solo la menzione di dati di fatto assolutamente veritieri.
Né va dimenticato il procedimento disciplinare di cui era fatta menzione era a carico dello stesso deducente e non già dell’avv. A..
L’art. 29 CDF fa riferimento all’utilizzazione di notizie riguardanti la persona del collega: nella fattispecie, invece, non si trattava di aspetti relativi alla vita personale o famigliare dell’avv. A. ma all’incolpazione dell’avv. C. in un procedimento disciplinare per un atto difensivo redatto nell’ambito dell’attività professionale.
Il richiamo al suddetto procedimento disciplinare era peraltro necessario per la tutela dell’esercizio dei diritti degli assistiti dell’appellante che avevano bisogno di un avvocato che li potesse difendere senza condizionamenti e senza dover assumere un atteggiamento di riguardo solo per essere avvocato la controparte degli stessi: in difetto ne sarebbe risultata una situazione processuale sperequata in cui il difensore dell’avvocato avrebbe potuto dire tutto mentre il difensore degli ex clienti non avrebbero potuto dire la stessa cosa dell’avvocato/controparte.
L’avv. C. ritiene pertanto di dover essere prosciolto anche da questo addebito.
DIRITTO
Esaminando partitamente i tre motivi di ricorso, il Consiglio ritiene, quanto al primo, di affermarne l’infondatezza, atteso che la decisione del presidente del COA di dare esecuzione alla sanzione dell’avvertimento con la semplice lettura della decisione disciplinare appare del tutto legittima, essendo la comunicazione formale ex art. 40 RDL 1578/33 mero atto accessorio lasciato alla discrezionalità del Presidente medesimo (CNF, 19.02.2002, n. 2), con conseguente piena legittimità del procedimento disciplinare promosso nei confronti dell’avv. C..
Il ricorso è invece fondato quanto alla pretesa violazione dell’art. 20 CDF: il Consiglio ritiene infatti che le espressioni utilizzate dall’avv. C. nei confronti dell’avv. A., per quanto colorite, ove riferite alla materia del contendere-mancata corresponsione del TFR ad una dipendente da oltre vent’anni del proprio studio professionale da parte di avvocato che oppone in compensazione il danno asseritamente causatogli dalla dipendente per aver lasciato decorrere i termini di prescrizione del pagamento delle parcelle dello studio ed alla circostanza che l’avv. A., nella fattispecie, si proponeva come controparte della persona assistita e difesa dal ricorrente e non già come collega ben possono ritenersi lecite, collegate alla materia del contendere e tali pertanto da non integrare la violazione affermata dal COA di Perugia.
Il Consiglio condivide pertanto le osservazioni critiche mosse dal ricorrente alla decisione del COA di Perugia, che, pur riconoscendo la sostanziale buona fede dell’avv. C., ne ha affermato la rilevanza deontologica della condotta per il ripetuto ricorso ad espressioni non consone al decoro formale proprio della professione forense: espressioni che peraltro il Tribunale che ha deciso la controversia promossa dall’avv. C., quale difensore della ex dipendente dello studio A., ha ritenuto essere tutte collegate con la materia del contendere tanto da negarne la richiesta cancellazione ad esclusione del riferimento al “ disordine concettuale” e alla definizione di ” ripugnante” attribuita alla pretesa di non corrispondere il TFR.
Definizione, quest’ultima, che – a detta del ricorrente - può apparire forte solo ove non si tenga conto del contesto nel quale è stata utilizzata, perché è certamente sconveniente e eticamente discutibile, ancor più quando attuato da un professionista tenuto all’osservanza di principi quali la dignità e il decoro e al dovere di compensare i propri collaboratori in proporzione all’apporto ricevuto (art. 25 CDF), il comportamento del datore di lavoro che non solo rifiuta la corresponsione di un TFR maturato in lunghissimi anni di servizio da una dipendente, ma sostiene la responsabilità patrimoniale di quest’ultima per non avere tempestivamente operato il recupero dei crediti professionali vantati nei confronti dei propri clienti, compito che certamente esula dai doveri del lavoratore dipendente.
Il COA di Perugia non ha tenuto conto, nella valutazione del comportamento dell’avv. C., che le espressioni ritenute sconvenienti ed offensive non avevano ad oggetto il collega bensì una controparte il cui comportamento processuale ben poteva essere oggetto di una critica anche aspra, ma non volgare o ingiuriosa e comunque sempre in rapporto diretto con la materia del contendere e le cui tesi difensive non erano riferite ad argomentazioni giuridiche ma a situazioni di fatto all’evidenza tanto inconsistenti e pretestuose da apparire eticamente intollerabili soprattutto in un contesto di evidente disparità della parte in causa quale quello della vicenda processuale in oggetto.
Puntuale, in tema, la giurisprudenza di questo Consiglio (“va esclusa la violazione dell’art. 20 c.d.f. per carenza del necessario elemento soggettivo dell’animus iniuriandi quanto, come nella specie, non emerga alcun elemento indicativo della volontà dell’incolpato di esprimere apprezzamenti negativi in ordine alla personalità ed al patrimonio morale dell’esponente, essendosi il professionista limitato alla contestazione oggettiva di un fatto non vero e di un giudizio privo di fondamento (CNF, 13.12.2010 n. 215) ricordando che le espressioni usate dall’avv. C. rimangono nell’ambito dell’esercizio del diritto di critica e di confutazione delle tesi difensive di una controparte vista non come collega ma come datore di lavoro inadempiente, senza travalicare nel non consentito biasimo e nella censurabile deplorazione dell’operato del difensore di una controparte.
Altrettanto costante la giurisprudenza della Cassazione, per la quale “la sussistenza dei presupposti per la cancellazione di espressioni sconvenienti o offensive va esclusa allorquando le espressioni in parola non siano dettate da un passionale ed incomposto intento dispregiativo e non rilevino perciò un intento offensivo nei confronti della controparte (o dell’ufficio), ma, conservando pur sempre un rapporto, con la materia controversa, senza eccedere dalle esigenze difensive, siano preordinate a dimostrare, attraverso una valutazione negativa del comportamento dell’avversario, la scarsa attendibilità delle sue affermazioni “ (Cass. N. 12309 del 2004 e n. 10288 del 2009).
Nel caso in esame, le espressioni usate dall’avv. C. appaiono dirette ad evidenziare situazioni di fatto funzionali e proporzionali al diritto di difesa della propria assistita e non già ad aggredire la personalità di controparte, cui viene addebitato il disordine nella gestione delle pratiche dello studio che trova oggettivo riscontro nel ragguardevole numero di quelle asseritamente affidate – ai fini del pagamento delle parcelle – in via esclusiva alla dipendente: affidamento che, se anche corrispondente al vero, non poteva comunque esimere il datore di lavoro dal controllo quanto meno periodico dell’attività svolta dall’impiegata.
Quanto infine all’affermata violazione dell’art. 40 CDF, il COA di Perugia ha erroneamente ritenuto che le informazioni riversate nell’atto di appello fossero estranee ai fatti di causa e non necessarie all’espletamento del mandato difensivo: l’avv. C. ha menzionato fatti e circostanze veritieri, riportando episodi inerenti non già la vita personale dell’avv. A. ma una vicenda nella quale l’incolpato era il ricorrente e non già il collega, una vicenda nella quale quest’ultimo aveva lamentato comportamenti asseritamente deontologicamente scorretti dell’avv. C., che si era ritrovato incolpato di fatti comunque connessi alla vicenda giudiziaria e che pertanto ben potevano essere richiamati nell’atto di appello in quanto necessari ed utili al perseguimento di finalità eminentemente difensive nell’interesse della propria assistita.
P Q M
Il Consiglio Nazionale Forense, riunito in Camera di Consiglio;
- visti gli artt. 50 e 54 del R.D.L. 27 novembre1933, n. 1578 e gli artt. 59 e segg. del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37;
accoglie il ricorso proposto dall’avv. S. C..
Così deciso in Roma, lì 21 giugno 2012.
IL SEGRETARIO IL PRESIDENTE f.f.
f.to Avv. Andrea Mascherin f.to Avv. Carlo Vermiglio
Depositata presso la Segreteria del Consiglio nazionale forense,
oggi 29 novembre 2012