Locazione commerciale – Sfratto per morosità - Clausola automatica di aggiornamento del canone – Contestazione di nullità del patto da parte del conduttore - Corte di Cassazione, sez. III, ordinanza n. 22863 del 20 ottobre 2020.
Accoglimento della domanda con sentenza riformata in appello – Pronuncia “ultra petita” – Inammissibilità del ricorso per cassazione - Corte di Cassazione, sez. III, ordinanza n. 22863 del 20 ottobre 2020, a cura di Riccardo Redivo, già presidente di sezione della Corte d’Appello di Roma.
Locazione commerciale
Sfratto per morosità
Fatto. Una locatrice di un immobile adibito ad uso commerciale intimava al conduttore sfratto per morosità. Questi si opponeva, contestando sia il preteso importo del canone richiesto, sia la clausola di aggiornamento ISTAT, pattuita in violazione dell’art. 32 della legge n. 392/1978 (poiché riferita ad un indice del 100, invece che del 75%.
Il Tribunale, ritenuto che il contratto aveva previsto una minor entità del canone per il primo esennio, compensandosi così una ricezione anticipata dell’indennità d’avviamento, dichiarava la risoluzione del contratto, per inadempimento dell’intimato, condannandolo al pagamento delle somme richieste, oltre che al rilascio dell’immobile locato.
La Corte d’appello, poi, riformava la sentenza, ritenendo che il primo giudice avesse omesso di pronunciarsi sul preteso inadempimento relativo ad un ultimo trimestre (senza che vi fosse stato appello incidentale sul punto), derivandone così una pronuncia “ultra petita” al riguardo. Veniva, quindi, accolto l’appello, con rigetto delle domande della locatrice e conseguente esclusione dell’inadempimento protestato con l’intimazione di sfratto.
Avverso detta decisione la locatrice ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di due motivi: si è evidenziato, da un lato, che la Corte d’appello aveva omesso di pronunciarsi sulla domanda di scioglimento negoziale per clausola risolutiva espressa inerente al tempo di versamento dei canoni, reiteratamente violata dal conduttore e, dall’altro, che lo stesso giudicante era anche incorso in un vizio di motivazione e ad un omesso esame di un fatto decisivo e discusso (errando nella valutazione dei documenti prodotti e nella conseguente ricostruzione dell’importo corretto del canone locatizio).
Decisione. La Suprema Corte ha ritenuto inammissibili entrambi i motivi dedotti dalla attrice locatrice. Sul primo motivo, premesso che il ricorrente ha affermato l’omessa pronuncia del giudice “a quo” in ordine alla clausola risolutiva espressa, il giudicante ha affermato che lo stesso “ non ha riprodotto compiutamente la predetta clausola, violando così il disposto di cui all’art. 366 n. 6 c.p.c., impedendo in conseguenza di vagliare adeguatamente anche la potenziale decisività della censura sollevata, nel senso che devono dichiararsi inammissibili le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito ove il ricorrente si limiti a richiamarli senza riprodurli idoneamente nel ricorso, ovvero, se riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione, al fine di renderne possibile il riesame, ovvero, senza ancora precisarne (nel ricorso), la collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità” (in tal senso cfr. da ultimo Cass. sez. un. 23834/2019 e Cass. n. 22880/2017).
Parimenti è inammissibile il secondo motivo d’impugnazione, poiché “si traduce nella richiesta di riesame nel merito (nella specie della volontà pattizia), prospettando incongruamente errori di calcolo e non errori ermeneutici negli stretti e non esaminati limiti in cui questi sono deducibili avanti alla Corte di legittimità”