lodo - Impugnazione - Nullità - Principio dell'unicità dell'impugnazione - Giudizio d'impugnazione
Arbitrato - Impugnazione lodo - Nullità - Principio dell'unicità dell'impugnazione - Giudizio d'impugnazione Arbitrato - Impugnazione lodo - Nullità - Principio dell'unicità dell'impugnazione - Giudizio d'impugnazione per nullità del lodo arbitrale - Applicabilità - Ragioni. Corte di Cassazione, Sez. 1, Sentenza n. 3229 del 01/03/2012
Arbitrato - Impugnazione lodo - Nullità - Principio dell'unicità dell'impugnazione - Giudizio d'impugnazione
Arbitrato - Impugnazione lodo - Nullità - Principio dell'unicità dell'impugnazione - Giudizio d'impugnazione per nullità del lodo arbitrale - Applicabilità - Ragioni.
Anche nel giudizio di impugnazione per nullità del lodo arbitrale è applicabile il principio secondo cui la proposizione dell'impugnazione principale determina, nei riguardi di tutti coloro cui il relativo atto venga notificato, l'onere, a pena di decadenza, di esercitare il proprio diritto di impugnazione nei modi e nei termini previsti per l'impugnazione incidentale, in applicazione della regola fondamentale della concentrazione delle impugnazioni contro la stessa sentenza; infatti, tale impugnazione pur non costituendo un comune appello avverso la pronunzia degli arbitri, essendo limitata all'accertamento dei vizi previsti dall'art. 829 cod. proc. civ. dedotti con il mezzo di gravame, introduce comunque dinanzi al giudice ordinario un procedimento giurisdizionale nel quale valgono, in mancanza di diversa disciplina, le norme processuali ordinarie. Corte di Cassazione, Sez. 1, Sentenza n. 3229 del 01/03/2012
Corte di Cassazione, Sez. 1, Sentenza n. 3229 del 01/03/2012
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
In relazione al rapporto originato dalla concessione alla Marcotex s.p.a., con D.P.C.M. 19 maggio 1989, n. 265, di un contributo a fondo perduto - ai sensi del D.L. 26 gennaio 1987, n. 8, conv., con modif., in l. 27 marzo 1987, n. 120 - per la realizzazione di uno stabilimento industriale in Melfi, il curatore del fallimento della predetta società instaurò, nel luglio 2002, un procedimento arbitrale nei confronti del Ministero delle Attività Produttive (poi Ministero dello Sviluppo Economico) ai sensi della clausola compromissoria contenuta nel disciplinare annesso al D.P.C.M. di concessione. Chiese il risarcimento del danno per inadempimento del Ministero al disciplinare, nonché l'annullamento del decreto ministeriale 21 dicembre 2000, con cui era stato revocato il contributo, dichiarata decaduta la transazione stipulata dalle parti il 17 giugno 1999 (per definire il contenzioso mediante l'autorizzazione della vendita dei macchinar acquistati con il contributo dalla società e la presentazione, da parte della stessa, di un piano industriale per l'investimento del ricavato) ed intimata, conseguentemente, alla società la restituzione della somma di Euro 15.194.156,42.
Il Ministero resistette e il collegio arbitrale, dichiarata, con lodo non definitivo del 28 maggio 2003, la propria giurisdizione anche sulla domanda di annullamento del decreto ministeriale, con lodo definitivo del 6 ottobre 2004 condannò il Ministero a un risarcimento danni di Euro 4.211.141,61, ma respinse la domanda di annullamento del decreto.
Il curatore fallimentare impugnò il lodo definitivo davanti alla Corte d'appello di Roma e il Ministero propose impugnazione incidentale.
La Corte d'appello ha rigettato l'impugnazione principale e ha dichiarato inammissibile, perché tardiva, l'impugnazione incidentale.
Secondo la Corte, l'impugnazione incidentale era tardiva perché era stata proposta con comparsa di costituzione depositata oltre il termine previsto per l'appellato dagli artt. 343 e 166 c.p.c., da computarsi con riferimento alla data dell'udienza indicata con l'atto di appello e non dell'udienza di rinvio di ufficio ai sensi dell'art. 168 bis.
L'impugnazione principale era invece da respingere a giudizio della medesima Corte - in conseguenza dell'infondatezza dei due motivi in cui sostanzialmente si articolava, con i quali, in relazione al rigetto della domanda di annullamento del D.M. 21 dicembre 2000, si denunciava violazione della L. 14 maggio 1981, n. 219, art. 32 e D.Lgs. 30 marzo 1990, n. 76, art. 39 e omissione, insufficienza e contraddittorieta della motivazione, per non avere gli arbitri verificato il corretto esercizio del potere di revoca, con particolare riferimento all'indicazione delle ragioni che avrebbero giustificato una diversa considerazione dell'interesse pubblico da parte dell'amministrazione (primo motivo), nonché la violazione degli artt. 1362 e ss. c.c. e degli artt. 1218 e 1456 c.c. (secondo motivo).
La Corte ha escluso la sussistenza delle violazioni di regole del diritto, ai sensi dell'art. 829 c.p.c., comma 2, denunciate dalla curatela, osservando, quanto al primo motivo, che "come si rileva dalla motivazione del lodo impugnato (...), gli arbitri hanno correttamente rilevato che la revoca dell'ammissione al contributo è stata determinata dalla mancata presentazione di un efficace piano di riconversione industriale e dal venir meno degli effetti della transazione, che faceva salva la facoltà dell'Amministrazione di procedere alla revoca del contributo (già avviata e poi sospesa in considerazione dell'ipotesi transattiva) in caso di mancata approvazione del piano di riconversione".
Quanto al secondo motivo d'impugnazione, la Corte ha poi:
a) escluso la violazione degli artt. 1362 e ss. c.c. confermando, mediante il diretto esame del contenuto del contratto, l'interpretazione data dagli arbitri all'atto di transazione e rilevando, comunque, l'inammissibilità della corrispondente censura, come formulata dall'impugnante, perché carente di specifica indicazione delle norme o principi di ermeneutica contrattuale violati e consistente, invece, nella pura e semplice critica dell'interpretazione fornita dagli arbitri, ossia nella richiesta di un nuovo accertamento di fatto non consentito in sede di impugnazione del lodo arbitrale;
b) escluso, altresì, la configurabilità della violazione degli artt. 1218 e 1456 c.c. perché, come indicato nella motivazione del lodo, la risoluzione della transazione non era stata causata dall'inadempimento della società, bensì "dalla accertata impossibilità sopravvenuta ovvero dal mancato verificarsi della condizione presupposta dall'atto transattivo (l'approvazione del piano di riconversione, a sua volta condizionata dalla vendita dei macchinar)".
La Corte ha infine dichiarato di non dover conseguentemente esaminare le domande formulate dalla curatela per il caso che, accolta l'impugnazione principale, fosse stata ritenuta l'inscindibilità dei capi del lodo e quindi la totale nullità di quest'ultimo. Il curatore fallimentare ha proposto ricorso per cassazione con undici motivi di censura. Il Ministero ha resistito con controricorso contenente anche ricorso incidentale per un solo motivo. MOTIVI DELLA DECISIONE
1. - I primi quattro motivi del ricorso principale riguardano il rigetto del primo motivo d'impugnazione del lodo.
1.1. - Con il primo motivo di ricorso si denuncia la nullità della sentenza per avere i giudici "eluso l'onere decisorio" sul primo motivo d'impugnazione del lodo, essendosi limitati a riprodurre le considerazioni degli arbitri sulla ritenuta legittimità del D.M. di revoca della transazione e del contributo, senza effettuare alcuna autonoma valutazione critica del lodo stesso in relazione al motivo di impugnazione, cioè alla "sussistenza o meno della indicazione da parte del Ministero delle ragioni di interesse pubblico che giustificassero la revoca della transazione e dei contributi". 1.2. - Con il secondo motivo, denunciando violazione della L. n. 219 del 1981, art. 32, D.Lgs. n. 76 del 1990, art. 39 e L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 11 si osserva che l'esercizio del potere di revoca del provvedimento amministrativo è legittimo solo allorché sussista un interesse pubblico all'eliminazione dell'atto da revocare e che tale interesse, però, non viene indicato nella motivazione del D.M. 21 dicembre 2000. Si lamenta, quindi, che la Corte d'appello non abbia accertato se il collegio arbitrale avesse verificato che la revoca della transazione fosse giustificata da un apprezzabile interesse pubblico attraverso la dovuta comparazione tra l'interesse alla revoca della transazione e quello al mantenimento della medesima. 1.3. - Detti motivi, connessi - e perciò da esaminare congiuntamente - in quanto entrambi relativi alla denuncia dell'illegittimità del D.M. 21 dicembre 2000 per omessa valutazione dell'interesse pubblico nell'esercizio del potere di revoca, sono inammissibili. È senz' altro vero che la Corte d'appello non ha in effetti provveduto nel merito di tale denuncia. È anche vero, però, che la Corte non era tenuta a darsi carico della stessa, poiché poneva una questione inammissibile in quanto non sollevata davanti agli arbitri (che l'illegittimità del D.M. fosse stata dedotta, davanti agli arbitri, anche sotto il profilo della mancata valutazione dell'interesse pubblico sottostante al provvedimento di ritiro non è affermato nella sentenza impugnata e neanche nel ricorso per cassazione, in cui, pure, sono riportati testualmente i quesiti rivolti al collegio arbitrale) e non deducibile per la prima volta in sede d'impugnazione del lodo (sul divieto di proporre con l'impugnazione del lodo domande non proposte nel procedimento arbitrale cfr., da ult., Cass. 20880/2010, 17630/2007). L'inammissibilità non dichiarata dal giudice a quo, che tuttavia non ha neppure deciso nel merito la questione di cui trattasi, va rilevata d'ufficio in questa sede.
1.4. - Con il terzo motivo, denunciando insufficienza della motivazione concernente l'interpretazione della transazione, si censura l'affermazione secondo cui quest'ultima era stata correttamente revocata a causa della mancata presentazione di un efficace piano di riconversione industriale. Si adduce l'apoditticità e illogicità di tale affermazione e ampiamente si argomenta sulla diversa interpretazione da dare, invece, del contenuto del contratto.
1.5. - Con il quarto motivo la medesima affermazione viene censurata per violazione dei criteri di interpretazione dei contratti di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c., osservando che nessun articolo della transazione prevedeva che la società presentasse il progetto di riconversione prima della vendita dei macchinari ovvero entro una certa data dalla stipula della transazione stessa.
1.6. - Questi due motivi - da esaminare anch'essi congiuntamente avendo entrambi ad oggetto l'interpretazione della transazione da parte della Corte d'appello - sono inammissibili perché si basano sul fraintendimento del senso dell'affermazione che censurano. La Corte d'appello, infatti, non ha inteso, nel respingere il primo motivo d'impugnazione, entrare nel merito dell'interpretazione della transazione: ciò essa ha fatto solo successivamente, nel respingere il secondo motivo d'impugnazione rubricato, appunto, come denuncia di violazione delle regole di ermeneutica contrattuale, mentre a proposito del primo motivo ha disatteso la censura di "omessa verifica del corretto esercizio del potere di revoca da parte dell'Amministrazione" limitandosi a prendere atto "della motivazione del lodo impugnato", che quella verifica a suo giudizio aveva compiuto. La critica dell'interpretazione della transazione, dunque, è incongrua se riferita al rigetto del primo motivo d'impugnazione (quella articolata con riferimento al secondo motivo d'impugnazione è invece più congrua, ma non per questo meno inammissibile, come subito si vedrà).
2. - I restanti motivi di ricorso, ad eccezione dell'ultimo, sono riferiti al rigetto del secondo motivo d'impugnazione, sia quanto al profilo (a) della violazione degli artt. 1362 e ss. c.c. a proposito dell'interpretazione della transazione, sia quanto al profilo (b) della violazione degli artt. 1218 e 1456 c.c.. Il quinto motivo, il sesto e il decimo attengono al profilo (a); il settimo, l'ottavo e il nono al profilo (b).
2.1. - Con riferimento al profilo (a), è pregiudiziale l'esame del decimo motivo. Va infatti ricordato che, con riferimento alla denunciata violazione degli artt. 1362 e ss. c.c., la Corte d'appello ha sia confermato l'interpretazione della transazione fornita dagli arbitri, entrando essa stessa nel merito di quell'interpretazione, sia, comunque, statuito l'inammissibilità delle censure articolate in proposito dall'impugnante principale, perché prive della effettiva indicazione di norme o principi di ermeneutica violati e consistenti, in sostanza, nella richiesta di un nuovo accertamento di fatto, non consentito al giudice dell'impugnazione del lodo arbitrale.
In altri termini, la Corte d'appello ha sia respinto nel merito le censure dell'impugnante, sia dichiarato l'inammissibilità delle stesse. Il decimo motivo di ricorso reca appunto la censura della statuizione di inammissibilità, che per il suo carattere pregiudiziale precede le altre (aventi ad oggetto il merito) nell'ordine logico.
La statuizione di inammissibilità, oggetto del decimo motivo, viene censurata per insufficienza della motivazione. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello abbia affermato, con formule generiche e stereotipe, che egli si era limitato a richiedere un nuovo accertamento di fatto quando invece, benché nella rubrica del secondo motivo d'impugnazione si facesse riferimento alla violazione degli artt. 1362 e ss. c.c., nella sostanza "era stata dedotta chiaramente l'errata individuazione della comune intenzione delle parti da parte degli arbitri", ricavabile dall'esame dell'atto di transazione.
2.2. - Il motivo è manifestamente infondato.
Lo stesso ricorrente, invero, finisce con l'ammettere di aver dedotto in sede d'impugnazione del lodo null'altro che un punto di fatto, qual è indubbiamente l'individuazione della comune intenzione delle parti di un contratto. Il giudizio di impugnazione del lodo, invece, come già rilevato nella sentenza impugnata, è limitato alla pura legittimità, il giudice non ha alcun potere di diretto accertamento dei fatti di causa, che deve assumere nei termini definiti dal lodo. Ciò conferma la correttezza della statuizione di inammissibilità assunta dalla Corte d'appello.
2.3. - Le questioni sollevate con il quinto e sesto motivo di ricorso, attinenti al merito delle questioni ermeneutiche dichiarate anche inammissibili dalla Corte d'appello, sono a loro volta inammissibili.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, qualora il giudice, oltre a statuire l'inammissibilità della domanda o del gravame, con ciò spogliandosi della potestas iudicandi sul merito della controversia, abbia statuito anche il rigetto nel merito, la parte soccombente non ha l'onere ne' l'interesse ad impugnare la pleonastica statuizione di rigetto, la cui eventuale impugnazione è dunque inammissibile (Cass. Sez. Un. 3840/2007). Tale principio, affermato con riferimento a fattispecie di inammissibilità riguardante l'intera domanda o gravame, va logicamente esteso ai casi - come il nostro - in cui l'inammissibilità riguardi soltanto un capo di domanda o motivo di gravame.
2.4. - Con il settimo motivo, denunciando insufficienza della motivazione, si lamenta che la Corte d'appello non abbia illustrato le ragioni per le quali sussistevano gli elementi per l'applicazione degli istituti della presupposizione e della risoluzione per impossibilità sopravvenuta e si contesta che tali elementi in realtà sussistessero, argomentando sulle nozioni giuridiche di presupposizione e impossibilità assoluta della prestazione. 2.5. - Con l'ottavo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1256 e 1463 c.c., si censura l'affermazione, attribuita alla Corte d'appello, secondo cui la transazione si era risolta per l'impossibilità sopravvenuta di procedere alla vendita dei macchinari al Sud Africa, per difetto del requisito dell'essenzialità di quella vendita nell'economia del contratto. 2.6. - Con il nono motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1256, 1375 e 1463 c.c., viene censurata l'affermazione, attribuita alla Corte d'appello, secondo cui la transazione si era risolta "per presupposizione" della vendita dei macchinari al Sud Africa, osservando che può parlarsi di presupposizione solo in riferimento a circostanze indipendenti dalla volontà e attività delle parti e non costituenti oggetto di una loro specifica obbligazione, ciò che non può dirsi, invece, per la vendita dei macchinari al Sud Africa da parte della Marcotex. 2.7. - I tre motivi di censura predetti hanno per oggetto il seguente passo della sentenza impugnata (già richiamato sopra in narrativa e qui trascritto per comodità) : "La risoluzione della transazione, come sinteticamente ma chiaramente indicato nella motivazione del lodo (...), è derivata non dall'inadempimento della Marcotex, ma piuttosto dalla accertata impossibilità sopravvenuta ovvero dal mancato verificarsi della condizione presupposta dall'atto transattivo (l'approvazione del piano di riconversione, a sua volta condizionata dalla vendita dei macchinari (prevista in favore del Sud Africa: n.d.r.)", il che esclude in radice la con-figurabilità delle violazioni prospettate dal fallimento con riferimento alle disposizioni di cui agli artt. 1218 e 1456 c.c.".
Come si vede, la Corte d'appello non ha effettuato una propria valutazione in ordine alla causa per cui la transazione era stata risolta, ma si è limitata a prendere atto della valutazione in proposito effettuata dagli arbitri. E tanto ha fatto peraltro correttamente, perché al giudice dell'impugnazione del lodo non è consentito rivalutare il merito della decisione degli arbitri, ma unicamente verificare, su specifica denuncia dell'impugnante, se il lodo sia affetto dai vizi di legittimità tipizzati dall'art. 829 c.p.c..
Le censure mosse con il ricorso sono dunque inammissibili perché indirizzate nei confronti di valutazioni in realtà non contenute nella sentenza. Esse avrebbero dovuto essere rivolte, semmai, nei confronti del lodo, in sede d'impugnazione dello stesso (purché integrassero, ovviamente, la denuncia di mera violazione di regole di diritto ai sensi dell'art. 829 c.p.c., comma 2), e nel giudizio di cassazione si sarebbero poi potuti dedurre gli eventuali vizi di legittimità della decisione assunta su quelle censure dal giudice dell'impugnazione.
3. - Con l'undicesimo motivo del ricorso principale, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 830 c.p.c. (nel testo, qui applicabile ratione temporis, anteriore alla novella di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), si censura la dichiarazione di non doversi esaminare - atteso il rigetto dei motivi d'impugnazione - le domande formulate dalla curatela per il caso di accoglimento dell'impugnazione stessa e di ritenuta inscindibilità dei capi del lodo con conseguente nullità totale dello stesso. La censura è basata sull'assunto dell'illegittimità del rigetto dell'impugnazione.
3.1. - Il motivo, avendo il fondamento appena detto, è inammissibile, anzi non costituisce neppure un autonomo motivo di ricorso, bensì la deduzione di una mera conseguenza dell'invocato accoglimento dei precedenti motivi.
4. - Con l'unico motivo del ricorso incidentale si censura, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 14 preleggi e art. 343 c.p.c., la statuizione di inammissibilità dell'impugnazione incidentale, per tardività, in applicazione degli artt. 343 e 166 c.p.c.. Il ricorrente sostiene che l'applicazione analogica al giudizio d'impugnazione del lodo di norme dettate per il giudizio di appello non si concilia con la diversità di natura e struttura dei due rimedi (mezzi d'impugnazione a critica limitata, il primo, e a critica illimitata, il secondo), ne' con il carattere eccezionale di una previsione di decadenza.
4.1. - Il motivo è infondato.
Più volte questa Corte ha avuto occasione di affermare che il principio per cui la proposizione dell'impugnazione principale determina, nei riguardi di tutti coloro cui il relativo atto venga notificato, l'onere, a pena di decadenza, di esercitare il proprio diritto d'impugnazione nei modi e nei termini previsti per l'impugnazione incidentale, in applicazione della regola fondamentale della concentrazione delle impugnazioni contro la stessa sentenza, è applicabile anche nel giudizio d'impugnazione per nullità del lodo arbitrale, dato che detta impugnazione, se pure non costituisce un comune appello avverso la pronunzia degli arbitri, in quanto è limitata all'accertamento dei vizi previsti dall'art. 829 c.p.c. dedotti col mezzo di gravame, introduce comunque dinanzi al giudice ordinario un procedimento giurisdizionale nel quale valgono, in mancanza di diversa disciplina, le norme processuali ordinarie (v. Cass. 7214/1990, 9382/1993, 6291/2000, 10663/2006). Va solo puntualizzato, per rispondere all'obiezione del ricorrente incidentale, che non si tratta di applicazione analogica, bensì di applicazione diretta delle norme del procedimento davanti alla corte d'appello, in base al principio, ricavabile dagli artt. 400 e 406 c.p.c., per cui davanti al giudice adito con un mezzo d'impugnazione si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti a lui, in quanto non derogate dalla specifica disciplina del mezzo di cui si tratta (per tale principio v. anche Cass. 1731/2001, 6517/2003, 18917/2004, 18918/2004).
5. - Entrambi i ricorsi vanno, in conclusione respinti, con compensazione delle spese processuali attesa la reciproca soccombenza delle parti.
P.Q.M.
La Corte, decidendo sui ricorsi riuniti, li rigetta entrambi e dichiara compensate fra le parti le spese processuali. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 13 gennaio 2012. Depositato in Cancelleria il 1 marzo 2012
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