Reato di maltrattamenti - Comportamento del padre dispotico - comportamento deprecabil
Reato di maltrattamenti - Comportamento del padre dispotico - comportamento deprecabile
Penale - Reato di maltrattamenti - Comportamento del padre dispotico - comportamento deprecabile (Cassazione , sez. I penale, sentenza 18.08.2004 n. 34522 )FATTO E DIRITTO
La Corte di appello di Bologna con sentenza in data 9/10/2002, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Forlì, con la quale R.C. era stato dichiarato colpevole dei reati di cui agli artt. 572 (capo A) e 582- 585- 577 (capo B) c.p., ritenuto il fatto di cui al capo b) come aggravante del reato al capo a) ex art. 572 cpv, rideterminava la pena inflitta, previa concessione delle attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante, in mesi otto di reclusione, confermando nel resto.
Era ascritto all’imputato di aver maltrattato la moglie Z. C. con reiterate percosse, e da ultimo cagionandole lesioni, consistenti in trauma contusivo alla regione auricolare destra, nonché la figlia V. con reiterate percosse e ingiurie, rivolgendole più volte l’espressione puttanella.
Nel replicare alle censure mosse nei motivi di appello, la Corte di merito, pur dando atto che il tema delle lesioni non aveva avuto adeguato approfondimento, avendo la Z. precisato di avere in precedenza sofferto di disturbi all’orecchio, e sottolineando che, nonostante il giudice di primo grado avesse fatto riferimento ad un quadro di vinta familiare agghiacciante, non poteva dalle risultanze processuali evincersi un quadro univoco, osservava tuttavia che il reato di maltrattamenti era da ritenersi comunque integrato alla stregua delle accuse della parte offesa.
Rilevava infine che le dedotte violazioni procedurali in tema di conduzione dell’esame testimoniale non comportavano nullità alcuna della sentenza impugnata.
Avverso tale decisione ricorre l’imputato a mezzo del suo difensore e deduce con il primo motivo la violazione della legge penale in riferimento all’art. 572 c.p., e della legge processuale in riferimento all’art. 190 c.p.p., nonché la palese illogicità della motivazione.
Dopo aver accennato alla inutilizzabilità della prova testimoniale ex artt. 506- 499 c.p.p., per effetto dell’abnormità del metodo di conduzione dell’esame da parte del primo giudice, osservava che era mancata innanzi tutto la verifica dell’attendibilità della parte offesa, l’unica fonte probatoria del processo, che aveva proposto un quadro familiare apocalittico, non suffragato da alcun riscontro.
Pur avendo avanzato dubbi sulla sussistenza delle lesioni provocate dall’imputato e sulla univocità del quadro probatorio, e sottolineato la coincidenza tra la presentazione della querela e la manifestata intenzione della donna di volersi separare, il giudice di secondo grado, con un salto iperbolico e contraddittorio con il precedente argomentare, era giunto alla conclusione laconica e perentoria che il reato di maltrattamenti era da ritenersi integrato, fondando tale giudizio sulla assunzione da parte dell’imputato del modello di capofamiglia, comportamento questo, che non poteva costituire di per se motivo di addebito di carattere penale, e tanto meno costituire lesione del bene giuridico tutelato dalla norma penale ex art. 572.
Anche l’addebito di maltrattamenti in danno della figlia maggiorenne, ad avviso della difesa, era rimasto privo di riscontri, ne sul punto era stata spesa una sola parola da parte dei giudici del merito.
L’unico episodio emerso in dibattimento, per cui le liti tra i coniugi traevano spunto dalle richieste del padre alla figlia V. di collaborare con la madre nella conduzione domestica e dalle risposte poco garbate di quest’ultima, non poteva di per se condurre all’ipotesi criminosa de qua.
Anche per quanto riguardava i reato al capo b), correttamente assorbito nel capo a), era mancato il doveroso approfondimento sotto l’aspetto probatorio, che la stesa corte di merito non aveva mancato di sottolineare.
Eccepisce ancora con il secondo motivo la mancata assunzione di prova decisiva e la violazione degli artt. 190- 199 c.p., avendo la corte di merito, nonostante il riferimento a quel quadro non univoco, omesso di dar conto del diniego alla richiesto richiesta di escutere i tre figli, tutti maggiorenni e capaci, la V. addirittura parte offesa, avente l’obbligo di testimoniare, che avrebbero potuto arrecare un serio contributo probatorio, nonché rinunciato alla ricerca della verità, violando quindi le più elementari regole procedurali.
Quanto alla eccezione di inutilizzabilità della prova testimoniale, va richiamato il principio già espresso da questa Corte, e qui pienamente condiviso, che la generica doglianza sul modo di conduzione del dibattimento da pare del presidente del collegio, il qual avrebbe condizionato le deposizioni testimoniali, mediante interventi senza il rispetto delle regole del contraddittorio, non può conseguire alcun risultato utile in sede di impugnazione, prescindendo dalla considerazione che la violazione dell’art. 506 c.p.p. non è sanzionata a pena di nullità da alcuna norma, onde ogni eventuale questione deve essere immediatamente contestata dalle parti e formalizzata nel corso del dibattimento, e la decisione o la mancata decisione sull’incidente può assumere rilevanza nel giudizio di impugnazione, solo in quanto si accerti che essa abbia comportato la lesione dei diritti delle parti o viziato la decisione (Cass. Sez. VI 27/1/00 n. 909 rv. 216626).
Il che non sembra essersi verificato nel caso in esame.
È fondato e va accolto il motivo della manifesta illogicità della motivazione, in esso assorbito quello della mancata assunzione di prova decisiva.
È evidente infatti il salto logico nel percorso motivazionale seguito dalla corte territoriale nel confermare il giudizio di colpevolezza dell’imputato in ordine al reato di maltrattamenti, in esso assorbito come aggravante il delitto di lesioni.
Il giudice del gravame invero innanzi tutto dubita dell’entità delle lesioni procurate alla parte offesa nell’unico episodio accertato, ricordando che la donna aveva riferito che in passato aveva già sofferto di disturbi auricolari, per poi concludere che il tema non aveva avuto il necessario approfondimento. Quindi osserva che, a fronte di una motivazione del giudice di primo grado, che aveva definito come agghiacciante il quadro di vita familiare, descritto nella deposizione della Z., il quadro probatorio non poteva definirsi univoco, avuto riguardo alla coincidenza tra la presentazione della querela e la determinazione della donna di volersi separare dal marito, ai motivi dei frequenti litigi, dovuti alle pretese del padre di costringere la figlia V. a collaborare alla conduzione domestica e alle risposte poco garbate di quest’ultima, alla scelta degli altri due figli di andare a vivere con il padre, dopo la separazione dei genitori, allo sforzo di lavoro profuso dall’imputato per migliorare il tenore di vita familiare.
Sulla base di queste premesse giunge poi incoerentemente ad affermare che il reato di maltrattamenti doveva coque ritenersi integrato alla stregua delle dichiarazioni della parte lesa, che aveva testimoniato il carattere ricorrente di una condotta oggettivamente grave, perché espressione di intemperanza intrafamiliare, e replica di un modo di fare violento e manesco, posta in essere dall’imputato, ed inquadrata come assimilazione del modello del marito- padre- capofamiglia dispotico.
Nessun accenno alla prova della condotta abituale, estrinsecatesi in una pluralità di atti, volti a ledere l’integrità fisica e il patrimonio morale del soggetto passivo, che costituisce l’elemento fondante dell’ipotesi criminosa de qua.
È mancato del tutto quel necessario rigore nella valutazione della testimonianza della Z., nonostante la specifica censura sul punto e il dubbio sull’univocità del quadro probatorio, espresso dalla stesa corte bolognese.
Lo stesso addebito di assunzione da parte dell’imputato del modello di capofamiglia, prevaricatore, pecca di illogicità e irragionevolezza.
Trattasi infatti di un comportamento deprecabile, quanto si vuole, se posto in relazione ad un più moderno modo di gestire il rapporto familiare, improntato oggi su una parità dei coniugi nelle decisioni sulla condizione familiare , che può integrare una valida ragione di separazione tra i coniugi, ma giammai può costituire ed integrare lesione del bene giuridico tutelato dall’art. 572 c.p.
Anche per quanto attiene l’addebito in relazione alla figlia V., la corte di merito non risponde alle censure dell’appellante; si limita ad accennare alla reazione del padre di fronte ad un atteggiamento ben poco collaborativi della figlia in ordine alle attività domestiche.
Ma l’essersi il R. rivolto alla figlia con espressioni irriguardose non può integrare quell’ipotesi di maltrattamenti, che richiede viceversa un vero avvilimento psicologico della parte offesa.
Ne alcun accenno la motivazione reca alle reiterate percosse, riferite nel capo di imputazione.
Non è possibile in definitiva, per ritenere comunque adempiuto l’obbligo della correttezza della motivazione, ipotizzare quella saldatura tra la sentenza di primo grado e quella di secondo grado, le quali anzi, proprio sul punto della valutazione della prova configgono tra loro, con la conseguenza che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna per nuovo esame.
PQM
Annulla l’impugnata sentenza e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna.
Roma, 6/7/2004.
Depositata in Cancelleria il 18 agosto 2004.