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Illegittimi gli interessi di mora sugli interessi dei mutui - divieto di anatocismo - gli interessi scaduti non possono produrre ulteriori interessi Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, sentenza n.2593 del 19 marzo 2003

Illegittimi gl iinteressi di mora sugli interessi dei mutui - divieto di anatocismo - gli interessi scaduti non possono produrre ulteriori interessi Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, sentenza n.2593 del 19 marzo 2003

Illegittimi gli interessi di mora sugli interessi dei mutui - divieto di anatocismo - gli interessi scaduti non possono produrre ulteriori interessi (Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, sentenza n.2593 del 19 marzo 2003)

MOTIVI DELLA DECISIONE

Come più sopra ricordato il ricorrente deduce che il giudice d’appello non avrebbe potuto cumulare gli interessi di mora con gli interessi dovuti sulle somme concesse in mutuo, in forza della clausola contrattuale che li prevedeva, poiché gli interessi possono produrre interessi soltanto dalla domanda giudiziale o in base a convenzione posteriore alla loro scadenza.

La censura è fondata.

Occorre, in primo luogo, rilevare che in ipotesi di mutuo per il quale sia previsto un piano di restituzione differito nel tempo, mediante il pagamento di rate costanti comprensive di parte del capitale e degli interessi, questi ultimi conservano la loro natura e non si trasformano invece in capitale da restituire al mutuante, cosicchè la convenzione, contestuale ala stipulazione del mutuo, la quale stabilisca che sulle scadute decorrono gli interessi sull’intera somma integra un fenomeno anatocistico, vietato dall’art. 1283 c.c. [1].

Il principio è stato affermato da questa Corte a partire dalla sentenza n. 3479 del 1971, la quale osservò che il semplice fatto che nella rete di mutuo vengono compresi sia una quota del capitale da estinguere sia gli interessi a salare non operi un conglobamento ne vale tanto meno a mutare la natura giuridica di questi ultimi, che conservano la loro autonomia anche dal punto di vista contabile.

Lo stesso principio è stato affermato da Cass. 6 maggio 1977, n. 1724.

L’orientamento è da seguire.

A carico del mutuatario di somme di danaro sono poste a due distinte obbligazioni.

La prima è quella di corrispondere gli interessi al mutuante, salvo diversa pattuizione (art. 1815 c.c.).

Sono due obbligazioni distinte ontologicamente e rispondenti a finalità diverse.

Nei mutui c.d. ad ammortamento, la formazione delle varie rate, nella misura composita predeterminate di capitale ed interessi, attiene ad una modalità dell’adempimento delle due obbligazioni; nella rata concorrono, infatti, la graduale restituzione della somma ricevuta in prestito e la corresponsione degli interessi;

trattandosi di una pattuizione che ha il solo scopo di scaglionare nel tempo le due distinte obbligazioni del mutuatario, essa non è idonea a maturare la natura ne ad eliminare l’autonomia.

Ciò premesso deve ora verificarsi se in materia di mutuo bancario esista un uso contrario che legittimi la decorrenza degli interessi moratori sugli interessi corrispettivi sin dal momento della loro scadenza; il che si risolve nell’accertare la legittimità della clausola, contestuale alla stipulazione del mutuo, la quale stabilisca che sulle rate scadute decorrono gli interessi sull’intera somma, a prescindere quindi dalle condizioni previste dall’art. 1283 c.c.

Una ricognizione della giurisprudenza sul punto appare necessaria.

Anche in questo caso è opportuno prendere le mosse dalla sentenza n. 3479 del 1971, sopra citata

La fattispecie esaminata riguardava un mutuo di £ .100.000.000, concesso da un istituto bancario a dei privati al tasso dell’8 % da estinguersi in trenta rate semestrali più £ 5.783.010, ciascuna comprensiva del capitale e degli interessi a scalare; nel contratto era stato previsto che su tutte le somme dovute e non pagate nei termini contrattuali sarebbero decorsi a carico del mutuatario gli interessi di mora nella misura del 9%.

La Corte d’appello aveva ritenuta legittima la richiesta della banca mutuante di ottenere il pagamento degli interessi di mora sulle rate scadute e non pagate, così come convenzionalmente pattuito, rilevando che la fattispecie non integrava un’ipotesi di anatocismo, in quanto nei contratti di mutuo, nei quali sia pattuita l’estinzione del debito per capitale ed interessi mediante un piano di ammortamento, gli interessi rimangono fin dall’inizio capitalizzati.

Come si è più sopra ricordato, Cass. n. 3479 del 1971 ha escluso che gli interessi perdessero la loro natura per effetto della inclusione nei reati di ammortamento ed ha statuito che salvo eccezioni previste dalla legge nell’esistenza di usi contrari, che deve essere provata dalla parte interessata, anche nel caso di mutui ad ammortamento gli interessi di mora sulle rate di mutuo scadute e non pagate sono dovute soltanto a decorrere dalla domanda giudiziale o per effetto di convenzioni posteriori alla loro scadenza e sempre che siano decorsi almeno sei mesi.

Analogo principio venne successivamente affermato da Cass. n. 1724 del 1977, più sopra ricordata.

Abbastanza significativo appare il fatto che le suddette sentenze non si pongano esplicitamente il problema dell’esistenza di usi contrari che consentano di derogare al divieto di cui all’art. 1283 c.c., considerato dalla seconda sentenza norma imperativa, che presidia l’interesse pubblico ad impedire una forma subdola, ma non solo socialmente meno dannosa delle altre, di usura con la conseguenza che i patti conclusi in sua trasgressione sono nulli ai sensi dell’art. 1418 c.c.

Tuttavia dalla prima delle due udienze, laddove è affermato che gli usi, con riferimento alla fattispecie esaminata, andavano provati, può indursi che nel caso esaminato tale prova non era stata data ne (è da presumersi) offerta o dedotta.

Alle citate sentenze segue la sentenza n. 6631 del 15 dicembre 1981 di questa Corte che, sempre con riferimento ad un contratto di mutuo intercorso tra un istituto di credito ed un privato affermò il principio così massimato: gli usi che consentono ,’anatocismo, richiamati dall’art. 1283 c.c., sono usi normativi, in quanto operano sullo stesso piano di tale norma (seconum legem) come espressa eccezione al principio ivi affermato, onde hanno l’identica natura delle regole dettate dal legislatore e il giudice può applicarli attingendone comunque la conoscenza (iura novit curia), con la conseguenza che anche in sede di legittimità è ammessa un’indagine diretta sugli usi in questione e, una volta accertatane l’esistenza, una decisione sulla base dei medesimi, indipendentemente dalle allegazioni delle parti e dalle considerazioni svolte in proposito dal giudice di merito.

In applicazione del suddetto principio, e ricordato che gli usi sono caratterizzati da un comportamento della generalità degli interessi che vi si adeguano con il convincimento di adempiere ad un precetto di diritto, la Corte ha ritenuto che può fondatamente affermarsi che nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, in tutte le operazioni di dare e avere, l’anatocismo trova generale applicazione in quanto sia la le banche sia i clienti chiedono e riconoscono (nel vario atteggiarsi dei singoli rapporti attivi e passivi che possono in concreto realizzarsi) come legittima la pretesa degli interessi da conteggiarsi alla scadenza non solo sull’originario importo della somma versata ma sugli interessi da questa prodotti e ciò anche a prescindere dai requisiti richiesti dall’art. 1283 c.c.

Fatta questa premessa la Corte ha ritenuto che non era necessario accertare un uso con specifico riferimento agli atti di mutuo, in quanto è idonea a legittimare l’anatocismo nei confronti di questi, una consuetudine che riguardi tutti i rapporti di credito, in un determinato campo, dato che la regola generale trova applicazione nei casi particolari ad essa riconducibile ed ha concluso affermando che sussiste, dunque, un uso che rende lecito l’anatocismo nelle relazioni tra banche e clienti e, pertanto, deve concludersi, in conformità alle decisioni del giudice del merito, per la validità della clausola, contenuta nel mutuo in discussione, che prevede gli interessi moratori dell’8,50 % sulle rate di ammortamento scadute e non pagate.

Occorre soffermare l’attenzione sulla suddetta sentenza perché essa costituisce il precedente (solo indirettamente, e peraltro senza dimostrazione alcuna, l’esistenza di un uso era stata ritenuta da Cass. 12 aprile 1980, n. 23335) sul quale si sono basate le successive decisioni di questa Corte (fino a Cass. 16 marzo 1999, n. 2374) per affermare l’esistenza generalizzata di usi bancari derogatori della norma di cui all’art. 1283 c.c.

Peraltro, la sola sentenza, successiva a Cass. 6631 del 1981, che si è occupata del problema dell’anatocismo nella materia del muto bancario è stata la n. 9227 del 1995, che si è limitata a richiamare il precedente senza nulla aggiungere (ci si riferisce naturalmente alle sole decisioni in materia di mutui ordinari atteso che nei mutui fondiari l’anatocismo è previsto dalla legge).

Della sentenza n. 6631 del 1981 è da condividere l’affermazione secondo cui gli usi richiamati dall’art. 1283 c.c. sono soltanto i c.d. usi normativi.

Questo punto non è discutibile ove si consideri che a detti usi è consentito derogare alla disciplina dettata dalla citata norma.

Nella fattispecie di cui all’art. 1283 c.c., per effetto del richiamo, l’uso acquista forza di legge, così come è venuto a formarsi in seno alla categoria di persone che vi ha dato vita, onde la norma che lo richiama regola attraverso esso la materia che ne costituisce l’oggetto.

Del resto, su tale punto la giurisprudenza di questa Corte è concorde e l’affermazione della natura normativa dell’uso richiamato dall’art. 1283 c.c. costituisce la premessa sia dell’indirizzo che fa capo alla sentenza n. 6631 del 1991 sia dell’indirizzo innovativo che ha avuto inizio con Cass. n. 2374 del 1999.

Una rimeditazione è necessaria, invece, in ordine agli altri principi che si trovano affermati nella citata sentenza.

Come si è più sopra ricordato, la sentenza n. 6631 del 1981, dopo aver premesso che può fondatamente affermarsi che nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, in tutte le operazioni di dare e avere, l’anatocismo trova generale applicazione in quanto sia le banche si i clienti chiedono e riconoscono (nel vario atteggiarsi dei singoli rapporti attivi e passivi che possono in concreto realizzarsi) come legittima la pretesa degli interessi da conteggiarsi alla scadenza non solo sull’originario importo della somma versata ma sugli interessi da questa prodotte ciò anche a prescindere dai requisiti richiesti dall’art. 1283 c.c., afferma che non è necessario… che si accerti un uso con specifico riferimento agli atti di mutuo, in quanto è idonea a legittimare l’anatocismo nei confronti di questi, una consuetudine che riguardi tutti i rapporti di credito, in un determinato campo, dato che la regola generale trova applicazione nei casi particolari ad essa riconducibili.

L’affermazione di una regola generale tratta dalla constatazione dell’esistenza di una pratica anatocistica comune a tutte le operazioni di dare avere nel campo bancario, non appare del tutto convincente quando poi si ammette che per almeno una di queste operazioni, e cioè quella di mutuo, tale pratica non è accertata; tanto che viene respinta la richiesta del ricorrente di accertamento di un uso con specifico riferimento agli atti di mutuo non con l’affermazione che un uso siffatto esista, ma con l’affermazione che in ordine a detto uso non sia necessario alcun accertamento stante l’esistenza della regola generale.

Peraltro è ancora da osservare che allorquando l’uso è richiamato dalla legge, nei termini i cui ciò è fatto dall’art. 1283 c.c., questa non recepisce il contenuto, che viene così ad essere incorporato nella noma scritta, di cui diventa parte integrante in tal caso il contenuto della norma, nella parte in cui fa riferimento all’uso, è costituito appunto dal contenuto di questa, che viene così sussunto dalla norma negli stessi termini oggettivi e soggettivi in cui si è formato attraverso l’uniforme e costante ripetizione di un determinato comportamento da parte di un certo gruppo di soggetti.

Ciò comporta che l’uso non può estendersi a soggetti diversi da quelli che lo hanno comunemente praticato (limite soggettivo) e non può riguardare atti diversi da quelli in relazione ai quali è stata posta in essere.

Così se un uso si è formato in relazione ad un determinato tipo di contratto bancario, non soltanto per ciò può essere estesa ad altri tipi di contratti pur se posti in essere da un istituto bancario.

Così come del resto un uso formatosi in relazione ad uno specifico contratto posto in essere tra determinate categorie di soggetti non può estenderei anche ad altri soggetti ancorchè pongano in essere lo stesso tipo di contratto.

Alla luce delle esposte considerazioni non appare sufficiente l’accertamento di un generico uso al quale ricondurre le varie fattispecie contrattuali, peraltro di natura, a volte, completamente diversa, ma è necessario verificare se, con specifico riferimento al contratto di mutuo stipulato tra un istituto di credito ed un privato, esista un uso che deroghi alla disciplina dell’art. 1283 c.c.

Prima di procedere a questa verifica occorre risolvere un problema pregiudiziale, che può essere così formulato: se gli usi contrari richiamati dall’art. 1283 c.c., sono solo quelli preesistenti all’entrata in vigore del codice civile ovvero se sia possibile la formazione di usi contrari successivi.

Sul punto la dottrina è divisa.

I sostenitori della prima tesi (necessità che gli usi richiamati dall’art. 1283 c.c. siano preesistenti alla norma) basano la loro opinione, fondamentalmente, sulla natura imperativa della norma, la quale non consente comportamenti contra legem e quindi la formazione di nuovi usi in deroga alla disposizione legislativa.

I sostenitori della seconda tesi (ammissibilità della formazione di usi contrari successivi all’entrata in vigore della norma), fondano la loro opinione: sulla considerazione che la gerarchia delle fonti non riguarda priorità temporali; slla constatazione che l’uso contrario in quanto richiamato dalla norma non è un uso contra legem ma un uso secundum legem, con la conseguenza che esso sarebbe idoneo ad integrare anche se formatosi successivamente; sull’osservazione che gli usi costituirebbero lex specialis, con la conseguenza di essere idonei a derogare, anche se di rango inferiore, alla legge generale.

La Corte ritiene che debba essere preferita la prima tesi. Sul punto della teoria generale può convenirsi che le argomentazioni addotte dai sostenitori della seconda tesi non siano di per e infondate.

Ciò che non può essere, invece, condivisa è l’applicazione che dei principi generali viene fatta alla fattispecie di cui all’art. 1283 c.c.

Uno scrutinio delle norme del codice civile, nelle quali è fatto rinvio agli usi contrari, consente di dare sostegno positivo alla tesi che si ritiene corretta.

Rinviano agli usi contrari, attribuendo ad essi funzione integrativa- derogatoria della disciplina prevista dalla legge, gli artt. 1283, 1457, 1510, 1528, 1665, 1739, 1756, 2148 del codice civile, sono complessivamente otto articoli.

In cinque di queste norme (artt. 1457, 1510, 1528, 1665, 1756) è usata la locuzione: in mancanza di patto o uso contrario ovvero salvo patto o uso contrario.

Nell’art. 1739 è usata la locuzione in Solo nell’art. c.c. è usata la locuzione: salvo che gli sia stato diversamente ordinato e salvi gli usi contrari; nell’art. 2148 è usata la locuzione: senza il consenso del concedente o salvo uso contrario.

Solo nell’art. 1283 c.c. è usata la locuzione: in mancanza di usi contrari senza alcun riferimento a pattuizioni contrarie ovvero a manifestazioni unilaterali di volontà quali consenso ovvero ordine diverso.

L’unica pattuizione ammessa dall’art. 1283 è quella che le parti possono porre in essere in data posteriore alla scadenza degli interessi e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi.

Questa constatazione porta ad una prima conclusione: in base all’art. 1283 c.c. l’anatocismo è ammesso nei limiti indicati positivamente nella stessa norma (interessi dovuti per almeno sei mesi, nonché domanda giudiziale ovvero convenzione posteriore alla loro scadenza); sono fatti salvi gli usi contrari; non sono ammessi patti anteriori alla scadenza degli interessi.

La salvezza degli usi contrari, contenuta nell’art. 1283 c.c., è dovuta alla constatazione da parte del legislatore del 1942 dell’esistenza nella pratica commerciale di radicati usi che consentivano l’anatocismo ed alla evidente intenzione di non incidere su di essi riconoscendone il valore normativo ancorchè fossero contrari alla disciplina positiva che si intendeva dettare. La mancata previsione della possibilità di porre in essere patti contrari (se non nei limiti della norma stessa indicati) trova, invece, la sua spiegazione nelle finalità che la norma di cui all’art. 1283 c.c. si prefigge.

Come è stato ricordato da Cass. n. 2374 del 1999: le finalità della norma sono state identificate, da una parte, nell’esigenza di prevenire il pericolo di fenomeni usurari, e, dall’altra, nell’intento di consentire al debitore di rendersi conto del rischio dei maggiori costi che comporta il protrarsi dell’inadempimento (onere della domanda giudiziale) e, comunque, di calcolare, al momento di sottoscrivere l’apposita convenzione, l’esatto ammontare del suo debito.

Richiedendo che l’apposita convenzione sia successiva alla scadenza degli interessi il legislatore mira anche ad evitare che l’accettazione della clausola anatocistica possa essere utilizzata come condizione che il debitore deve necessariamente accettare per poter accedere al credito.

Finalità, va anche detto, che lungi dall’apparire anacronistiche, per quanto riguarda gli intenti antiusurai, sono di grandissima attualità, perché la lotta all’usura ha trovato in tempi recenti nuove motivazioni e nuovi impulsi e ha portato all’approvazione della legge 7 marzo 1996,n. 108, che ha radicalmente innovato la disciplina preesistente, rendendo più agevole l’applicazione delle sanzioni penali e civili (con la modifica del secondo comma dell’art. 1815 c.c.), anche con l’introduzione di un meccanicismo semplificato di accertamento della natura usuraria degli interessi consistente nel mero superamento obiettivo di u tasso- soglia determinato dal Ministro del tesoro per ogni trimestre.

Ora, pur rimanendo nei limiti del tasso- soglia, le conseguenze economiche sono diverse a seconda che sulla somma capitale si applichino gli interessi semplici o quelli composti.

È stato, infatti, osservato che, una somma di denaro concessa a mutuo al tasso annuo del 5% si raddoppia in vent’anni, mentre con la capitalizzazione degli interessi la stessa somma si raddoppia in circa quattordici anni.

L’analisi della genesi e delle finalità dell’art. 1283 c.c. ed il raffronto tra il detto articolo e gli altri articoli del codice civile sopra richiamati danno ragione dell’affermazione che non consente l’affermazione di usi contrari entrata in vigore della norma.

La disciplina dell’anatocismo, dopo l’entrata in vigore del codice civile del 1942, è dettata dalle disposizioni positive contenute nell’art. 1283 e dagli usi contrari (presupporti già esistenti) dal detto articolo richiamati.

A differenza delle altre norme del codice civile sopra richiamate l’art. 1283 c.c. non prevede la possibilità di patti contrari. Per comprendere appieno l’importanza che tale differenza comporta occorre avere presente che gli usi contrari, richiamati nelle norme del codice civile, si applicano ai rapporti da esse contemplati ancorchè ad essi le parti non abbiano fatto riferimento ma solo per il fatto che esistono e sono accertati.

In relazione agli artt. 1457, 1510, 1528, 1665, 1739, 1756 e 2148 c.c. le eventuali pattuizioni contrarie alla norma o non rispondenti ad usi contrari esistenti, trovano riconoscimento di legittimità nella stessa norma che le consente.

Con riferimento a queste norme non si può escludere che la reiterazione di identiche pattuizioni, possa portare alla creazione di un uso contrario fino allora non esistente, in questo caso la legittimità dell’uso contrario non troverebbe la sua giustificazione nel fatto che la norma fa salvi gli usi contrari, ma nel fatto che le pattuizioni contrarie consentite dalla norma siano idonee, eventualmente, a far nascere un nuovo uso che sarebbe in tal caso applicabile anche se non più riprodotto in una pattuizione.

Al contrario, in relazione all’art. 1283 c.c., una pattuizione relativa all’anatocismo, posta in essere successivamente all’entrata in vigore del codice, che non fosse stata conforme alla disciplina positiva dettata dall’art. 1283 ovvero agli usi già esistenti (perché relativa ad un contratto diverso da quello relativo a soggetti diversi, sarebbe stata nulla perché contraria al divieto, sia pure limitato, contenuto della legge.

Detta pattuizione, ancorchè ripetuta nel tempo, non sarebbe stata idonea a generare un uso normativo; essa avrebbe potuto al più generare una prassi negoziale contra legem non idonea, in quanto tale, a modificare la disciplina positiva esistente.

È, infatti, vero che l’uso contrario, se richiamato dalle norme di legge, non è contra legem ma secundum legem, ma è anche vero che l’uso formatosi contro la legge esistente, in quanto frutto di patti posti in essere contro il divieto in essa contenuto, non può mai divenire secundum legem.

Ciò che si è fin qui detto in ordine alle pattuizioni vale anche in relazione ai comportamenti, ancorchè non tradotti in patti (precisazione questa doverosa, atteso che gli usi nascono anche per la reiterazione nel tempo di un determinato comportamento).

Invero se tali comportamenti (e si fa sempre esclusivo riferimento alla disciplina dell’art. 1283 c.c.) si fossero risolti nella spontanea reciproca accettazione di una disciplina relativa ad un determinato rapporto in nulla si sarebbero distinti dalle pattuizioni se no per il fatto che con il comportamento la volontà veniva solo tacitamente manifestata.

Se tali comportamenti avessero invece costituito frutto di imposizione unilaterale, determinata ad esempio da situazioni di monopolio o altre situazioni di predominio contrattuale, sarebbe mancato quel consenso minimo necessario per la nascita dell’uso; e ciò esime dall’affrontare il contestato (in dottrina) problema della necessità del requisito della opinio iuris ac necessitatis per l’esistenza dell’uso normativo.

Ne può essere contestata la natura imperativa della norma per il fatto che essa stessa ammette di essere derogata da usi contrari, una volta dimostrato che tale deroga è possibile solo ad opera di usi contrari preesistenti.

A questo punto occorre, allora, verificare se anteriormente al 1942 esistevano o meno usi che nel campo specifico del mutuo bancario ordinario consentissero l’anatocismo oltre i limiti previsti dall’art. 1283 c.c. e, particolarmente, una pattuizione analoga a quella intercorsa tra le parti del presente giudizio.

La risposta è negativa.

La dottrina che subito dopo l’entrata in vigore del codice civile del 1942 si è occupata del commento dell’art. 1283 c.c., ha indicato l’esistenza di usi contrari per il conto corrente e per altri contratti tipici bancari ma non per il mutuo.

Fino al 1976 nelle raccolte degli usi a cura delle camere di commercio l’applicazione degli interessi sugli interessi veniva ammessa con riferimento a specifiche operazioni bancarie; tra i contratti non viene mai menzionato il contratto di mutuo; si menzionano, infatti, solo i rapporti di conto corrente, i depositi a risparmio, i conti vincolati e non vincolati.

Del contratto di mutuo solo qualche raccolta si occupa ma solo per certificare che gli interessi relativi a frazione di anno si calcolano computando i giorni secondo l’anno civile e dividendo il numero così ottenuto per il divisore fisso dell’anno commerciale.

Solo la raccolta degli usi di Catania prevedeva che nel caso che il pagamento delle bimestralità, semestralità e annualità di ammortamento di un debito commerciale avvenga dopo uno o più periodi di tempo, gli interessi di mora che decorrono al tasso consentito sulle somme si capitalizzano a fine di ogni periodo di tempo e si producono quindi a loro volta nuovi interassi di mora (il che a ben vedere costituisce una diversa forma di anatocismo, questa volta non sugli interessi corrispettivi del mutuo ma sugli interessi di mora dovuti in relazione al ritardato pagamento delle rate di mutuo.

Soltanto a partire dal 1976 nella raccolta degli usi della provincia di Milano (e, a volte con qualche insignificante variazione, in numerose altre raccolte provinciali, ma non in tutte) viene certificata l’esistenza di un uso concernente gli interessi di mora su rate scadute di mutui e finanziamenti.

In particolare l’art. 12 della raccolta di Milano indica che nel caso di mancato pagamento entro il quinto giorno successivo alla scadenza, anche se festivo, di rate di rimborso di mutui e finanziamenti estinguibili secondo piani di ammortamento, le banche percepiscono gli interessi di mora sull’intero importo delle rate scadute e no pagate.

Analoga disposizione si trova poi al paragrafo 16 degli usi bancari accertati su base nazionale: nel caso di mancato pagamento, nei termini previsti, di quanto dovuto dal debitore per capitale, interessi ed accessori, le banche percepiscono, su tutte le somme rimaste insolute, gli interessi di mora a decorrere dal giorno di scadenza fino al giorno della valuta del pagamento effettuato. Il fatto che l’esistenza dell’uso sia stata certificata solo trentaquattro anni dopo l’entrata in vigore del codice dimostra con sufficiente certezza che almeno precedentemente al 1942 un uso siffatto non esisteva.

Inoltre, per le ragioni precedentemente esposte, la certificazione dell’uso non può attribuire allo stesso il valore di uso normativo, ma può al più costituire prova di una prassi, volontaria o imposta, contraria alla legge.

È appena il caso di aggiungere che sulla vicenda in esame non incide il D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 342; infatti, l’art. 25, comma terzo, del detto decreto legislativo, il quale aveva stabilito la validità ed efficacia delle clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera del CIC di cui al comma secondo del medesimo articolo, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza della Corte costituzionale n. 425 del 17 ottobre 2000.

Quanto sin qui detto porta, in accoglimento del primo profilo di censura di cui al quinto motivo del ricorso, alla cassazione della sentenza impugnata in relazione al punto in cui ha affermato che nel caso in esame, in relazione al calcolo degli interessi, non sono applicabili le limitazioni previste dall’art. 1283 c.c., per effetto di un uso bancario contrario.

L’accoglimento della censura comporta l’assorbimento del secondo profilo di censura dello stesso motivo e del settimo motivo.

Assorbito è pure il primo motivo del ricorso con il quale si denuncia: mancata applicazione del disposto dell’art. 1200 c.c. in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. e si deduce che la Corte d’appello ha omesso di pronunciare in ordine alla richiesta di cancellazione dell’ipoteca nonostante l’avvenuto pagamento delle somme a garanzia delle quali l’ipoteca era stata accesa.

La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione alla censura accolta e la causa rinviata ad altra sezione della Corte di appello di Palermo.

PQM

La Corte di Cassazione, sezione III civile, riunisce i ricorsi. Accoglie per quanto di ragione, il quinto motivo del ricorso principale, con assorbimento del primo e del settimo motivo. Rigetta gli altri motivi del ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale.

Cassa la sentenza impugnata, in relazione alla censura accolta, e rinvia, anche per le statuizioni in ordine alle spese del processo di cassazione, ad altra sezione della Corte d’appello di Palermo. Depositata in Cancelleria il 20 febbraio 2003.