Presidenzialismo, no grazie. di Alessandro Diotallevi
Due premesse sono necessarie. La prima: non è il tempo, recte, non c’è tempo per fare dell’accademia quando il confronto politico s’è incarognito al punto di essere diventato, dichiaratamente o implicitamente, scontro per la sopravvivenza delle libertà democratiche. La seconda, consequenziale: bisogna fare una nuova scelta di contenuto costituente, benchè non si sia in fase storica successiva ad una guerra o a una rivoluzione. . . . . . .
Perché irrompe nell’orizzonte della democrazia consolidata, certamente bisognosa della messa a punto di molte sue parti, nel permanere della scelta costituzionale compiuta e magari della sua integrale attuazione, l’opzione del “rovesciamento del tavolo”, della mutazione delle regola fondamentale, insomma del presidenzialismo?
Sia subito chiaro che in questo intervento politico non intendo assegnare responsabilità, neppure all’attuale Presidente del Consiglio. Anzi, mi auguro di essere considerato un modestissimo metodologo dell’analisi del funzionamento delle istituzioni, quantunque fermo, fermissimo nell’ispirazione cattolico-politica, al servizio di una battaglia che accomuni la comunità nazionale, la nazione, tutta intera, nel restituire effettività, effettività di funzionamento alla sovranità popolare. Mi auguro che non sia di supporto, questo invito all’azione, ai soliti, rituali richiami di stile partitico utili, ormai poco o niente, a battere il marciapiede sul quale corre lo sconcio dell’irridente separatezza tra la buona fede delle persone e l’inclinazione criminale (nei confronti della democrazia) dei soliti noti.
Infatti, è accaduto in Italia (degli altri Paesi si dovranno occupare le singole comunità) che si sia andato consolidando, in via di fatto, senza opposizione costituzionalgiurisdizionale, il fenomeno della “presidenzializzazione” della nostra democrazia come conseguenza del depositarsi nel potere esecutivo, nel Governo, di un sovrappiù di forza corrispondente ad un sovrappiù di capacità di comunicazione, di un sovrappiù di credito popolare nella capacità di affrontare (non necessariamente di risolvere) i problemi del vivere quotidiano. Ve ne do prova: una pubblica opinione non particolarmente educata a conoscere il funzionamento delle istituzioni, incline a confondere esecutivo e legislativo, s’è trovata a proprio agio ad identificare in un unico soggetto pubblico il trinomio potere-persona-funzione. Tradotto: do potere ad una persona perché svolga una funzione. Dal 1993/1994 ad oggi, attingendo alla logica del sondaggio popolare, il “chi ha fatto cosa” corrisponde a nomi: Berlusconi, Prodi, Renzi, Meloni. A proposito di quest’ultima, il paradigma della personalizzazione le si attaglia perfettamente. Oggi, è Presidente del Consiglio e le si chiede di fare, le si riconosce di aver fatto, le si assegna, dandola per scontata, la responsabilità unica (non quella stabilita nella Costituzione in capo al Presidente del Consiglio) del funzionamento del Governo e delle sue branche operative, che siano giustizia, sanità lavoro poco rileva. Ma è la stessa Meloni che, giovanissima vicepresidente della Camera, già rilevante esponente della destra, non ha lasciato traccia istituzionale del suo passaggio!
E’ venuto a compimento il disegno berlusconiano delle elezioni mascherate del premier, prescelto per designazione di partito e convalidato dal suffragio elettorale. Qualche mugugno c’è stato, presto riassorbito dal sistema. Resta un fatto, che i Presidenti del Consiglio tecnici, Monti, Draghi, a giusto vedere, sono stati in buona sostanza figli di un sistema parlamentare funzionante, mentre i Presidenti del Consiglio “indicati” (non eletti dal corpo elettorale) sono risultati figli del presidenzialismo strisciante.
Parlamentarismo e presidenzialismo si giocano la loro partita in un campo quadrato, con lati contrapposti uguali, denominati convenzionalmente rappresentanza e governabilità. All’interno di questa rappresentazione grafica si colloca la democrazia. Se non prevale la responsabilità democratica (nei partiti, nei corpi intermedi, nelle persone) tra potere legislativo (Parlamento) e potere esecutivo (Governo), quale che ne sia la colorazione, prevale la competizione. Sembra un paradosso, in fondo i due poteri sono complementari, (pazienza per quello giurisdizionale che non ha investitura elettiva) ma tra chi fa le leggi e chi le esegue c’è una si instaura una competizione permanente.
Se contenuta nella fisiologia istituzionale, potrebbe essere salutare. Quanto sarebbe utile al Paese che tra Parlamento e Governo si competesse in termini di qualità, con il Presidente del Consiglio e l’intero Consiglio dei Ministri ad incalzare il Parlamento (nelle sedi delle Commissioni e in Assemblea) sul fronte della qualità delle leggi, pretendendone la leggibilità, la trasparenza, ai fini della loro esecuzione. Quanto sarebbe utile che il Parlamento incalzasse il Governo sulla esatta esecuzione dell’indirizzo politico generale (nella sede del controllo dei suoi atti) facendo valere la pretesa della sede della rappresentanza generale di verificare il principio di responsabilità politica del Governo per ciascuno degli atti che compie in esecuzione della legge.
Non farò esempi, in questa sede, per non appesantire l’ispirazione politica dello scritto, ma anche i più elementari accenni al funzionamento in concreto delle istituzioni hanno a base passaggi reali (consolidati nella storia e nelle cronache) nelle specificazioni del bene comune, dall’educazione all’economia, dalla giustizia alla difesa, dall’ordine pubblico alla salute, dalla famiglia alle persone, agli individui. Sui quali occorre confrontarsi nella società civile, prima che una società politica divenuta gradualmente distante ed autoreferenziale (al punto di mitridatizzarci) ci tolga il tempo di farlo liberamente.
Ma cosa è avvenuto ed avviene, sotto i nostri occhi? Che il potere esecutivo, al netto della proposta presidenzialista del Governo in carica, è divenuto dominante, si è sostituito al Parlamento sottraendogli la centralità istituzionale.
Nessun massimalismo nell’uso delle parole dovrà aiutare il presidenzialismo di fatto a vincere la propria battaglia per il primato. Non c’è in atto una sbandata cesarista (peraltro stagliata sullo sfondo istituzionale dei sistemi presidenziali passati e viventi); non c’è limitazione delle libertà democratiche formali; non c’è in corso una militarizzazione delle modalità procedurali delle amministrazioni pubbliche (anche se, in presenza di eventi straordinari, la pandemia per esempio, qualche spunto autoritario, anche in barba alle sentenze costituzionali, s’è intravisto). Per la verità in tutti e tre i “poteri”, esecutivo, giurisdizionale e legislativo.
Nessun massimalismo, nessuna sottovalutazione degli eventi, nessuna dimenticanza.
Originariamente, non timidamente, irrompe nella legge elettorale l’indicazione sulla scheda elettorale del nome del candidato Presidente del Consiglio; successivamente, da parte di tutti i Governi succedutisi nell’ultimo ventennio, l’espropriazione della funzione legislativa delle Camere nella tenaglia della decretazione d’urgenza e dei voti di fiducia; la violazione dell’art.72 della Costituzione, ed il ricorso ad libitum, da parte del Governo, al testo sostitutivo del testo di derivazione parlamentare (in genere un articolone con decine, centinaia di commi) con l’apposizione del voto di fiducia e la caducazione integrale del confronto parlamentare, cioè della dialettica politica sul governo delle cose. Sostituita, si dirà banalmente, dal voto di una maggioranza parlamentare. Sottolineatura da azzeccagarbugli del diritto costituzionale, causidica quanto sguaiata, dal momento che il punto democratico non si risolve nel solo voto di maggioranza, bensì nel rispetto della sostanza democratica delle procedure di confronto in Parlamento di tesi legittimamente contrapposte. La legge è di una maggioranza o dello Stato? Risposta scontata: è dello Stato, nel quale si ricompone lo spirito democratico delle maggioranze e delle minoranze. Diversamente, viene meno un pezzo insopprimibile della democrazia: il confronto. Diversamente, sottostante l’istinto presidenzialistico, si affaccia la tentazione di dare ogni potere ad una maggioranza eletta. Rinviando, così, vigliaccamente, al confronto elettorale la funzione del controllo da esercitarsi da parte del Parlamento sul Governo per ciascuno dei suoi atti di esecuzione o di proposta di regolazione legislativa. E che ci sta a fare, allora, il Parlamento, se il controllo sul Governo viene esercitato direttamente dal corpo elettorale, nell’ esercizio di una sovranità non più sviluppata nel farsi della gestione, bensì a consuntivo. Perfino i presidenzialisti dovrebbero preoccuparsi di tal deriva economicistica e meccanicistica!
Provo a sintetizzare. Mica tanto tempo fa, in Europa, s’è compiuta, nella modernità, (la partita era stata giocata, con carte sociali diverse nell’antichità) la rimonta delle democrazie sugli assolutismi. Leggi e Parlamenti al centro. Re e governi ad eseguire. Le Costituzioni a tenere insieme la diversità interne delle nazioni (da valorizzare, non da cancellare). L’unificazione in una persona dei poteri, una bestemmia. La supremazia dell’esecutivo sul rappresentativo, un ritorno al passato , una beffa da rintuzzare beffardamente (“si oppone la parola libertà all’ammissione dei Ministri all’Assemblea: ma non bisogna già considerare il potere esecutivo come un nemico della libertà nazionale. Io non vedo che vantaggi nell’ammissione dei Ministri con voce consultiva, imperocchè la deliberativa non appartiene che a coloro che la ricevettero dai loro committenti. Noi abbiamo dovuto gemere molto sotto inetti Ministri, che sono il più umiliante flagello di una nazione…nei loro palazzi hanno mille mezzi di imporsi…ma in mezzo all’Assemblea, essi troverebbero uomini, sarebbero costretti a sapere e a fare il loro mestiere di Ministri…”).
Più tardi sono arrivati i partiti, con mille funzioni da svolgere e nessuna responsabilità assegnata e sanzionata.
Tutte le volte che le cose si sono messe male, la responsabilità è stata fatta cadere sulle istituzioni. E’ venuto fuori l’antiparlamentarismo come rimedio per la rabbia popolare. Antiparlamentarismo di piazza e antiparlamentarismo di casta partitocratica si sono dispiegati senza ostacoli democratici a difesa della centralità dispersa della sovranità popolare. Nutrita, anche abilmente, con forme comunicative invasive e pervasive, dall’illusione di aver trovato il capro espiatorio. Di contare, di essere centrali.
E i partiti, tutti? I partiti, tagliando il ramo che li sosteneva si sono deparlamentarizzati, si sono larghissimamente lasciati andare ad ogni forma di populismo. Si sono, che fossero maggioranza o minoranza, convinti che fosse più conveniente proporsi come sostenitori della “funzione di governo”. E’ stato ben detto nei seguenti termini, ai quali mi associo senza riserve: “la funzione principale dei parlamenti, agli occhi dei partiti di maggioranza è di essere ed apparire sostenitori del Governo, agli occhi dei partiti di minoranza, di criticarlo nell’attesa di prenderne il posto”.
Se come è stato anche detto, i partiti sono diventati “elementi ausiliari del potere esecutivo” (Mair) siamo nel paradosso vivente della democrazia rappresentativa. I partiti, cioè, lo strumento attraverso il quale i cittadini si associano liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale (la nostra Costituzione), scelgono di essere paladini governativi presso la nazione, presso di noi e, contribuendo a delegittimare il Parlamento, mortificano o annullano la rappresentazione/rappresentanza degli interessi nazionali nelle sedi della formazione delle leggi e dell’esercizio del controllo sul potere esecutivo. In questo tempo opaco, nel quale i diritti e le libertà sono stati messi in ultima linea rispetto agli interessi, se le cose vanno dai partiti viene l’indicazione a non prendersela col Governo (piove, governo ladro) ma col Parlamento (piove, parlamento ladro).
Ci sono mille prove di ciò che accade. Ne scelgo una che mi pare particolarmente convincente. Il Governo, nella sua intera articolazione dicasteriale, è un gigante. Bilanci larghi, risorse abbondanti, attività riparata da occhi indiscreti (i nostri). Le Camere, per risorse assegnate (talvolta mal spese) dei nani; un centinaio o poco più di funzionari schierati ad accompagnare il Parlamento a far leggi e controlli. I parlamentari, l’espressione eletta dei partiti, ormai dimentichi della separazione dei poteri, senza alcuna voglia né forza di far valere l’autonomia parlamentare come condizione di tutela dell’espressione sovrana della volontà popolare. Persino i lobbisti se ne sono accorti e si sono trasferiti armi e bagagli nelle sedi delle decisioni materiali, nelle anticamere dei Ministri e soprattutto del Presidente del Consiglio. Con il denegato avvento del presidenzialismo, potranno liberare i ministeri e concentrarsi sulla sola presidenza del consiglio.
Sento già gli schiamazzi che si alzano: ecco il solito partitofobo. Questo, lo dico con chiarezza, non lo permetto. Non dirò con parole mie ciò che è stato detto in modo sublime e che condivido totalmente. E’ stato detto molto prima che la nostra Costituzione desse ingresso ai partiti ed è stato detto con riferimento alla degenerazione personalistica dei partiti: “Sostituendo l’interesse particolare all’interesse generale, le passioni individuali alle passioni comuni, che cosa fate? Minate i partiti, li snervate, li distruggete. Ora pensate forse che una società libera possa vivere (preferisco dire “sopravvivere”) senza partiti?...Ogni Governo che semina vizi, prima o poi raccoglie rivoluzioni: questo si è visto fin dal principio dei secoli”. Lo ha detto Tocqueville ed io aggiungo, per onestà intellettuale, che non credo a risposte rivoluzionarie. Credo a quel che vedo: Governi che seminano vizi generano dolore sociale diffuso, ingiustizia, poteri concentrati nelle mani di pochi.
Arrivo ad alcune conclusioni che certo mettono un limite alla voglia di denuncia della crisi morale delle istituzioni, ma hanno l’ardire di indicare soluzioni in una forma icastica, realistica, ridotta all’osso:
(per impedire ai partiti di mortificare il Parlamento, senza avventurarsi in percorsi liberticidi, che neghino il loro fondamentale ruolo rappresentativo) è necessario dare attuazione alta all’art. 49 della Costituzione. Tre linee direttrici: costruire una forma di responsabilità che ostruisca la strada dei vantaggi e degli interessi particolari, secondo il modello 231, sminando il terreno della corruzione e disseminandolo di controlli, anche giudiziari oltre che civici; depotenziare la tentazione populistica obbligandoli ad un adempimento che vale per tutti, quello di indicare il fine e gli strumenti per conseguirlo, con tutte le coperture, finanziarie, amministrative, organizzative stabilite dalla legge; dare ingresso ai gruppi di pressione nei procedimenti formali della decisione politica e legislativa, sotto la responsabilità dei titolari dei procedimenti, tanto parlamentari che governativi. C’è una controindicazione specifica: le conseguenti modificazioni di legge sono nelle mani dei partiti attuali. La risposta è democratica: occorre dar vita ad un partito della Costituzione e della libertà che si appelli alla nazione ed invochi ed ottenga una legge elettorale che non distorca il principio della rappresentanza, sottomettendosi, prima che siano approvate, ai vincoli delle leggi della riforma democratica testè accennata.
(per impedire la centralità di fatto del Governo) riformare il Parlamento senza modifiche costituzionali, aggiornandone i Regolamenti ed esaltandone l’autonomia davanti al corpo elettorale. Associare il Parlamento alle regole di funzionamento della governabilità (lo Statuto della governabilità), conferendogli la strumentazione (ivi compresa una tavola delle sanzioni per l’inadempimento delle proprie funzioni) per dare al sistema Paese la certezza e l’immediatezza delle regolazioni di legge di cui ha bisogno in assoluto ed in relazione alla competizione internazionale, nonché alla crescente complessità generata dall’innovazione tecnologica.
(per impedire che la conseguenza della patologia tumorale della relazione Parlamento-Governo, anche a causa dell’inefficienza democratica dei partiti, induca il corpo elettorale a credere che la concentrazione dei poteri nelle mani di un Capo del Governo eletto sia utile alla democrazia e non degradi verso gestioni del potere nocive dell’interesse generale e del bene comune) introdurre formalmente nella legislazione generale e, per quanto riservato all’autonomia parlamentare, nei regolamenti delle Camere uno Statuto della Governabilità con le seguenti caratteristiche principali: a) Parlamento e Governo, attraverso regolamentazioni ad hoc, costituiscono, con utilizzazione appropriata delle tecnologie, costantemente aggiornate, la “Banca dati nazionale” cui attingono, in condizioni di parità ed autonomia, per l’esercizio dei poteri assegnati dalla Costituzione e dalle leggi e cioè per l’esercizio del potere legislativo delle Camere, per l’esercizio del potere esecutivo del Governo, per l’esercizio dei poteri di controllo delle camere, per l’esercizio dell’iniziativa legislativa del Governo, per l’esercizio del potere legislativo d’urgenza e per quello delegato del Governo; b) la legislazione vigente ed i regolamenti parlamentari sono sottoposte a revisione, secondo l’attuale ordine delle competenze, per conferire carattere di perentorietà a tutti i termini stabiliti per il compimento delle attività istituzionali assegnate, cancellando dall’ordinamento le condizioni di un loro uso improprio (talvolta ricattatorio) da parte dei partiti; le questioni di interpretazione dello Statuto della Governabilità intercorrenti tra Governo e Parlamento costituiscono conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato e vengono esaminati dalla Corte Costituzionale, con conseguente integrazione della legge 87/1953; c) rimodulazione del principio di responsabilità dei parlamentari e dei componenti del Governo ed identificazione di un apparato sanzionatorio per le violazioni di legge, conforme alla Costituzione; d) restituzione alla politica, nelle istituzioni legislative ed esecutive, della centralità delle proprie decisioni e delle linee di indirizzo politico generale (che è andata cedendo il passo agli interessi particolari, più o meno organizzati, più o meno trasparenti, comunque arbitrari rispetto all’investitura popolare); riqualificazione dell’interpretazione della legge, nella sede giurisdizionale dell’esame dei vizi di violazione e falsa applicazione.
Si tratta di una proposta che spedisce nel passato la conflittualità tra i poteri e valorizza una nuova centralità della collegialità facendole valicare il rischio delle derive autoritarie dei poteri verticali senza menomarne la specificità ed il reciproco compito di bilanciarsi nella luce del rispetto della Costituzione, custode dell’interesse generale.
In Italia, oggi, l’obiettivo non è quello di aprire un conflitto tra poteri, bensì di chiuderlo secondo un modello, come è stato detto, in cui i rapporti tra potere esecutivo e potere legislativo costituisca un “gioco” a somma positiva. Se così non sarà, ne soffrirà il Paese di cui ci preoccupiamo senza identificarlo nel nome di nessuna personalità di partito.
E’ vero, lo ha scritto Padre Occhetta, (che è stato preceduto, una decina di anni fa, dalla stupenda riflessione di Padre Sorge sul cedimento strutturale del sistema politico italiano) che l’elemento centrale della riflessione in corso è costituito “dalla complessiva tenuta del sistema dei poteri”. Questa mia breve traccia di lavoro conferma la mia adesione alla sua conclusione. Con una precisazione ineludibile: che la governabilità è figlia della rappresentanza. Mai più, speriamo, e dipenderà dalla libertà praticata, attualizzata da nuove generazioni politiche, si dovrà assistere inerti al gioco partitocratico delle leggi elettorali con premi di maggioranza.
Lo dico, con prudenza ma con decisione: il presidenzialismo è un sistema in cui tuttora vige (guardando per una volta fuori dai nostri confini e a quel che vi succede) la dottrina Le Bon incentrata sul principio di imbambolare le folle “non esitando a far loro le promesse più fantastiche”. Il sistema parlamentare, riallestito contro la degenerazione partitocratica, indica alle folle un orizzonte di pace, giustizia, equità, sostenibilità.
Concludo con le parole di Tocqueville: “Presso i popoli liberi, si governa solo attraverso i partiti, o meglio il Governo è un partito che ha il potere. Il Governo è dunque tanto più perseverante e previdente quanto più il popolo esprime partiti compatti e permanenti”. Ecco, il nostro è il tempo dei partiti personali e transeunti, con un insopportabile e nauseabondo odore di servilismi e corruzioni. Se passiamo al presidenzialismo, slittiamo verso il partito del capo (o a qualche suo mascheramento). Operiamo per trasformarlo nel tempo dei partiti rappresentativi della volontà democratica dei cittadini!
Alessandro Diotallevi