Skip to main content

legge ex cirielli

Commento alla legge n. 5/12/2005, n. 251, meglio nota come “ex cirielli”(autori vari De Benedictis, Gennaccari,  Brancucci, Galliani, Pitzalis) coordinato dall’avvocato Mario Scialla.

Commento alla legge n. 5/12/2005, n. 251, meglio nota come “ex cirielli”, di autori vari (De Benedictis, Gennaccari, Brancucci, Galliani, Pitzalis) coordinato dall’avvocato Mario Scialla.

Esprimere delle opinioni sulla legge sopra citata non è cosa di poco momento e non tanto per la difficoltà della materia – le modifiche, comunque, sono assai più incisive di quanto possa apparire prima facie – quanto, invece, per lo sconcerto che coglie il lettore che faticosamente conclude la sua analisi.

Una lettura ripetuta del testo, infatti, non migliora lo stato d’animo ma anzi innesca sempre più forte il tarlo del dubbio che finisce per sostanziarsi in un quesito: “c’era proprio bisogno di un tale intervento normativo?”

In un momento come questo in cui si tenta, anche e soprattutto a seguito delle numerose sentenze di condanna provenienti dalla Corte di Giustizia di Strasburgo, un faticoso connubio tra la necessità di accelerare i tempi del processo penale, senza sminuirne le garanzie, era il caso di introdurre una riforma che rischia di causare una involuzione del sistema penale?

Allora è circostanza da non sottovalutare, ma anzi altamente sintomatica quella che tale legge sia stata disconosciuta dal suo stesso proponente originario, il senatore di A.N. Edmondo Cirielli che ha finito per etichettarla come una “amnistia mascherata”.

Il secondo elemento caratterizzante tale riforma, dopo quello dell’intempestività sopra descritta, è che il menzionato provvedimento legislativo esprime una sua intima debolezza: l’incoerenza di fondo, giustamente denunciata da tutta l’avvocatura.

Ci si domanda allora criticamente come abbia solo potuto ipotizzare il legislatore di imprimere una svolta (apparentemente) garantista sulla prescrizione e nel medesimo tempo inasprire le pene per i recidivi, orbati oltretutto nella maggior parte dei casi, delle misure alternative alla detenzione.

Inoltre l’aver sottratto al giudice la possibilità di una reale personalizzazione della pena, minandone la discrezionalità, non va a penalizzare anche l’avvocato che perde tale capacità di sollecitazione ed argomentazione?

Appare allora nel giusto chi ha espresso il suo turbamento nel veder ripristinata una pericolosità sociale per “tipo d’autore”, la teoria tedesca, giustamente respinta in passato dal nostro ordinamento, che rimprovera il soggetto più per come è, per come vive, rispetto a quanto effettivamente ha compiuto, contestandogli così più in generale la sua condotta di vita.

Ugualmente non possono tacersi gli effetti devastanti che la novella procura soprattutto nella materia dell’esecuzione penale, negando il ricorso a quelle opportune valvole di sfogo delle misure alternative, rischiando di pregiudicare all’un tempo la funzione rieducativa della pena e le previsioni della legge sull’ordinamento penitenziario.

Eppure con tale legge bisogna necessariamente confrontarsi, rapportarsi, essendo parte dell’ordinamento.

E’ venuto naturale, allora, nell’ambito dell’Associazione Nazionale Forense di Roma, unire insieme non solo le menti di alcuni suoi componenti, per uno studio collegiale e più approfondito, ma anche i cuori, allo scopo forse di meglio assorbire un cambiamento comunque traumatico.

Ciò è servito anche nell’immediato ad avere più notizie possibili su come veniva recepita tale riforma nell’ampio e diverso mondo della magistratura.

Infatti più di un collega è apparso smarrito e preoccupato dal fatto che talune sezioni recepivano come non manifestamente infondati dei quesiti di legittimità costituzionale, in ordine al criterio intertemporale di applicazione della legge, mentre altre sezioni li respingevano frettolosamente.

In quest’ottica, unitamente ai colleghi Tatiana De Benedictis, Gabriele Gennaccari, Lorena Brancucci, Mario Galliani e Andrea Pitzalis, cui rivolgo la mia stima ed il mio ringraziamento, abbiamo selezionato le varie parti della riforma ritenute più rilevanti, quali la recidiva, la prescrizione, le modifiche apportate alla fase esecutiva – espiativa, nonché la disamina dell’articolo dieci, meglio noto come emendamento UDC, in quanto da quel partito proposto, relativo alla disciplina transitoria.

L’elaborato non ha certo la pretesa dell’esaustività o della scientificità ma ha l’enorme pregio dell’utilità, essendo il risultato di studi e discussioni di avvocati che hanno confrontato e sovrapposto le loro idee, provando a rispondere insieme ai primi impellenti quesiti.

Le dense nubi che possono scorgere tutti gli avvocati all’orizzonte, non risparmieranno neppure il penalista.

Ad accrescere i tanti problemi che ci assillano vi è anche una messe di riforme che ci attende, come ad esempio quella in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, la legge sugli stupefacenti e le disposizioni in materia di conseguenze derivanti da incidenti stradali.

Non sarà facile metabolizzarle ed allora, forse, proprio l’associazionismo potrà costituire il miglior rimedio per superare un altro momento difficile.

Avvocato Mario Scialla

Vice Presidente A.N.F. di Roma

LA RECIDIVA

Attraverso l’art. 4 della L 5 dicembre 2005 n. 251 il Parlamento ha radicalmente riformato la disciplina della recidiva, intervenendo in maniera profonda sul testo dell’art. 99 del Cp, senza peraltro incidere sulla disciplina speciale prevista dall’art. 52, comma 3, del Dlgs 28 agosto 2000 n. 274 per i reati di competenza del giudice di pace.

L’intervento legislativo è improntato ad una logica diametralmente opposta a quella che aveva portato nel 1974, attraverso il Dl 11 aprile 1974 n. 99, convertito nella L 7 giugno 1974 n. 220, ad attenuare la disciplina della recidiva introdotta dai codificatori.

Si deve evidenziare, soprattutto, con la L 251/05, la tendenza del legislatore a spostare in maniera accentuata l’attenzione della legge penale dalla “recidiva” al “recidivo”, identificato come vero e proprio “tipo d’autore”, in quanto tale meritevole – a prescindere dal concreto profilo dei fatti per cui viene condannato – di un più severo trattamento sanzionatorio.

Innanzitutto, si deve sottolineare che controversa è la posizione della dottrina in ordine all’inquadramento della recidiva in senso tecnico, ossia se essa possa essere considerata una circostanza a tutti gli effetti. La tesi affermativa si fonda sul tenore letterale dell’art. 70, ultimo comma, Cp che annovera la recidiva tra le circostanze inerenti alla persona del colpevole. Il legislatore della riforma non interviene sull’inquadramento dell’istituto, limitandosi a prevedere un inasprimento delle sanzioni e, laddove limita la possibilità di prevalenza delle circostanze attenuanti nell’ipotesi di recidiva reiterata, si muove palesemente dalla premessa che la recidiva costituisca una circostanza.

Fatte tali opportune precisazioni, si può ora procedere all’esame delle varie figure di recidiva, così come introdotte o modificate dalla legge in oggetto, e del trattamento sanzionatorio per le stesse previsto.

In relazione al primo aspetto si distinguono tre forme di recidiva:

semplice: è il caso di chi commette un delitto dopo essere stato condannato  per un atro delitto non colposo e occorre che la precedente condanna sia irrevocabile;

aggravata: si ha quando il nuovo delitto è della stessa indole (recidiva specifica), venga commesso nei cinque anni dalla condanna precedente (recidiva infraquinquennale) o durante o dopo l’esecuzione della pena (recidiva vera) ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena (recidiva finta),

reiterata: si ha quando il reato è stato commesso da chi è già recidivo.

Come si è sopra accennato il Codice penale, nella sua versione originaria, prevedeva aumenti obbligatori per la recidiva. Tale situazione venne, però, modificata con il Dl n. 99 del 1974, che mitigò notevolmente il precedente regime stabilendo, invece, la facoltatività della recidiva, ovvero, più precisamente, non facoltatività della sua contestazione, ma soltanto del potere da parte del giudice di merito di non aumentare la pena per effetto della recidiva contestata; la riduzione degli aumenti di pena per la recidiva aggravata e reiterata; la fissazione di un limite generale per cui  in nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva poteva superare il cumulo delle pene risultanti dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo reato.

La nuova legge, come già affermato, interviene in senso nettamente repressivo, partendo dal presupposto che il recidivo, in quanto tale, merita un più severo trattamento sanzionatorio. Le novità in tema di recidiva, introdotte dalla L n. 251 del 2005,si possono sintetizzare in tre punti fondamentali:

limitazione della recidiva ai soli delitti dolosi;

incremento degli aumenti di pena per i recidivi;

limitate ipotesi di obbligatorietà della recidiva.

Limitazione della recidiva ai soli delitti dolosi.

Per quel che concerne il primo aspetto, l’art. 99 Cp, nella sua formulazione originaria, prevedeva, ai fini della sussistenza della recidiva, semplicemente la pregressa commissione di un reato, fosse esso delitto o contravvenzione, doloso o colposo. Il legislatore opera sul punto una duplice restrizione, escludendo tutte le contravvenzioni ed i delitti colposi.

Nel corso dei lavori parlamentari si è giustificata tale limitazione con l’esigenza di introdurre un temperamento al maggior rigore della nuova disciplina. La scelta non appare, però, del tutto soddisfacente in quanto il reato colposo non sempre è indice di un minore pericolo e disvalore sociale.

Incremento degli aumenti di pena per i recidivi.

Per quel che riguarda il secondo aspetto, si deve comunque distinguere tra le varie figure di recidiva.

Per la recidiva semplice, disciplinata nel comma 1 dell’art. 99, il precedente aumento fino ad un sesto della pena è sostituito dall’incremento di un terzo della stessa, operato in misura fissa.

Nelle varie ipotesi di recidiva aggravata, invece dell’originario aumento fino a un terzo, viene sostituito un aumento fisso della metà.

Nel caso poi di concorso di più circostanze tra quelle indicate all’art. 99, l’aumento di pena è della metà e, nel caso di recidiva reiterata, della metà o di due terzi.

Dubbi si pongono circa l’interpretazione del terzo e quarto comma dell’art. 99; invero, nella loro formulazione non viene più utilizzata la locuzione “può” e, quindi, sembrerebbe ictu oculi che, qualora una persona compia un ulteriore delitto non colposo e risulti essere già recidiva, l’aumento di pena sia obbligatorio nella misura della metà per i casi di recidiva specifica e di due terzi per la recidiva reiterata.

Tale interpretazione non può, però, essere condivisa, in quanto il mancato utilizzo della locuzione “può” non è decisivo, poiché il legislatore, laddove ha voluto sancire l’obbligatorietà dell’aumento di pena per i recidivi lo ha espressamente indicato, ossia nel quinto comma dell’art. 99. La circostanza che il legislatore della riforma abbia utilizzato in questa ipotesi il termine “obbligatorio” non può ritenersi privo di significato, dovendosi ritenere che in tutti gli altri casi l’aumento di pena sia ancora facoltativo. L’art. 99, al terzo e quarto comma, si limita, infatti, a stabilire in misura fissa l’aumento di pena, ma nulla dice sulla sua obbligatorietà.

Deve, quindi, ritenersi che queste ipotesi di recidiva siano state sottratte ad una graduazione discrezionale, con la conseguenza che il giudice potrà o meno applicare l’aumento di pena, ma laddove decida di applicare la recidiva, lo dovrà fare nella misura predeterminata dal legislatore.

Limitate ipotesi di obbligatorietà della recidiva.

Per quel che riguarda il terzo aspetto, il nuovo art. 99, quinto comma, prevede, come sopra accennato, un’ipotesi di aumento obbligatorio di pena per i recidivi.

Il legislatore della riforma ha preso a parametro i reati indicati nell’art. 407, comma 2, lett. a), Cpp, reati per i quali è previsto un termine di due anni per le indagini preliminari, ed ha ritenuto che, nel caso in cui un recidivo commetta uno di questi delitti, debba sottostare ad un  obbligatorio aumento della pena.

Tale norma sembra a molti irragionevole nella parte in cui impone un aumento, anche considerevole, di pena per qualsiasi soggetto, condannato in precedenza per altro delitto, che commetta uno dei reati di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), Cpp e non disponga per l’ipotesi inversa, ossia quella di un soggetto, già condannato per uno di questi più gravi delitti, che venga poi a commettere un reato meno grave.

Inoltre, l’ultimo comma dell’art. 99, anche dopo la riforma, continua a stabilire che in nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva possa superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo. La legge in commento ribadisce pertanto il limite del cumulo materiale con la conseguenza che, anche quando la recidiva è obbligatoria e l’aumento di pena risulta predeterminato in maniera fissa dalla legge, l’aggravamento di pena in concreto applicato dal giudice non può superare il cumulo delle pene risultanti dalle precedenti condanne.

Infine, può osservarsi che nulla ha detto il legislatore circa la necessità o meno della contestazione della recidiva, ai fini dell’applicazione della nuova disciplina.

Costituiva orientamento assolutamente prevalente sotto la previgente disciplina che, per l’applicazione di tutti gli effetti penali connessi alla recidiva, sia essa facoltativa che obbligatoria, era necessario che la stessa recidiva, attesa la sua natura di aggravante, fosse stata dichiarata dal giudice di merito, previa regolare ed obbligatoria contestazione dell’accusa. In assenza di qualsiasi elemento rinvenibile nei lavori preparatori, sembra da escludere che si sia voluto innovare a quello che era il consolidato orientamento giurisprudenziale e pertanto deve ritenersi che occorra ancora una formale contestazione della recidiva.

Connessione tra recidiva reiterata e calcolo dell’aumento di pena per la continuazione e il concorso formale.

Da ultimo, si deve poi ricordare che l’art. 5 della L 251/05 ha anche introdotto un quarto comma all’art. 81 Cp. Tale nuova disposizione mira a comprimere la discrezionalità del giudice nella determinazione dell’aumento di pena conseguente all’applicazione del regime del concorso formale e della continuazione di reati, in tutti quei casi in cui all’imputato “sia stata applicata” la recidiva reiterata. In tal senso il suddetto aumento  - il cui tetto massimo rimane fissato nel triplo della pena irroganda – non potrà comunque essere inferiore a un terzo della pena stabilita per il reato più grave.

La ratio della norma è facilmente individuabile nella già descritta volontà legislativa di ancorare a meccanismi predeterminati gli aumenti di pena in presenza di soggetti recidivi.

Innanzitutto qui il legislatore, pur con qualche approssimazione terminologica – infatti la recidiva non viene “applicata” ma “riconosciuta”, quello che viene applicato è il relativo aumento della pena –, esplicitamente afferma che  destinatari del trattamento di maggior rigore sono i recidivi, in quanto soggetti che siano stati riconosciuti tali. Invero, il vincolo nella determinazione dell’aumento relativo alla continuazione o al concorso formale prescinde dalla circostanza che la recidiva reiterata sia stata riconosciuta nel medesimo contesto, potendo risultare anche da una precedente condanna, relativa ad un reato per cui non viene applicato il regime dell’art. 81 Cp. In tal senso depone il tenore letterale della norma e lo stesso fatto che la L 251/05 abbia contestualmente modificato l’art.671 Cpp, introducendo un espresso richiamo alla disposizione in esame, altrimenti superfluo.

Anche ad un esame superficiale della norma in questione appare chiaro che non esiste un’effettiva connessione tra il meccanismo di determinazione del trattamento sanzionatorio nel reato continuato o nel concorso formale e la recidività dell’imputato. Infatti, la recidiva potrebbe risultare anche da una precedente condanna, relativa ad un reato per il quale non era stato applicato l’art. 81 Cp, con la conseguenza che l’aumento di pena si ricollegherebbe in tal caso esclusivamente alla persona del soggetto, indipendentemente dalla gravità del fatto che in quel momento si sta valutando.

 Infine, si deve comunque ricordare che è stato opportunamente previsto un correttivo al limite del triplo dell’aumento di pena per la continuazione e il concorso formale, prevedendo che anche nel caso di recidiva reiterata l’aumento di pena per effetto della recidiva non possa superare il cumulo risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo.

FAVOR REI E PRESCRIZIONE NELLA “EX CIRIELLI”

La Legge n. 251 del 5 dicembre 2005, salutata inizialmente come una sorta di  “Amnistia di fatto”, si pone, a ben vedere, come l’ennesimo, controverso, tentativo del nostro Legislatore di razionalizzare la materia Giustizia e diminuire, in modo radicale, i tempi del processo penale divenuti oramai “biblici”.

La prescrizione, notoriamente intesa come causa estintiva del reato legata al decorso del tempo, trova la sua ratio: “ nell’attenuarsi dell’interesse dello Stato alla punizione dei reati il cui ricordo sociale si è affievolito per il trascorrere di un periodo di tempo nel quale non si sia arrivati all’accertamento della responsabilità o alla esecuzione della pena inflitta”.[1]

La necessità di codificare questo principio fu compresa, fra i primi, da Cesare Beccaria  secondo il quale: “ .. le leggi devono fissare un certo spazio di tempo, sì alla difesa del reo che alle prove dei delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se egli dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto”[2].

Oggi, il principio di ragionevole durata del processo costituisce un punto fondamentale del novellato art. 111 della Costituzione.

Passando ora all’analisi della nuova disciplina in ambito prescrizionale, non può tacersi il convincimento che il modus operandi del Legislatore lasci perplessi sotto vari profili.

Invero, se  fino ad ora si era assistito ad una applicazione della prescrizione al reato ( sia pure nella sua configurazione finale), oggi la nuova disciplina sembra aver spostato tale ambito applicativo alla figura del reo.

La creazione di termini differenziati di prescrizione, a seconda che l’imputato sia o meno incensurato, rappresenta una palese violazione del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge sancito dall’art. 3. della Costituzione.   

La figura, poi, di una recidiva divenuta oramai “perpetua” (perché non suscettibile di alcuna mitigazione nel tempo) si pone in netto contrasto con la funzione di “risocializzazione della pena”.

Sul recidivo che abbia commesso delitti connotati da particolare gravità, si abbatterà l’ira punitiva dello Stato, con inevitabile inasprimento della sanzione e del rigore penitenziario.  

Esaminando, poi, il nuovo testo dell’ art 157 c.p., si rileva come il Legislatore, dopo aver soppresso il vecchio sistema di calcolo incentrato sulle classi di gravità, abbia ancorato il tempo di prescrizione alla pena massima edittale stabilita per ciascun reato (consumato o tentato) e abbia inoltre previsto un termine prescrizionale minimo e invalicabile (6 anni per i Delitti e 4 anni per le Contravvenzioni).

Inoltre, è statuito che, per talune ipotesi di reato, tassativamente indicate, il termine prescrizionale venga raddoppiato.

A ben vedere, chi sosteneva che la nuova legge avrebbe portato un’indubbia diminuzione dei termini prescrizionali,  avrà non poche ragioni per ricredersi.

E invero, dall’analisi del testo, si evince come un’ effettiva  riduzione del tempo di prescrizione si sia avuta solo  per quei reati  puniti con una pena edittale compresa fra  i 5 ed i 10 anni, a fronte di un evidente aumento che ha investito numerose ipotesi di reato, spesso anche in modo indipendente dalla loro reale gravità.

Si pensi, ad esempio, a talune ipotesi contravvenzionali di scarsa pericolosità sociale ( art 664  c.p.) che oggi, in base a quanto statuito dalla nuova disciplina, si prescrivono nel più lungo termine di 4 anni a fronte dei 2 previsti prima della riforma.

La nuova normativa, volta ad eliminare il lato “discrezionale” nel calcolo della prescrizione, abolendo il bilanciamento delle circostanze, ha, di fatto, comportato un aumento del tempo necessario a far maturare la prescrizione anche per quei reati che, in precedenza, con la concessione  di una o più attenuanti (ritenute quantomeno equivalenti), permettevano di riqualificare il reato nella meno grave ipotesi-base, con conseguente calcolo di un termine prescrizionale più favorevole all’imputato ( si pensi ad una imputazione ex art  625 c.p. ed alla ipotesi più mitigata di cui all’art 624 c.p.).

Il comma VIII del nuovo art 157 c.p., inoltre, sancisce l’ imprescrittibilità per quei delitti “ per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo anche come effetto dell’ applicazione di circostanze aggravanti”.

Giova qui rammentare, come proprio il “gioco” delle attenuanti rendeva, di fatto, prescrittibili anche quei reati sanzionati con la più grave delle pene.

E non va dimenticato come nel vecchio modus operandi rientravano anche circostanze attenuanti intese oggettivamente, che non lasciavano alcun margine di discrezionalità al giudice: si pensi ad esempio a quanto previsto dall’art 98 comma I c.p. (cd. diminuente della minore età).

Oggi  detta preclusione si pone incontrovertibilmente a svantaggio dell’imputato.

Tralasciando l’ulteriore analisi esegetica del testo, piace, allo scrivente, soffermarsi sulla esistenza di talune aporie.

Si pensi, allora, ad alcuni reati colposi che oggi prevedono un termine prescrizionale maggiore rispetto a quello delle corrispondenti figure dolose (per esempio il delitto di disastro ferroviario nelle due accezioni colposo e doloso).

Ancor più incomprensibile è, poi, la disparità di trattamento operata dal Legislatore in tema di Omicidio Colposo, ove i termini di prescrizione sono raddoppiati per le sole ipotesi (art 589 comma 2 e 3 c.p.) in cui l’evento morte sia stato cagionato dalla violazione di norme sulla circolazione stradale o sulla sicurezza antinfortunistica.

La morte cagionata da colpa professionale, in base alla nuova normativa, si prescriverà nel più breve termine di sei anni.

Preme qui rilevare come, sovente, la cronaca abbia  evidenziato l’esistenza di frequenti  casi di “malasanità”.

 L’accertamento, poi, di eventuali responsabilità umane è  frutto di indagini lunghe e gravose, incentrate per lo più su complesse perizie che comportano un inevitabile prolungamento dei tempi processuali.

In tale ottica, priva di qualsiasi logica giuridica pare l’esclusione del primo comma dell’art 589 c.p. dal raddoppiamento dei termini di prescrizione.

Vi è di più. Colui che, ad esempio, abbia colposamente cagionato la morte di più pazienti, non godrà solo di un tempo prescrizionale più breve ( rispetto al passato ed alle attuali ipotesi di cui al comma 2 e 3 dell’ art 589 c.p.)  ma sarà anche immune da qualsiasi contestazione di recidiva, stante la natura colposa del delitto  de quo.

Emerge ictu oculi, come la  presente normativa  crei una situazione di evidente  disparità di trattamento, davanti alla legge, non solo dal punto di  vista della vittima ma anche e soprattutto del reo.

La creazione, inoltre, di un simile “trattamento differenziato” si pone in netto contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale.

Addentrandosi, poi, nell’analisi esegetica del testo de quo, si rileva come altro punto oscuro sia costituito dall’analisi del comma IV del nuovo art 157 c.p., ove è  previsto un termine prescrizionale di tre anni per ipotesi di reato meno gravi per le quali la legge prevede una pena diversa da quella detentiva o pecuniaria.

Ritenendo lapalissiano il riferimento ai soli reati di competenza del Giudice di Pace, si rammenta come per taluni illeciti è contestualmente prevista la sanzione pecuniaria come alternativa alla Permanenza Domiciliare o ai Lavori di pubblica utilità ( art 52 comma II lett a) Dlgs 28 Agosto 2000 n 274).  Altri, addirittura,  sono sanzionati con la sola pena pecuniaria.

Sorge, pertanto, il dubbio se il tempo prescrizionale vada computato in 3 anni ( ex art 157 comma V)  o in 4 anni (come invece disposto dall’art 157 comma I).

Qualcuno, [3] sostiene che dovrebbe applicarsi il più breve termine prescrizionale di tre anni per tutti i reati di competenza del Giudice di Pace.

Pur condividendo detta tesi ermeneutica, anche in ossequio al principio del favor rei, si ritiene che permangano evidenti problemi  operativi che rendono sicuramente meno agevole l’opera degli addetti ai lavori, lasciando trasparire, all’orizzonte, possibili profili di incostituzionalità.

Da ultimo, viene da chiedersi quale sarebbe il tempo di prescrizione  necessario nel caso di  reato normalmente di competenza del Giudice di Pace, ma pendente ( magari perché in continuazione con altri delitti più gravi) davanti un Giudice di grado superiore.

La sola risposta plausibile, idonea  a fugare eventuali dubbi di incostituzionalità ( ex art 3 Cost), è che, anche in tal caso, dovrebbe trovare applicazione il disposto normativo dell’art 157 comma V.

Si segnalano, a questo punto, le modifiche apportate agli art 158-159 c.p., da intendersi quale ulteriore  sforzo  del Legislatore, volto a ridurre ulteriormente  i termini di prescrizione.

La prima novella, in particolare, riguarda l’ambito di decorrenza del termine prescrizionale nel caso di reato continuato.

In base alla nuova disciplina, il termine prescrizionale inizierà a decorrere dalla  commissione di ciascun reato, con conseguente onere per l’organo giudicante di dover valutare tante ipotesi prescrizionali diverse, quanti sono i differenti fatti-reato riuniti sotto il vincolo della continuazione.

Ciò si pone in netto contrasto, dunque, con quell’orientamento Giurisprudenziale secondo cui: “… la prescrizione dei vari reati che compongono la continuazione non può logicamente avere inizio finchè sussista e sia ancora in corso l’attività determinata dall’unicità  del  disegno criminoso”.[4]

La sancita autonomia, dal punto di vista prescrizionale, dei singoli reati sembra porsi in evidente contrasto logico con la stessa natura dell’istituto della Continuazione.   

La seconda novella è rappresentata da quanto introdotto dal nuovo art 159 c.p.

La norma prevede la sospensione dei termini prescrizionali in ogni caso in cui la stessa è prevista da particolari disposizioni di legge o nei casi tassativamente indicati ai punti 1,2,3.

Particolare attenzione desta, a tal proposito, il disposto di cui al n. 3 del predetto articolo, ove è inoltre previsto che: “ nel caso di sospensione del processo per impedimento delle parti o dei difensori, l’udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell’impedimento,

dovendosi avere riguardo  in caso contrario al tempo dell’ impedimento aumentato di sessanta giorni …”

Questa limitazione del dies ad quem, si pone come un rimedio a favore dell’imputato, che fino ad ora ha visto decorrere infruttuosamente, ai fini del computo della prescrizione, quel maggior lasso di tempo trascorso  per esigenze di ruolo.

Nessun dubbio, inoltre, pare sussistere circa la natura “ordinatoria” del termine di sessanta giorni indicato al n 3 del citato articolo.

Sembra pienamente condivisibile quella tesi, già avanzata da qualcuno[5] secondo cui “ Nei casi in cui il dibattimento non sia ancora stato aperto, e risulta quindi applicabile la nuova normativa più favorevole in termini di prescrizione,il giudice dovrà anche ricalcolare i precedenti periodi di sospensione del dibattimento per impedimento del difensore o dell’imputato in modo da riconoscere il decorso della prescrizione  per tutto il periodo di sospensione successivo a quello del predetto termine finale ..”

In conclusione, pare opportuno rammentare come le valutazioni sin qui svolte, lungi dal rappresentare una trattazione esaustiva delle problematiche connesse alla novellata disciplina in materia di prescrizione, costituiscano solo un primo, graduale approccio ad alcune delle innovazioni introdotte dalla legge 251/05.

In prospettiva, proprio in tale ambito, pare lecito auspicare un sostanziale intervento da parte del Giudice delle Leggi, volto a riaffermare alcuni principi basilari della nostra Carta Costituzionale che, nella normativa in esame, sembrano inspiegabilmente essere stati disattesi.

MODIFICHE APPORTATE DALLA “EX CIRIELLI” (L. 251/05)

ALLA FASE ESECUTIVO-ESPIATIVA:

PROSPETTO SINTETICO

ART. 671 C.P.P.:

Viene inserito il coma 2 bis, il quale richiama , anche in fase esecutiva, le disposizioni dell’art. 81, IV comma, c.p.: in sostanziale sintesi, anche in ipotesi di applicazione della continuazione in fase esecutiva, nei casi di soggetti cui sia stata applicata la recidiva ex art. 99, IV comma, c.p. (reiterata), l’aumento di pena non può in nessun caso essere inferiore a un terzo della pena stabilita per il reato più grave.

ART. 656 C.P.P.: ESECUZIONE DELLE PENE DETENTIVE:

Al comma 8bis è stata aggiunta la lettera “c”: La sospensione dell’esecuzione di cui al comma 5 (e cioè quella disposta nei casi di pena detentiva non superiore a 3 anni o a 4 nei casi di cui agli artt. 90 e 94 T.U. Stupefacenti, per i tossicodipendenti), non si può più disporre nei confronti dei condannati cui sia stata applicata la recidiva ex art. 99, IV comma,c.p..

Tale norma ha subito una ulteriore modifica col successivo D.L. 30/12/05 n. 272, il quale ha precisato che la sospensione, comunque, continua ad applicarsi nei confronti di quei soggetti che abbiano in corso un programma terapeutico di recupero, la cui interruzione possa pregiudicarne la disintossicazione.

Spunti di riflessione: non è chiaro se la norma si debba applicare alla sola esecuzione della condanna cui sia stata applicata l’aggravante ex art. 99, IV comma,c.p., oppure a qualsiasi condanna inerisca un soggetto dichiarato recidivo reiterato.

MODIFICHE INERENTI L’ORDINAMENTO PENITENZIARIO

(L. 354/1975):

PERMESSI PREMIO AI RECIDIVI:

NUOVO ART. 30QUATER:

Nel caso di permessi premio per detenuti cui sia stata applicata la recidiva di cui all’art. 99, IV comma,c.p., ci sono le seguenti limitazioni che prima non c’erano:

nel caso di condannato ad arresto o reclusione non superiore a 3 anni, anche se congiunta all’arresto, il permesso può concedersi solo dopo aver espiato 1/3 della pena (non più immediatamente);

per i condannati a reclusione maggiore di 3 anni, dopo metà pena (non più dopo ¼ della pena);

per condannati per i delitti di cui all’art. 4bis comma 1 O.P. (reati con finalità di terrorismo, anche internazionale, o eversione dell’ordine democratico mediante atti di violenza, art. 416bis e reati fine, riduzione in schiavitù, tratta di persone, acquisto e alienazione di schiavi, sequestro a fini estorsivi, associazione a delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri o di stupefacenti), dopo 2/3 della pena – ma non oltre 15 anni – (e non più dopo ½ pena).

per i condannati all’ergastolo, dopo 15 anni (non più dopo 10).

Spunti di riflessione: La disciplina sui benefici penitenziari, poiché la legge penitenziaria è da ritenersi sostanziale e non processuale, si applica a chi sia in fase esecutiva, ma chi già ne usufruisce continua a beneficiare della normativa più favorevole precedente; idem per i soggetti che, all’entrata in vigore della legge, avevano già maturato un grado di rieducazione tale da renderli meritevoli dei benefici.

Sembra peraltro concordemente escluso che la disciplina restrittiva scatti in assenza di espressa contestazione della recidiva reiterata nel giudizio di cognizione e del suo espresso riconoscimento in detta sede. Deve quindi essere riconosciuta dal Giudice in sentenza.

DETENZONE DOMICILIARE

NUOVO COMMA 01 ART. 47 TER:

Si può espiare nella propria abitazione, o in altro luogo di pubblica cura, assistenza e accoglienza, quando si tratti di persona che, al momento dell’esecuzione pena o dopo il suo inizio, abbia compiuto 70 anni di età, purchè non sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, né sia mai stato condannato con l’aggravante di cui all’art. 99 (N.B.: non 99 IV comma), la pena della reclusione (non più anche dell’arresto) per qualsiasi reato (tranne quelli di cui sotto), senza limite di anni (tranne, dunque, solo l’ergastolo).

Sono esclusi solo i seguenti reati:

delitti contro la personalità individuale, violenza sessuale, atti sessuali con minorenni, violenza sessuale di gruppo, reati di cui all’art. 51 c. 3bis c.p.p. (reati con finalità di terrorismo, anche internazionale, o eversione dell’ordine democratico mediante atti di violenza, art. 416bis e reati fine, riduzione in schiavitù, tratta di persone, acquisto e alienazione di schiavi, sequestro a fini estorsivi, associazione a delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri o di stupefacenti).

Dunque, per le persone anziane, non serve più il requisito dei problemi di salute gravi, né di una pena inferiore ai quattro anni.

MODIFICA COMMA 1 ART. 47 TER:

Si possono espiare nella propria abitazione, o altro luogo di pubblica cura, assistenza e accoglienza, la reclusione o l’arresto che non superino i 4 anni – anche residuo di maggior pena – se si tratta di:

donna incinta o madre di prole minore di anni 10 convivente,

padre esercente la potestà su prole minore di anni 10 convivente, qualora la madre sia deceduta o impossibilitata ad assisterla,

persona con condizioni di salute così gravi da richiedere contatti costanti con i presidi sanitari territoriali,

persona maggiore di 60 anni inabile, anche solo parzialmente,

persona minore di anni 21, per esigenze di salute, studio, lavoro, famiglia.

NUOVO COMMA 1.1 ART. 47 TER:

Se si tratta di condannato (anche in caso si sentenza ex art. 444 c.p.p.) cui sia stata contestata la recidiva ex art. 99, IV comma, c.p., la detenzione domiciliare si può concedere solo ove la pena inflitta non superi i 3 anni.

MODIFICA COMMA 1bis ART. 47 TER:

Nel caso di pena non superiore a 2 anni, ed indipendentemente dai requisiti del comma 1, se non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova, si può applicare la detenzione domiciliare, tranne:

ai condannati per i reati di cui all’art. 4bis O.P.

a coloro cui sia stata applicata la recidiva ex art. 99, IV comma, c.p.

SEMILIBERTA’

NUOVO ART. 50BIS:

La semilibertà può essere concessa ai detenuti cui sia stata applicata la recidiva ex art. 99, IV comma, c.p., purchè abbiano espiato:

2/3 di pena (prima la concessione era immediata per pene fino a 3 anni, e dopo ½ pena per pene maggiori di 3 anni);

¾ di pena se condannati per i delitti di cui all’art. 4 bis comma 1 O.P. (non più 2/3).

Spunti di riflessione: Poiché la nuova normativa fa riferimento espresso ai detenuti, sembrerebbe non applicabile a chi chieda la semilibertà da libero.

EVASIONE:

MODIFICA COMMA 1 ART. 58 QUATER:

Assegnazione al lavoro esterno,

Permessi premio,

Affidamento in prova ex art. 47,

Detenzione domiciliare,

Semilibertà,

non si applicano (in nessun caso, e non più solo con riguardo ai reati di cui all’art. 4bis comma 1 O.P.) a chi sia stato riconosciuto colpevole della condotta di evasione.Spunti di riflessione: Adesso occorre una condanna definitiva, e non è più sufficiente, dunque, l’accertamento incidentale del Tribunale di Sorveglianza.

NUOVO COMMA 7BIS ART. 58QUATER:

Affidamento in prova, detenzione domicilare e semilibertà si concedono una volta sola al condannato cui sia stata applicata la recidiva ex art. 99, IV comma, c.p..Spunti di riflessione:

Si intende una sola volta nella vita, o una sola volta per ogni singola pena?

Si deve guardare alla pena inflitta con la recidiva, per stabilire il numero massimo di misure, o genericamente alla qualifica di recidivo?

Si intende una sola volta per ogni misura, o una sola delle tre misure?

Se si interpreta la norma nel senso di una sola misura per ogni singola pena, non cambia poi molto, poiché già prima l’art. 58 quater comma 2 vietava di concedere il beneficio per 3 anni a chi se lo fosse fatto revocare. Cambierebbe solo nella nuova assenza di limiti di tempo per la preclusione.

Se si interpreta come una sola volta nella vita, ne emerge una normativa del tutto contraria ai principi di ragionevolezza e proporzione della pena previsti dalla Costituzione.

Inoltre includerebbe anche le nuove pene relative ai reati commessi prima della concessione del primo beneficio, ed anche quei casi in cui la prima misura venga meno senza alcuna colpa (pena che supera i limiti di legge).

Avrebbe molto più senso prevedere il divieto di un secondo beneficio solo a chi divenga recidivo solo durante o dopo la concessione del beneficio.

Sarebbe inoltre opportuna la previsione di un limite temporale espresso alla preclusione.

IL NUOVO ART. 94BIS l. 309/90,

introdotto dalla ex Cirielli, che limitava la sospensione pena e l’affidamento in prova in casi particolari nei confronti dei tossicodipendenti o alcooldipendenti recidivi ex art. 99, IV comma, c.p., subordinandolo alla presenza di una pena non superiore ai 3 anni, e prevedendo che si potesse concedere una sola volta, è stato abrogato dal successivo D.L. 272/ 05, poiché reputato in contrasto con le esigenze di recupero dei condannati tossicodipendenti.

Riprendono dunque vigore gli artt. 90 e 94 T.U. Stupefacenti.

Il P.M. è chiamato a verificare l’esistenza di un programma terapeutico in corso, e l’eventuale pregiudizio che l’interruzione dello stesso potrebbe causare.

LA DISCIPLINA TRANSITORIA

L’art. 10 co. 3 della legge n. 251/2005, stabilisce che, se i nuovi termini di prescrizione risultano più brevi, gli stessi si applicano ai procedimenti ed ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della nuova legge, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado, ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché dei processi pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di Cassazione.

La predetta scelta legislativa ha determinato i primi interrogativi, circa la legittimità costituzionale dello stesso art. 10 comma 3.

Detti quesiti si fondano sul presupposto che, se per termine prescrizionale s’intende il tempo necessario per l’estinzione del reato, ivi compresi gli effetti interrativi e sospensivi, la disciplina relativa ha natura di diritto penale sostanziale.

La prescrizione, difatti, esprime la rinuncia dello Stato a far valere la propria pretesa punitiva, in virtù del tempo trascorso e sul fatto che non sia intervenuto un giudicato.

La prescrizione, quindi, estinguendo la punibilità in astratto, incide in sé e per sé sul diritto sostanziale.

Ne deriva che i limiti imposti dalla disposizione in questione al principio della retroattività della norma più favorevole al reo potrebbero essere in contrasto con i principi contenuti negli art. 3 e 25 della costituzione.

Innanzi il Tribunale di Firenze, in data 12 dicembre 2005, nell’ambito di un processo per circonvenzione di incapace, la difesa ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 comma 3 per violazione degli art. 3 e 25 Cost., poiché la normativa introdurrebbe una disparità di trattamento irragionevole e violerebbe il principio della retroattività della legge penale più favorevole.

Il Tribunale di Paola – Sezione distaccata di Scalea – con ordinanza del 12 dicembre 2005, in un processo per falsa testimonianza ha dichiarato non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 10 comma 3, nella parte in cui statuisce che i più brevi termini di prescrizione non si applicano ai processi in corso per i quali è già stato aperto il dibattimento.

Il Tribunale di Perugia, - sezione distaccata di Gubbio - ha dichiarato non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 comma 3 per contrasto con l’art.  3 Cost., con riferimento ai processi pendenti in primo grado, poiché la nuova norma introduce un regime differenziato a fronte di situazioni identiche, rispetto alle quali l’individuata linea di demarcazione, costituita dalla dichiarazione di apertura del dibattimento, appare priva di concreta e ragionevole giustificazione.

Di avviso contrario, anche se con riferimento a questioni sensibilmente diverse, relativamente cioè ai processi già pendenti in appello o in Cassazione, è stata la Suprema Corte.

La Cassazione, con ordinanza del 12 dicembre 2005, ha rilevato la manifesta infondatezza della stessa questione di legittimità, in relazione agli art. 3, 25 e 101 della Cost., nella parte in cui esclude l’applicazione della prescrizione breve nei processi già pendenti in Cassazione.

La Suprema Corte ha affermato che il principio previsto dall’art.2 comma 3 c.p. può intervenire solo nel caso in cui vi sia stato un mutamento favorevole nella valutazione legislativa del fatto tipico oggetto del giudizio, richiamando la pronuncia della Corte Costituzionale n. 277 del 1990.

La Corte Costituzionale con il citato provvedimento si era pronunciata sulla questione di legittimità delle limitazioni di cui all’art. 247 delle norme di attuazione, coordinamento e transitorie del c.p.p, approvato con il DLgs 28 luglio 1989, n. 271, le quali prevedevano che il giudizio abbreviato era ammissibile per i soli procedimenti per i quali non erano state compiute le formalità di apertura del dibattimento.

La Consulta affermò che il legislatore era libero di non far retroagire la disposizione impugnata a favore degli imputati i cui procedimenti, alla data di entrata in vigore della disposizione esaminata, avevano già raggiunto la fase dibattimentale vera e propria.

Tutto ciò però in ragione della natura del giudizio abbreviato che, a seguito di una contrazione dell’attività istruttoria e giurisdizionale, prevedeva uno sconto di pena.

La Consulta asserì, pertanto, che una volta aperto il dibattimento, la stessa contrazione in termini di economia si riduceva fino a risultare praticamente inesistente.

La Corte concluse, quindi, sostenendo che l’art. 2 c.p. entrava in discussione solo quando vi era stato un mutamento favorevole al reo nella valutazione del fatto tipico oggetto di giudizio.

La Corte di Appello di Venezia, con la sentenza del 30/12/2005, infine, pur adeguandosi all’orientamento della Cassazione, questa volta con riferimento ai procedimenti in grado di appello, in calce al proprio provvedimento, ha limpidamente asserito, anche se incidentalmente, che la disciplina transitoria della legge n. 251/2005 presenta altri profili di palese irragionevolezza, con riferimento all’apertura del dibattimento piuttosto che all’esercizio dell’azione penale o almeno all’atto che instaura l’irretrattabile fase giurisdizionale del giudizio, anche abbreviato.

Nonostante ciò, dalla statuizione emerge che, immutata la valutazione sociale del fatto tipico, il legislatore, nei suddetti confini, ben potrebbe derogare ai contenuti del principio previsto dall’art. 2 c.p., disciplinando regole che limitano l’operatività delle norme introdotte sui processi pendenti all’entrata in vigore della nuova legge.

Per di più, detti limiti risulterebbero auspicabili, se finalizzati alla tutela dell’effettività dell’azione penale esercitata, anche se forieri di costi sociali.

L’assenza di limiti, paradossalmente, determinerebbe riflessioni simili in punto di ragionevolezza sulla disposizione in questione, in relazione ai principi dettati dall’art. Cost.

Resta, peraltro, aperta la questione circa il livello di graduazione della retroattività della norma più favorevole, con specifico riferimento al modo ed al tempo delle scelte da porre in essere, specie in relazione ai processi pendenti in primo grado, onde evitare censure in punto di ragionevolezza.

Allo stato, difatti, non è condivisibile, per i processi pendenti in primo grado, la scelta del discrimine netto, fondato sulla dichiarazione di apertura del dibattimento, come lascia chiaramente intendere la citata pronuncia della Corte di Appello di Venezia.

Il momento fino al quale i più brevi termine prescrizionali devono applicarsi ai processi in corso non costituisce certo il vero contenuto della manifestazione del potere dello Stato di punire coloro che si rendono responsabile di reati.

Diverso sarebbe stato se il legislatore avesse individuato lo stesso discrimine nell’esercizio dell’azione penale.

In tale contesto è prevedibile un ulteriore arresto giurisprudenziale, in ordine alla materia in esame.

[1] Così Molari,Prescrizione del reato e della pena in N. Digesto It.,XIII,1966,pag 679 e ss

[2] Cfr Cesare Beccaria “ Dei delitti e delle Pene” 1764-Cap XXX su Processi e Prescrizione

[3] Vedi “La Riforma della Prescrizione” di F. IZZO e P. Scognamiglio 2006-pag 38.

[4] Così in Cass.Pen sez. III sent. n  2613 del 19/01/1983- FONTE Giust. Pen., 1984, II, 40

[5] Alberto M.Picardi “commento a prima lettura degli effetti della Ex Cirielli Fonte: Sito Web” Penale.it”.