Preliminare di vendita immobiliare
contratti in genere - interpretazione - interpretazione complessiva delle clausole - Preliminare di vendita immobiliare - Clausola comportante l'inefficacia del contratto in ipotesi di mancato condono del bene, indipendente dalla volontà delle parti, entro una determinata data - Qualificazione come condizione risolutiva e non come clausola risolutiva espressa - Fondamento. Cassazione Civile Sez. 2, Sentenza n. 22310 del 30/09/2013
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Cassazione Civile Sez. 2, Sentenza n. 22310 del 30/09/2013
La pattuizione, inserita in un preliminare di vendita immobiliare, che preveda la risoluzione "ipso iure" qualora il bene, che ne costituisce l'oggetto, non venga condonato sotto il profilo urbanistico entro una determinata data, per fatto non dipendente dalla volontà delle parti, , deve qualificarsi come condizione risolutiva propria, piuttosto che come clausola risolutiva espressa, determinando l'effetto risolutivo di quel contratto, evidentemente consistente nella sua sopravvenuta inefficacia, in conseguenza dell'avverarsi di un evento estraneo alla volontà dei contraenti (sebbene specificamente dedotto pattiziamente) nonché dello spirare del termine, pure ritenuto nel loro interesse comune, e non quale sanzione del suo inadempimento.
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Cassazione Civile Sez. 2, Sentenza n. 22310 del 30/09/2013
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con preliminare del 14 maggio 1988 la signora Co.... prometteva di vendere al signor Ca..... l'appartamento di sua proprietà ubicato in Roma, in Via Albornoz 37, frutto di un frazionamento da un'unica precedente unità immobiliare più grande e non ancora in regola con gli strumenti urbanistici. La parte promittente venditrice si impegnava, pertanto, (art. 3) ad effettuare il condono "a propria cura e a proprie spese allorquando ciò si renderà possibile e comunque, entro e non oltre il 31 dicembre 1990". Le parti prevedevano altresì, sempre con lo stesso art. 3, quanto segue: "si pattuisce espressamente che ove alla precisata epoca del 31 dicembre 1990, per fatto non dipendente dalla volontà delle parti, non sarà stato condonato l'immobile in oggetto per mancanza di legge di sanatoria edilizia il presente contratto si intenderà risolto ipso iure e la signora Co.... dovrà immediatamente restituire al signor Ca..... la somma di 10 milioni...".
2. Il signor Ca..... iniziava l'azione giudiziaria avanti il Tribunale di Roma nel novembre del 1990, chiedendo in via principale la condanna della convenuta all'adempimento del contratto e, in via subordinata, disporsi con sentenza il trasferimento della proprietà. La convenuta chiedeva il rigetto della domanda, invocando l'applicazione degli artt. 1456 e 1218 codice.
3. Il Tribunale di Roma con sentenza 18844 del 2002 accoglieva la domanda. Riteneva il Tribunale che non fosse applicabile al contratto preliminare la sanzione della nullità prevista dalla L. n. 47 del 1985, art. 40, applicabile soltanto agli atti con effetti reali, qualificava la condizione contrattuale come condicio iuris e valutava che il termine era stato fissato soltanto nell'interesse del promittente acquirente. Riteneva, quindi, che il contratto preliminare fosse efficace.
4. La Corte d'appello, adita dalla promittente venditrice, riformava la sentenza di primo grado, rigettando tutte le domande proposte dal promittente acquirente. Osservava la Corte, pur condividendo la conclusione del Tribunale in ordine all'inapplicabilità della sanzione della nullità o di annullabilità del contratto preliminare in conseguenza della violazione della L. n. 47 del 1985, art. 40, che la condizione apposta dalle parti al contratto doveva essere interpretata come clausola risolutiva espressa, con termine finale apposto nell'interesse di entrambe le parti. Di conseguenza doveva essere accolta l'eccezione avanzata dalla convenuta fin dal primo grado del giudizio, relativa alla intervenuta risoluzione del contratto ipso iure, avendo ella anche comunicato alla controparte la sua volontà di avvalersi di tale clausola (vedi sentenza pag. 8). La Corte d'appello rilevava che il Tribunale aveva "omesso di valutare le conseguente della previsione di un termine entro il quale la "condicio" dell'ottenimento del "condono" poteva intervenire efficacemente, termine che le stesse parti avevano pattuito al 31 dicembre 1994" (sentenza impugnata pagina 7), ciò avendo fatto al fine "di porre pattiziamente un limite temporale al suo verificarsi per non lasciare indefinitamente nell'incertezza l'efficacia del contratto". Il primo giudice aveva errato a non considerare che anche la promittente venditrice "aveva interesse ad una definizione del rapporto in tempi definiti", perché questo le consentiva di poterne disporre per qualsiasi esigenza (locazione, utilizzazione diretta ecc), certamente resa quanto meno "più difficoltosa dall'esistenza di un obbligo giuridico a trasferire immobile".
5. Il ricorrente impugna la suindicata decisione articolando quattro motivi. Resiste con controricorso la parte intimata.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è infondato e va rigettato.
1. I motivi del ricorso.
1.1 - Col primo motivo di ricorso si deduce: "violazione e falsa applicazione dell'art. 342 cod. proc. civ., comma 1, dell'art. 358 cod. proc. civ. e dell'art. 24 Cost. (art. 360 cod. proc. civ., n. 3) Omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 cod. proc. civ., n. 5)".
La Corte territoriale ha errato nel non accogliere l'eccezione d'inammissibilità dell'appello, sollevata ritualmente, per carenza di specificità dei motivi, con violazione del diritto di difesa. Al riguardo, il ricorrente riporta l'atto d'appello della controparte, rilevando che mancano del tutto "le indicazioni di fatto e di diritto che sarebbero in contrasto con quelle adottate dal giudice di prime cure". In particolare quanto al secondo motivo d'appello, posto dal giudice d'appello a fondamento della sua pronuncia. Viene formulato il seguente quesito di diritto: "Dica la Corte se, nella parte motiva dell'appello, l'appellante debba confutare le ragioni di fatto e di diritto addotte dal primo giudice a fondamento della decisione, con proprie comprensibili ragioni di fatto e di diritto che costituiscono i motivi di doglianza, e se tale mancanza violi l'art. 342 c.p.c., comma 1, ed il diritto di difesa riconosciuto dall'art. 24 Cost., e comporti una dichiarazione di inammissibilità e/o nullità dell'impugnazione con conseguente effetto di passaggio in giudicato della sentenza impugnata". 1.2 Il motivo è infondato. Il giudice d'appello ha motivato con riguardo alle domande ed eccezioni proposte dalle parti, considerando in particolare che l'appellata-convenuta si era difesa, tra l'altro, invocando il disposto degli art. 1456 e 1218, ma argomentando nel senso che il contratto doveva ritenersi risolto in virtù della clausola contrattuale, non essendo intervenuta una legge che consentisse il condono nel termine fissato dalle parti. Questo il tema devoluto al giudice dell'appello, sul quale si è correttamente pronunciato, avendo ritenuto che le argomentazioni proposte dall'appellante fossero sufficienti ad integrare il requisito della specificità della impugnazione. L'aver affrontato nel merito la questione con ampia e adeguata motivazione determina l'implicita reiezione dell'eccezione d'inammissibilità avanzata in appello e reiterata in questa sede. Al riguardo, occorre osservare che il giudice d'appello, così operando, si è attenuto ai principi di diritto affermati al riguardo da questa Corte anche di recente, secondo cui "il principio della necessaria specificità dei motivi di appello - previsto dall'art. 342 cod. proc. civ., comma 1, prescinde da qualsiasi particolare rigore di forme, essendo sufficiente che al giudice siano esposte, anche sommariamente, le ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda l'impugnazione, ovvero che, in relazione al contenuto della sentenza appellata, siano anche indicate, oltre ai punti e ai capi formulati e seppure in forma succinta, le ragioni per cui è chiesta la riforma della pronuncia di primo grado, con i rilievi posti a base dell'impugnazione, in modo tale che restino esattamente precisati il contenuto e la portata delle relative censure" (Cass. n. 6978 del 2013, rv. 625704). Ciò ha fatto il giudice d'appello nell'ambito dei suoi poteri di interpretazione della domanda, con la conseguenza che "la verifica dell'osservanza dell'onere di specificazione non è direttamente effettuabile dal giudice di legittimità, dacché interpretare la domanda - e, dunque, anche la domanda di appello - è compito del giudice di merito e implica valutazioni di fatto che la Corte di Cassazione - così come avviene per ogni operazione ermeneutica - ha il potere di controllare soltanto sotto il profilo della giuridica correttezza del relativo procedimento e della logicità del suo esito" (Cass. 2007 n. 2217). E la motivazione della Corte di merito non presenta vizi che possano essere scrutinati in questa sede, risultando idonea e priva di aspetti di contraddittorietà o illogicità. Il motivo di ricorso sul punto è, peraltro, inammissibile per mancanza del momento di sintesi.
Anche la censura relativa alla violazione del diritto di difesa risulta infondata, posto che le questioni in discussione tra le parti erano del tutto chiare già in primo grado, cosicché, restata soccombente in primo grado sul punto, l'appellante non ha fatto altro che riproporre le proprie disattese argomentazioni, ulteriormente specificando, per quanto necessario, in ordine alla intervenuta risoluzione di diritto del contratto per effetto della clausola pattizia, che ha costituito il punto centrale del contrasto tra le parti.
2.1 - Col secondo motivo di ricorso si deduce: "nullità della sentenza per violazione dell'art. 112 c.p.c. e dell'art. 342 c.p.c., comma 1. Contraddittoria motivazione circa un fatto controverso del giudizio". Il Ca..... ritiene che il giudice d'appello sia incorso in ultrapetizione, perché in mancanza di specifica impugnazione sul punto, non avrebbe potuto, come invece aveva fatto, qualificare la clausola relativa all'ottenimento del condono diversamente da quanto ritenuto dal giudice di prime cure, che l'aveva definita quale condicio iuris. La signora Co.... non aveva proposto specifica impugnazione anche in ordine alla qualificazione data dal giudice di prime cure al termine (ritenuto apposto solo nell'interesse del parte promittente acquirente). Osserva, inoltre, che la Co.... in primo grado aveva proposto domanda di risoluzione ex art. 1456 c.c. (avente come causa petendi il necessario accertamento dell'importanza di un determinato inadempimento valutato anticipatamente dalle parti), mentre il giudice d'appello aveva pronunciato la risoluzione sulla base di una diversa azione di risoluzione (mai formulata) avente quale causa petendi il carattere essenziale del termine entro il quale doveva avverarsi l'evento dedotto in condizione. Quanto al dedotto vizio di motivazione (contraddittorietà) il ricorrente lo individua nell'aver la Corte ritenuto prima la clausola del preliminare come clausola risolutiva espressa ex art. 1456 cod. civ., salvo poi qualificarla come "condizionale risolutiva del contratto ex art. 1363 cod. civ.".
Viene formulato il seguente quesito di diritto: "dica la corte se sui capi della motivazione della sentenza non impugnati si formi il giudicato con la conseguenza che ove il secondo giudice esamini detti capi viola l'art. 112 c.p.c. e l'art. 341 c.p.c., comma 1". 2.2 - Il motivo è infondato, ove ammissibile (non lo è, per la mancanza del momento di sintesi, per il motivo articolato sub art. 360 cod. proc. civ., n. 5).
Occorre in primo luogo osservare che il motivo si fonda sulla ritenuta errata interpretazione, da parte del giudice d'appello, delle domande formulate dalla convenuta in primo grado e poste poi a fondamento dell'appello. Sotto tale profilo è sufficiente richiamare quanto già considerato con riguardo al primo motivo, dovendosi quindi ritenere che il giudice ha correttamente interpretato il motivo di impugnazione con il quale veniva devoluta alla sua valutazione l'interpretazione della clausola contrattuale che prevedeva, secondo l'appellante, la risoluzione automatica del contratto in ragione, da un lato, della scadenza del termine ritenuto essenziale per entrambe le parti, e, dall'altro, della mancata realizzazione della condizione apposta relativamente al condono. In tali termini la censura di violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., non sussiste, posto che il giudice dell'appello ha giudicato esattamente nell'ambito della materia che gli è stata devoluta e sulla base dei fatti posti a fondamento delle domande. Infatti, la domanda avanzata in primo grado e proposta con motivo di impugnazione in secondo grado è sempre la medesima e riguarda la pronuncia di risoluzione del contratto, fondata sulla interpretazione della clausola contrattuale nella prospettiva indicata dall'appellante- convenuta (disattesa dal primo giudice). Le restanti argomentazioni riguardano la valutazione del contenuto della clausola (la sua interpretazione) oggetto di specifici motivi di ricorso, nell'ambito dei quali esse verranno esaminate.
3. Col terzo motivo di ricorso si deduce: "Violazione e falsa applicazione dell'art. 1456 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)". Il Cairoli sostiene, ponendo un conseguente quesito, che la Corte di appello ha mal applicato l'art. 1456 cod. civ., alla clausola in questione, qualificandola erroneamente come clausola risolutiva espressa, dovendo essa invece essere qualificata come condizione risolutiva (facendo applicazione dell'art. 1363 cod. civ.), e ciò perché il fatto dedotto in condizione non richiedeva un inadempimento imputabile ad una delle parti. Ritiene cioè che l'art. 1456 cod. civ., trovi applicazione soltanto nell'ambito di contratti a prestazioni corrispettive e quando le parti abbiano dedotto come condizione, appunto risolutiva del contratto, l'inadempimento di una determinata obbligazione. In tal caso è necessario accertare sia l'inadempimento, che la sua imputabilità.
Viene formulato il seguente quesito di diritto: "dica la corte se l'art. 1456 cod. civ., possa essere applicato anche alle fattispecie ove non è previsto alcun inadempimento imputabile alle parti dal quale far conseguire l'impiegata risoluzione del contratto". 3.1 Il motivo è infondato. Il giudice d'appello, al di là della terminologia utilizzata in alcuni passaggi motivazionali e di cui si dirà, ha chiaramente valutato la clausola pattizia (rilascio della concessione nel termine del 31 dicembre 1990), rilevando che l'avveramento o meno della condizione apposta era estraneo alla volontà della parti (anche se ha osservato che era comunque necessario un comportamento della parte promittente venditrice, consistente nell'avanzare la richiesta, e, quindi, correttamente che la condizione apposta doveva ritenersi "mista") e che in ogni caso le parti avevano ritenuto congiuntamente che il tutto doveva intervenire entro un termine ragionevole (rispetto alla data della stipula contrattuale), per l'evidente ragione, comune ad entrambe, di non lasciare pendente indefinitamente il contratto in questione, stante l'incertezza del realizzarsi della condizione nell'ari e nel quando. L'operazione ermeneutica del giudice d'appello ha riguardato, quindi, l'intera pattuizione contenuta nell'art. 3 del contratto, la liceità o meno della apposizione della condizione, l'interesse alla apposizione del termine, e ciò il giudice ha fatto sulla base della interpretazione della comune volontà delle parti (art. 1362 cod. civ.) e collegando tra loro le clausole contrattuali con riguardo all'atto nel suo complesso (art. 1363 cod. civ.).
Il motivo di censura riguarda esclusivamente l'applicabilità dell'art. 1456 cod. civ., che richiedendo un inadempimento, non resta applicabile alla odierna fattispecie. Occorre, però, al riguardo osservare che le parti hanno inteso apporre al contratto una condizione risolutiva propria, che, al pari di ogni condizione, costituisce un'autolimitazione della volontà, in quanto la parte (o le parti) perseguono un dato effetto contrattuale subordinandolo all'avverarsi di un dato evento. La clausola risolutiva espressa, invece, rappresenta una "sanzione" per il caso di inadempimento (vedi sul punto Cass. 1982 n. 61). La corte distrettuale ha quindi errato unicamente nel qualificare la clausola come "clausola risolutiva espressa", avendole invece riservato la disciplina e riconosciuto gli effetti propri della "condizione risolutiva". Di conseguenza, in questa sede è necessario soltanto procedere alla correzione della motivazione, nel senso appena indicato, essendo invece condivisibili le conclusioni assunte dal giudice di merito quanto alla inefficacia del preliminare di vendita.
4. Col quarto motivo di ricorso si deduce: "Omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5). Violazione e falsa applicazione dell'art. 1363 (art. 360 c.p.c., n. 3) - Violazione e falsa applicazione del regime della condicio iuris e dell'art. 1353 c.c.. Illogica e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art 360 epe n 5). Violazione e falsa applicazione dell'art. 1362 c.c. e segg. (art. 360 c.p.c., n. 3). Lamenta il ricorrente l'interpretazione data dalla Corte territoriale (in violazione delle norme in materia, artt. 1363, 1362, 1366 cod. civ. e norme sul regime della condicio iuris) alla clausola contrattuale per aver ritenuto che le parti avrebbero "posto in essere una condizione mista ovvero una condizione risolutiva, collegando alla scadenza del termine del 31 dicembre 1990 l'automatica risoluzione del contratto, ma mai una condicio iuris che costituisse requisito essenziale ovvero presupposto logico del contratto definitivo per il quale le parti siano obbligate a prestare il consenso".
Secondo il ricorrente, poiché la condicio iuris "consiste in un requisito essenziale o in un presupposto logico di un negozio giuridico" e in "eventi che hanno la loro fonte nell'ordinamento giuridico" essa esula dall'autonomia negoziale (Cass. 1977 n. 4514), mentre il termine, entro il quale la condicio iuris può intervenire per rendere efficace il contratto, rientra nella disponibilità delle parti. Secondo il ricorrente, la Corte territoriale ha errato nell'escludere la sussistenza di una condicio iuris in contrasto con la volontà delle parti, per aver interpretato la clausola in questione prescindendo dal complessivo contenuto dell'art. 3. L'interpretazione complessiva della pattuizione avrebbe consentito di concludere che era stata apposta la condicio iuris (intervento di una legge di sanatoria) regolamentata con la previsione di un termine posto nell'interesse del solo promittente acquirente. L'evento dedotto (intervento di legge di sanatoria) non dipendeva dalla volontà delle parti, ma dalla legge futura ed era stato pattuito in conseguenza della sanzione di nullità degli atti di trasferimento con effetti reali prevista dalla L. n. 47 del 1985, art. 40. Si trattava di un evento futuro e incerto sia nell'an che nel quando, che rendeva necessaria la apposizione del termine. La Corte ha errato nel ritenere equiparabile la condicio iuris alla condicio facti, in quanto la condizione in concreto posta dalle parti costituiva un presupposto logico perché venisse ad esistenza il contratto definitivo (pagina 36 ultime righe). Erra poi la Corte nel ritenere prima il contratto preliminare inefficace (non essendo intervenuta la legge di sanatoria) e poi, contraddittoriamente, qualificando il medesimo contratto come efficace (pagina 37 del ricorso). La decisione della Corte di ritenere l'evento (sanatoria dell'immobile) una "condizione mista" viola l'art. 1362 cod. civ. e il regime della condicio iuris.
Sussiste la violazione dell'art. 1362 cod. civ., perché "emergeva in modo chiaro ed univoco la comune intensione delle parti di far dipendere il verificarsi dell'evento dedotto in condizione (condono) unicamente dall'intervento di legge di sanatoria edilizia non anche da un comportamento della promittente venditrice". In conclusione, secondo il ricorrente le parti avevano apposto una condicio iuris, regolamentandola con la previsione di un termine, ritenuta dal giudice di primo grado apposto nell'interesse del solo compratore. Essendosi sul punto formato il giudicato, perché non oggetto di censura da parte della Co...., la Corte d'appello era incorsa in extrapetizione. In ogni caso la Corte territoriale è giunta a tale conclusione argomentando "contraddittoriamente su circostante incompatibili con la volontà della signora Co....", posto che la scelta di vendere è incompatibile con quella di affittare o destinare a terzi l'abitazione, restando comunque fermo l'interesse a vendere da parte della Co...., per il quale era necessario attendere una legge di condono con la conseguente sua indifferenza rispetto alla scadenza del termine fissato. Infine, la Corte d'appello non aveva considerato il comportamento tenuto dalla stessa Co...., una volta scaduto il termine, non avendo restituito la caparra, come avrebbe dovuto, comportamento questo che dimostrava il suo perdurante interesse alla conclusione del contratto.
Vengono formulati i seguenti quesiti di diritto: "a) dica la Corte se porre come condizione la promulgazione di una futura legge di sanatoria edilizia in un contratto preliminare avente ad oggetto un immobile abusivo configuri una condido iuris intesa come presupposto logico perché il contratto definitivo possa venire ad esistenza;
b) dica la Corte se l'interpretazione di una clausola contrattuale attraverso l'esame di una sola parte di essa ovvero non dando prevalenza al significato delle parole ivi espresse costituisca violazione dell'art. 1363 c.c. e dell'art. 1362 c.c.;
c) dica la Corte se vi è stata violazione dell'art. 1362 c.c., nella statuizione del giudice di merito che ha stabilito che il termine era stato posto nell'interesse di entrambe le parti:
- ne' considerando l'interesse della promittente venditrice alla vendita dell'immobile, per la cui commerciabilità doveva in ogni caso attendere l'intervento di una futura legge di sanatoria edilizia;
- ne' considerando l'interesse del promissario acquirente all'acquisto;
- ne' considerando l'interesse del promissario acquirente a vedersi restituita la caparra, che costituiva il 15% dell'intero prezzo;
- ne' considerando la significativa condotta della promittente venditrice che alla scadenza del termine tratteneva la somma incassata cosi implicitamente manifestando l'intenzione di non sciogliersi dal vincolo contrattuale ovvero di rinunciare termine, ma prendendo il giudice di merito in considerazione solo situazioni e circostante contraddittorie ed aleatorie".
4.2 Il complesso motivo, che prospetta censure ex art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5 e sotto plurime prospettive, è infondato, anche alla luce di quanto già anticipato nella trattazione del terzo motivo. Il ricorrente si sforza di atomizzare il contenuto della decisione, cercando di far leva anche su passaggi argomentativi sintetici della sentenza impugnata che si prestano ad una diversa lettura, nonché poggiando la sua argomentazione su violazioni dell'art. 112 cod. proc. civ., riproposti nell'articolazione del motivo, ma già affrontati specificamente col rigetto del secondo motivo. Richiamando quanto già esposto col rigetto del terzo motivo, occorre ulteriormente aggiungere che, in via generale e per quanto qui interessa, questa Corte, anche di recente, ha affermato i seguenti condivisi principi secondo i quali a) l'accertamento della volontà delle parti si traduce in un'indagine di fatto, con i conseguenti limiti di esame, e b) ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate. Al riguardo è utile richiamare le relative massime:
"In tema di ermeneutica contrattuale, l'accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui all'art. 1362 cod. civ. e segg.. Pertanto, alfine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità" (Cass. n. 17168 del 2012 rv. 624346).
"In tema di interpretazione del contratto ed ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento e rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate, con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa; il rilievo da assegnare alla formulazione letterale va poi verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale e le singole clausole vanno considerate in correlandone tra loro, dovendo procedersi al rispettivo coordinamento a norma dell'art. 1363 cod. civ. e con riguardo a tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni parte e parola che la compone, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole alfine di chiarirne il significato" (Cass. 2007 n. 17180; Cass. 2005 n. 28479). Il giudice d'appello si è pienamente attenuto a tali principi, ha esaminato il contenuto complessivo del contratto in genere e dell'art. 3 in specie, valutandolo nel dettaglio e valorizzandone l'aspetto letterale, avendolo ritenuto prevalente e sufficientemente chiaro ad individuare la volontà delle parti. Il giudice d'appello ha poi rivalutato l'interpretazione data dal giudice di prime cure al contenuto della condizione e al termine, dandone una corretta interpretazione e traendone una altrettanto corretta conclusione, essendo incorso nel solo errore di qualificazione giudica della condizione, di cui si è detto nel precedente motivo. Una volta corretta nei sensi indicati, la motivazione risulta idonea, logica e non contraddittoria, apparendo chiaro che gli elementi in contrario offerti dal ricorrente non sono decisivi sul piano della logicità (potendosi evidentemente giungere a diverse conclusioni interpretative) e non sono tali di dimostrare aspetti di contraddittorietà, specie quando questa sia denunciata con riguardo ad interpretazioni personali della decisione offerte dal ricorrente. Infatti, la qualificazione che fa il ricorrente del contenuto e della valenza di una condizione risolutiva, apposta ad un contratto preliminare, la equiparazione o meno di una condicio iuris a una condicio facti, riguardando passi motivazionali della decisione offerti allo scopo di rafforzare la conclusione raggiunta, non sono idonei ad attaccarne il contenuto decisorio, già esposto più volte, che si traduce nell'effetto risolutivo attribuito ad un contratto preliminare efficace, in conseguenza dell'avverarsi di una condizione estranea alla volontà delle parti (ma specificamente dedotta pattiziamente) e dello spirare del termine, pure ritenuto nell'interesse comune delle parti. L'effetto risolutivo consiste evidentemente nel far venir meno l'efficacia di un contratto preliminare che era efficace.
Anche sulla natura essenziale e comune del termine apposto la motivazione della Corte di merito è adeguata e sufficiente. Un'ultima notazione sulla valenza del comportamento della Co.... dopo il verificarsi della risoluzione. Anche in questo caso si tratta di una questione di fatto riservata al giudice di merito ed apprezzabile in questa sede sotto il profilo del vizio motivazionale. Ma anche in questo caso la censura finisce per prospettare una diversa valutazione interpretativa del ricorrente di quanto è accaduto, piuttosto che censurare la decisione sotto il profilo dell'adeguatezza e logicità, ben potendo consentire i fatti esposti una diversa valutazione. E ciò alla luce di altre circostanze, sempre collegate al comportamento successivo della Co...., che hanno diverso segno e che indicano la chiara volontà della stessa di definire, in modo diverso, la vicenda contrattuale, e non già di darne esecuzione, anche alla luce di situazioni oggettive diverse, derivanti dal passaggio del tempo, estranee si alla previsione contrattuale iniziale, ma certamente valutabili in ordine alla scelta, operata in concreto, di avvalersi o meno della risoluzione. In tale più ampio ambito di valutazione non risulta, quindi, decisivo e univocamente significativo il ritardo nella restituzione della caparra.
5. Le spese seguono la soccombenza.
P.T.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente alle spese di giudizio, liquidate in 2.000,00 (duemila) Euro per compensi e 200,00 (duecento) Euro per spese, oltre accessori di legge. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 maggio 2013. Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2013
riferimenti normativi|blue
Cod. Civ. art. 1353
Cod. Civ. art. 1362
Cod. Civ. art. 1363
Cod. Civ. art. 1456