Tutela del marchio tra codice penale e codice della proprietà industriale – quando l’utilizzo di un marchio altrui è lecito
Integrazione del delitto di commercio di prodotti con marchio contraffatto – artt. 20 e 21 Codice della proprietà industriale – liceità dell’uso del marchio altrui – destinazione di un prodotto o un servizio – Corte di Cassazione Pen., sez. 2, sentenza n. 16094 del 03 aprile 2019, commento a cura della Dott.ssa Claudia Borghini.
Fatto. Il Tribunale aveva assolto il Sig. VVV. dal reato di cui agli artt. 81 cpv. e 517-ter, comma 2, cod. pen., oltre che da quelli di cui agli artt. 474 e 648 cod. pen., perché il fatto non sussiste.
La Corte d’Appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava l’imputato responsabile del reato di cui agli artt. 81 cpv. e 517-ter, comma 2, cod. pen., concedendo le circostanze attenuanti generiche, confermando nel resto la sentenza di primo grado.
Ciò che viene contestato all’imputato è di aver acquistato e ricevuto (art. 648 cod. pen.) nonché detenuto per la vendita (art. 474 cod. pen.) accessori e parti di ricambio (filtri, microfiltri, profumatori e spazzole) relativi all’aspirapolvere prodotto e venduto dal gruppo VVV in Italia con il nome specifico di “QQQ” ed in Germania con il nome di “KKK”, aventi impressi marchi tutelati dalle leggi sulla proprietà intellettuale o industriale palesemente contraffatti, nonché di avere usurpato i titoli di proprietà industriale della medesima azienda sui predetti accessori e parti di ricambio.
Avverso tale decisione veniva, quindi, proposto ricorso per cassazione dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Milano, deducendo con un unico motivo la violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in relazione alla confermata assoluzione dell’imputato dai reati di cui agli artt. 474 e 648 cod. pen.
Decisione. La Suprema Corte ha ritenuto non fondato il ricorso.
Occorre prendere le mosse da due dati di fatto non contestati, ovvero che il marchio sia effettivamente registrato dall’azienda VVV e sia quindi protetto dalla normativa sulla proprietà intellettuale, e che il nome del prodotto “KKK” compaia sulle scatole del microfiltro igienico commercializzato dall’imputato.
L’assetto normativo, poi, da prendere in considerazione è costituito dall’art. 21 del d.Lgs. n. 30/2005 (Codice della proprietà industriale), il quale dispone testualmente che: “1. I diritti di marchio d’impresa registrato non permettono al titolare di vietare ai terzi l’uso nell’attività economica, purché l’uso sia conforme ai principi della correttezza professionale: a) del loro nome e indirizzo; b) di indicazioni relative alla specie, alla qualità, alla quantità, alla destinazione, al valore, alla provenienza geografica, all’epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio o ad altre caratteristiche del prodotto o del servizio; c) del marchio d’impresa se esso è necessario per indicare la destinazione di un prodotto o servizio, in particolare come accessori o pezzi di ricambio. 2. Non è consentito usare il marchio in modo contrario alla legge, né, in specie, in modo da ingenerare un rischio di confusione sul mercato con altri segni conosciuti come distintivi di imprese, prodotti o servizi altrui, o da indurre comunque in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa del modo e del contesto in cui viene utilizzato, o da ledere un altrui diritto di autore, di proprietà industriale, o altro diritto esclusivo di terzi”. L’art. 6, n. 1, lett. c), della Direttiva europea 89/104/CEE, inoltre, contiene sostanzialmente il medesimo testo con l’inciso finale: “… purché l’uso sia conforme agli usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale”.
La Suprema Corte ha richiamato il principio, espresso da giurisprudenza precedente, secondo il quale “integra il delitto di commercio di prodotti con marchio contraffatto colui che ponga in vendita accessori e ricambi per aspirapolvere sui quali sia stato riprodotto il marchio dell’impresa produttrice dei componenti originali”, in quanto il marchio è il segno distintivo che indica univocamente l’origine del prodotto, garantendone l’autenticità, la provenienza e la qualità e del quale il titolare acquista con la registrazione il diritto di farne uso esclusivo nell’attività economica e di vietare ai terzi analogo uso (d.Lgs. n. 30 del 2005, art. 20).
Tuttavia, va altresì considerato che l’art. 6, n. 1, lett. c) della direttiva europea 89/104/CEE riprodotto anche nell’art. 21, comma 1, del d.Lgs. n. 30/2005, afferma la liceità dell’uso del marchio altrui “se esso è necessario per contraddistinguere la destinazione di un prodotto o servizio, in particolare come accessori o pezzi di ricambio”, andando così ad affermare al termine “destinazione” un ruolo di particolare rilevanza.
“Il marchio, quindi, - afferma la Suprema Corte - può essere apposto alla confezione, mentre non può lecitamente contrassegnare il componente, poiché la sua presenza su di esso dopo il montaggio più non varrebbe a individuare la, già raggiunta, destinazione, ma piuttosto l’origine del componente stesso; il che sarebbe, oltretutto, in contrasto con l’obbligo di osservanza degli usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale, immediatamente richiamati dalla disposizione comunitaria in questione”.
Ne consegue che la dicitura “Microfiltro igienico per “KKK” apposta sulla confezione del componente indica non il marchio del microfiltro (e con esso l’azienda produttrice dello stesso) ma la mera “destinazione” dell’accessorio e poiché non risulta che il marchio sia stato posto anche direttamente sul bene, la Suprema Corte ha ritenuto di non ravvisare nel caso in esame configurabile il reato di cui all’art. 474 cod. pen. e, non trattandosi di bene proveniente da delitto, nemmeno il reato di ricettazione di cui all’art. 648 cod. pen.