Impugnazioni Ricorso per Cassazione Procedimento - Discussione - Scritti difensivi consegnati dalle parti al cancelliere prima dell'udienza
3 Novembre 2012 Nel giudizio di cassazione, non sono ammissibili scritti difensivi consegnati dalle parti al cancelliere nel giorno fissato per l'udienza e prima dell'inizio della stessa, denominati "note di udienza", non potendo essere né equiparati a memorie di parte ex art. 378 cod. proc. civ., perché depositati oltre il termine previsto da quest'ultima norma, né assimilati alle osservazioni sulle conclusioni del P.G., di cui all'ultimo comma dell'art. 379 cod. proc. civ., in quanto consegnati prima della chiamata della causa e, quindi, precedenti all'esposizione delle conclusioni del p.g..Corte di Cassazione, Sez. 5, Ordinanza n. 27964 del 21/12/2011
Corte di Cassazione, Sez. 5, Ordinanza n. 27964 del 21/12/2011
FATTO E DIRITTO
1. L'Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione nei confronti di Paolo e Fabio Co,, (che hanno resistito con controricorso) e avverso la sentenza con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di liquidazione di Invim e imposta di successione, la C.T.R. Lombardia, in riforma della sentenza di primo grado, disponeva il ricalcolo della base imponibile computando al 50% i titoli obbligazionari e le azioni presenti nel dossier intestato al de cuius, essendo i suddetti beni da ritenersi in comunione legale tra il medesimo de cuius e il coniuge superstite. 2. Deve innanzitutto rilevarsi che la difesa dei contribuenti prima della adunanza camerale relativa alla presente causa ha consegnato al cancelliere uno scritto denominato "note di udienza".
Tale scritto non può essere acquisito agli atti perché depositato il giorno dell'udienza (e pertanto oltre il termine previsto per il deposito delle memorie di parte dall'art. 378 c.p.c.) e perché neppure assimilabile alle osservazioni sulle conclusioni del PG previste dall'art. 379 c.p.c., u.c. in quanto consegnato prima della chiamata della causa, quindi prima della esposizione delle conclusioni del PG. Deve inoltre preliminarmente rilevarsi l'ammissibilità del ricorso, posto che, secondo la univoca giurisprudenza di questo giudice di legittimità, allorché l'Agenzia delle Entrate si avvalga, nel giudizio di cassazione, del ministero dell'Avvocatura dello Stato, non è tenuta a conferire a quest'ultima una procura alle liti, essendo applicabile a tale ipotesi la disposizione del R.D. n. 1611 del 1933, art. 1, comma 2, secondo il quale gli avvocati dello Stato esercitano le loro funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni e non hanno bisogno di mandato (v. tra le altre cass. n. 11227 del 2007).
Il primo motivo - col quale, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 177 c.c., la ricorrente si duole che i giudici d'appello abbiano ritenuto rientranti nella comunione legale (non solo le azioni ma anche) i titoli obbligazionari acquistati da uno solo dei coniugi - è manifestamente infondato alla luce della giurisprudenza di questo giudice di legittimità, secondo la quale costituiscono oggetto della comunione legale i titoli obbligazionari acquistati da un coniuge con i proventi della propria attività personale (v. cass. n. 21098 del 2007 e, più recentemente, cass. n, 4393 del 2011, che si riferisce alla comunione legale su titoli, espressamente annoverando tra essi, senza distinzione alcuna, azioni, obbligazioni, titoli di stato, quote di fondi di investimento). Il secondo motivo (col quale, deducendo violazione degli artt. 2697 e 159 c.c., la ricorrente si duole che i giudici d'appello abbiano escluso che gravasse sui contribuenti l'onere di provare che i beni che si intendeva sottrarre all'imponibile nella misura del 50% facessero parte della comunione legale), è ammissibile e manifestamente fondato, nei termini di cui in prosieguo. Ai fini della valutazione di ammissibilità del suddetto motivo occorre prima procedere alla interpretazione della sentenza impugnata, che, sul punto, si presenta estremamente stringata ed in parte non univoca. In proposito, i giudici d'appello hanno affermato:
che era stato provato con la produzione del certificato di matrimonio che sussisteva comunione legale fra il de cuius ed il coniuge superstite; che il lungo tempo trascorso dalla data del matrimonio rendeva certo per le obbligazioni e probabile per le azioni l'acquisto in regime di comunione; che, peraltro, la prova di tale circostanza non onerava gli eredi.
A parere del collegio dalla lettura contestuale delle proposizioni che precedono deve ritenersi che i suddetti giudici abbiano affermato la sussistenza di prova documentale in ordine alla esistenza di un matrimonio in regime di comunione dei beni e la sussistenza di prova presuntiva limitatamente alla circostanza dell'intervento dell'acquisto delle obbligazioni e delle azioni successivamente al matrimonio (e nel periodo in cui al suddetto matrimonio doveva ritenersi applicabile il regime di comunione legale), posto che, nonostante sia stata utilizzata a proposito degli acquisti l'espressione "in regime di comunione", l'estrema stringatezza della motivazione sul punto ed il mero riferimento al lungo tempo trascorso dalla data del matrimonio fanno ritenere che la presunzione sia riferita esclusivamente alla collocazione temporale dell'acquisto. Ne consegue che, per quanto concerne non la sola collocazione temporale dell'acquisto (nel periodo in cui il matrimonio era in vigore ed i coniugi erano in regime di comunione) bensì l'effettivo assoggettamento degli acquisti de quibus al regime di comunione legale, deve ritenersi che la decisione impugnata sia sostenuta da una unica ratio decidendi, consistente nel fatto che l'onere della prova in ordine a detta circostanza non gravava sugli eredi.
Tale ratio decidendi è erronea, posto che, in applicazione delle regole generali in materia di distribuzione dell'onere della prova, spetta a chi pretende di sottrarre alla successione una parte dei beni intestati al de cuius sostenendo che essi fanno parte della comunione legale provare la sussistenza di tutti i relativi presupposti (ossia non solo che il defunto era sposato in regime di comunione legale e che i beni erano stati acquistati in costanza di matrimonio ma anche che non risultava alcuna delle ipotesi di esclusione di cui all'art. 179 c.c.), sempre che tali presupposti necessitino di prova.
Il terzo e il quinto motivo (coi quali si deduce vizio di motivazione) sono inammissibili per mancanza della indicazione prevista dalla seconda parte dell'art. 366 bis c.p.c., a norma del quale il motivo di censura ex art. 360 n. 5 c.p.c. deve contenere una indicazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare nella esposizione chiara e sintetica del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, essendo peraltro da evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, l'onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è viziata deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un "quid pluris" rispetto all'illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l'ammissibilità del ricorso (v. cass. n. 8897 del 2008).
È poi appena il caso di sottolineare che l'indicazione de qua deve sempre avere ad oggetto (non più un "punto" o una questione ma) un fatto preciso, inteso sia in senso naturalistico che normativo, ossia un fatto "principale" o eventualmente anche "secondario", purché controverso e decisivo, e che nella specie manca non solo una indicazione costituente un quid pluris rispetto alla illustrazione del motivo, ma manca altresì l'individuazione di un fatto preciso rispetto al quale la motivazione risulti omessa nonché l'evidenziazione della carattere decisivo e della natura controversa del medesimo.
Il quarto motivo (col quale, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., la ricorrente chiede a questo giudice di affermare che la mera probabilità di un fatto non integra prova - ex artt. 2727 e 2729 c.c. di quel fatto) è inammissibile per inadeguatezza del relativo quesito di diritto, che, nei termini sopra riportati, risulta formulato in maniera astratta e generica e risulta perciò inidoneo ad assolvere la funzione che gli è propria, ossia quella di far comprendere alla Corte, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, quale sia l'errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (v. tra molte altre cass. n. 7197 del 2009 e n. 8463 del 2009, nonché SU n. 7257 del 2007 e SU n. 7433 del 2009). Il primo motivo di ricorso deve essere pertanto rigettato, il secondo motivo deve essere accolto e gli altri devono essere dichiarati inammissibili. La sentenza impugnata deve dunque essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio ad altro giudice che provvederà a decidere la controversia facendo applicazione del seguente principio di diritto: "in applicazione delle regole generali in materia di distribuzione dell'onere della prova, spetta a chi pretende di sottrarre alla successione una parte dei beni intestati al de cuius sostenendo che essi fanno parte della comunione legale provare la sussistenza di tutti i relativi presupposti (ossia non solo che il defunto era sposato in regime di comunione legale e che i beni erano stati acquistati in costanza di matrimonio ma anche che non risultava alcuna delle ipotesi di esclusione di cui all'art. 179 c.c.), sempre che, nella fattispecie concreta, tali presupposti necessitino di prova. Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo e dichiarati inammissibili gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese a diversa sezione della C.T.R. Lombardia.
Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2011.
Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2011