Skip to main content

La responsabilità extracontrattuale (di Marco Rossetti) rassegna i giurisprudenza 2013 Cassazione

La responsabilità extracontrattuale (di Marco Rossetti) Corte suprema di cassazione ufficio del massimario - Rassegna della giurisprudenza di legittimità - Gli orientamenti delle Sezioni Civili ( testo estratto dal sito web della Corte di Cassazione)

LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE (di Marco Rossetti)

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La nozione di “danno ingiusto”. – 3. La colpa. – 4. Il nesso di causa. – 5. Il danno non patrimoniale. – 5.1. (A) In generale. – 5.2. (B) Il danno alla salute. – 5.3. (C) Il danno da morte. – 5.4. Il danno all’onore ed alla reputazione. – 6. Il danno patrimoniale. – 7. La liquidazione del danno. – 7.1. (A) La liquidazione equitativa. – 7.2. (B) La liquidazione del danno biologico. – 7.3. (C) Il concorso di colpa della vittima. – 7.4. (D) Compensatio lucri cum damno. – 7.5. (E) Il pagamento di acconti ed il danno da mora. – 7.6. (F) Il risarcimento in forma specifica. – 8. Le responsabilità presunte. – 8.1. Genitori e maestri (art. 2048 cod. civ.). – 8.2. Padroni e committenti (art. 2049 cod. civ.). – 8.3. Attività pericolose (art. 2050 cod. civ.). – 8.4. Cose in custodia (art. 2051 cod. civ.). – 8.5. Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 cod. civ.). – 8.6. Circolazione stradale (art. 2054 cod. civ.). – 8.7. Danno da prodotto. – 9. I confini tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.

1. Premessa. Anche nel 2013 la produzione della Corte in tema di responsabilità extracontrattuale è stata molto copiosa. I temi più frequentemente sottoposti all’esame dei giudici di legittimità sono stati, come di consueto, quelli legati alla colpa professionale (per la quale si veda il Cap. XIV), alla circolazione stradale; alla responsabilità della p.a. per i danni da insidie stradali e cose in custodia in genere; alla liquidazione del danno.
Molto nutrito è stato anche il “pacchetto” di decisioni concernenti questioni processuali tipicamente scaturenti dalla proposizione d’una domanda di risarcimento del danno aquiliano: in particolare, quelli legati alla pregiudizialità tra giudizio civile e penale; ai limiti in cui è ammissibile variare in corso di causa il fondamento della domanda di risarcimento od il suo quantum; al litisconsorzio nelle fasi di gravame.
In linea generale, è possibile affermare che nel 2013 la Corte di cassazione, al di là della risonanza mediatica di alcune sue decisioni, legata alle particolarità della fattispecie concreta, in punto di diritto non ha fatto che confermare i propri tradizionali orientamenti in tema di colpa, nesso di causa e danno. Ciò sia nel bene che, per così dire, nel male: nel senso che dove vi erano orientamenti pacifici, questi si sono perpetuati; ma dove vi erano contrasti (in particolare, in tema di accertamento e liquidazione del danno non patrimoniale) questi non sono stati ricomposti.

2. La nozione di “danno ingiusto”. 2.1. È noto che, abbandonate le suggestioni degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, e la tesi che pretendeva di distinguere il c.d. “danno evento”
(consistente nella lesione del diritto in sé e per sé considerata) dal c.d. “danno-conseguenza” (consistente negli effetti concretamente pregiudizievoli della lesione del diritto), ormai dal 2003 la Corte di cassazione ha adottato una nozione di “danno ingiusto” più rigorosa nei fondamenti e più pragmatica nelle conseguenze: “danno ingiusto”, si afferma, è infatti qualsiasi lesione di interessi giuridicamente “presi in considerazione dall’ordinamento”, dai quali tuttavia siano derivate conseguenze pregiudizievoli, patrimoniali o meno che siano.
Questa opinione fu adottata per la prima volta da Sez. 3, n. 8827 del 2003, ed in seguito definitivamente consacrata da plurimi interventi delle Sezioni unite (nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 del 2008).
Secondo questo orientamento, pertanto, “danno” non è mera “lesione di diritto”, ma “lesione di diritto dalla quale siano derivate conseguenze pregiudizievoli oggettivamente apprezzabili”. Con la conseguenza che si definitivamente negata la pensabilità stessa di danni in rebus ipsis nel nostro ordinamento.

2.2. Nel 2013 la Corte di cassazione ha ribadito questi principî. Innanzitutto, si è ribadito che presupposto del danno è la lesione d’un diritto o d’un interesse che siano giuridicamente rilevanti.
Per “interesse giuridicamente rilevante”, ovviamente, deve ritenersi qualsiasi interesse che sia tutelato dall’ordinamento anche in mancanza di una disposizione espressa.
Molto significativa, è stata la decisione pronunciata da Sez. 1, n. 15481 (Rv. 627112), est. San Giorgio, che pur non essendo chiamata a pronunciarsi direttamente sulla nozione di “danno ingiusto”, ha però indirettamente fornito al riguardo una indicazione assai rilevante.
In quel caso, una persona che aveva convissuto more uxorio aveva introdotto una domanda di risarcimento del danno nei confronti dell’ex partner, ascrivendogli di averle fatto mancare i mezzi di sostentamento. La parte attrice aveva chiesto ed ottenuto l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che il giudice di merito aveva tuttavia revocato rilevando l’«insussistenza sia normativa che giurisprudenziale dell’ipotesi di violazione degli obblighi familiari in ipotesi di persone unite dal solo vincolo more uxorio». Tale decisione è stata però cassata dalla S.C., la quale ha osservato che il giudice di merito non avrebbe potuto limitarsi a rilevare l’assenza di una norma che imponga obblighi di assistenza a carico del convivente more uxorio,
ma avrebbe dovuto verificare in concreto se le aspettative del convivente di fatto potessero o meno essere sussunte tra i diritti fondamentali della persona, a prescindere dal tipo di unione (matrimoniale o di fatto) al cui interno il lamentato danno si sarebbe verificata.
Così decidendo, la S.C. parrebbe avere implicitamente ammesso la possibilità d’un risarcimento del danno per la violazione di interessi fondamentali della persona scaturenti da relazioni di fatto.
Non è, invece, un danno la lesione d’un interesse patrimoniale di mero fatto: ad esempio, l’interesse a che un terzo mi fornisca informazioni per me rilevanti, ma in assenza di un obbligo (anche solo di buona fede) in tal senso (così Sez. 3, n. 3286, Rv. 625209, est. Vivaldi), la quale ha escluso che il traente di un assegno bancario potesse pretendere il risarcimento del danno per non essere stato avvisato dalla banca trattaria dell’inesistenza di provvista.

2.3. È stata, poi, più volte ribadita, con riferimento a numerose e diversificate fattispecie concrete, l’inconcepibilità d’un danno in re ipsa, cioè risarcibile per il solo fatto che sia dimostrata la lesione del diritto (Sez. 3, n. 4043, Rv. 625453, est. Segreto). Si è ritenuto, in particolare, che non possa ritenersi in re ipsa, e che debba essere debitamente allegato e provato nelle sue materiali e concrete manifestazioni:
(a) il danno non patrimoniale da illecito trattamento o divulgazione dei dati personali (Sez. 6-1, ord., n. 22100, Rv. 627948, rel. Ragonesi);
(b) il danno non patrimoniale da illegittima levata del protesto (Sez. 6-1, ord. n. 21865, Rv. 627750, rel. Bernabai);
(c) il danno commerciale da abuso di posizione dominante perpetrato da una impresa concorrente (Sez. 1, n. 20695, Rv. 627910, est. Bernabai);
(d) il danno patrimoniale da imitazione servile dei propri prodotti da parte di impresa concorrente (Sez. 1, n. 1000, Rv. 625135, est. Berruti).

2.4. Perduranti contrasti, purtroppo, si registrano invece in tema di danno patrimoniale da violazione di diritti reali.
In questa materia un primo orientamento, coerentemente con la nozione di “danno ingiusto” sopra riassunta, ritiene che la violazione del diritto reale (come nel caso tipico di occupazione
abusiva di immobile) non può ritenersi in re ipsa e coincidente con l’evento, sicché il danneggiato che ne chieda in giudizio il risarcimento è tenuto a provare di aver subìto un’effettiva lesione del proprio patrimonio (ad es., per non aver potuto locare o altrimenti direttamente e tempestivamente utilizzare il bene, ovvero per aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli: così Sez. 3, n. 15111, Rv. 626875, est. Segreto).
Un secondo orientamento invece è di avviso esattamente contrario, e ritiene che nel caso di occupazione senza titolo di un immobile altrui, il danno subìto dal proprietario sia in re ipsa, e discenda dalla perdita della disponibilità del bene e dall’impossibilità di conseguire l’utilità ricavabile dal bene medesimo in relazione alla sua natura normalmente fruttifera (Sez. 3, n. 9137, Rv. 626051, est. D’Amico; sostanzialmente nello stesso senso si sono pronunciate altresì Sez. 2, n. 17635, Rv. 627242, est. Mazzacane, e Sez. 2, n. 7752, Rv. 625902, est. Proto, con riferimento al danno da violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni).

3. La colpa. 3.1. È sempre raro che la Corte di cassazione sia chiamata a statuire sulla nozione astratta di “colpa civile”, in quanto di norma in sede di legittimità si discute di una specifica colpa, legata ad una fattispecie concreta ben determinata. Di grande interesse, perciò appare la decisione pronunciata da Sez. 3, n. 2637 (Rv. 625413), est. Lanzillo, la quale ha, per così dire, sancito il principio nullum crimen sine praevia lege anche in materia di responsabilità civile. Ha affermato, infatti, la sentenza appena citata che il risarcimento del danno da fatto illecito può derivare solo da comportamenti ritenuti illeciti e sanzionabili nel momento in cui si pone in essere la condotta, in quanto nessuno può essere assoggettato a conseguenze giuridicamente sfavorevoli per comportamenti che la legge non considerava illeciti al tempo in cui furono tenuti.
Merita altresì di essere segnalata – pur avendo ribadito principî già in passato varie volte affermati – la decisione pronunciata da Sez. 3, n. 12401 (Rv. 626478), est. Ambrosio, la quale ha ricordato come e quanto differisca concettualmente e giuridicamente l’accertamento della colpa, da quello del nesso di causa.
L’accertamento del nesso di causa esige che sia dimostrata una mera relazione di fatto tra causa ed effetto (ad esempio, se il gesto compiuto dal chirurgo abbia ucciso il paziente).
L’accertamento della colpa, invece, esige che sia accertata l’esistenza d’una regola giuridica o di comune prudenza che doveva essere osservata, e dalla cui violazione sia derivato il danno (ad es., se le regole della buona pratica clinica vietassero o meno al chirurgo di compiere il gesto risultato letale).
Sul piano concreto, ciò vuol dire che l’accertamento dell’esistenza d’una regola che si assume violata è pregiudiziale a qualsiasi affermazione di responsabilità, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non è possibile apprezzare l’omissione del comportamento sul piano causale.

3.2. La condotta colposa causativa del danno, ovviamente, può essere ascrivibile anche all’operato di più persone: in tal caso tutte costoro risponderanno solidalmente del danno causato sia quando abbiano cooperato, anche colposamente, nel provocarlo, sia quando ciascuna di esse abbia tenuto una condotta indipendente dalle altre, ma che comunque ha costituito una concausa dell’evento: è un principio tradizionale, e ribadito anche nel 2013 da Sez. 1, n. 15687 (Rv. 626984), est. Lamorgese, la quale ha ritenuto solidalmente responsabili del danno da contraffazione ed incasso di un titolo di credito sia l’autore materiale della contraffazione, sia la banca che aveva indebitamente negoziato il titolo, sebbene munito di clausola di intrasferibilità.

4. Il nesso di causa. 4.1. Dopo il 2008, in virtù di un noto intervento delle Sezioni unite (Sez. Un., n. 576 del 2008, Rv. 600899), si è consumata di fatto una divaricazione tra l’accertamento del nesso di causalità tra illecito e danno in sede civile, e l’analogo accertamento tra condotta e reato in sede penale. In sede civile, è ormai pacifico che:
(-) la causalità commissiva vada accertata col criterio c.d. della causalità umana;
(-) la causalità omissiva vada accertata col criterio del “più probabile che non”.
Tali principî sono stati sostanzialmente confermati anche nel 2013, ma con qualche importante novità, rappresentata da un ulteriore allargamento della nozione di causalità omissiva, già oggetto negli anni passati di progressivi ampliamenti. Tale novità ha riguardato il riparto dell’onere della prova del nesso di causa.
Sino ad ora era stato infatti pacifico il principio secondo cui in tema di responsabilità extracontrattuale il danneggiato non fosse
mai esonerato dall’onere di provare il nesso di causa. In deroga a questo tradizionale principio, ha invece ritenuto Sez. 3, n. 1871 (Rv. 624910), est. D’Alessandro, che il soggetto obbligato ad impedire un evento è gravato, ove quell’evento si verifichi, dall’onere di provare che esso non è dipeso da una propria colposa omissione.
In applicazione di questo principio, si è affermata la sussistenza d’un valido nesso causale tra la condotta omissiva delle amministrazioni pubbliche preposte a garantire la sicurezza dei voli, ed il disastro aereo di Ustica del 27 giugno 1980.

5. Il danno non patrimoniale. Affermazioni interessanti si rinvengono sia sulla categoria generale, sia su alcune specifiche manifestazioni di esso.

5.1. In generale. Sul danno non patrimoniale come categoria generale la giurisprudenza di legittimità ha fatto registrare nel 2013 conferme e novità.
Si è ribadito che, al di fuori dei casi previsti dalla legge, il risarcimento del danno non patrimoniale è consentito solo al cospetto della lesione grave d’un diritto inviolabile della persona (Sez. 6-3, n. 5096, Rv. 625358, est. Vivaldi, la quale ha ritenuto non risarcibile il danno non patrimoniale asseritamente subìto dall’utente in conseguenza dell’interruzione della somministrazione di energia elettrica).
Si è, altresì, ribadito che il credito risarcitorio scaturente da un fatto illecito causativo di un danno non patrimoniale può essere liberamente ceduto, non presentando carattere strettamente personale (Sez. 3, n. 22601, Rv. 628099, est. Scarano).
Si sono, infine, ribaditi due importanti principî in tema di diritto internazionale privato, e cioè che:
(a) quando al fatto illecito si applichi la legge straniera, questa deve ritenersi contraria all’ordine pubblico se limiti il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla morte di una persona (Sez. 3, n. 19405, Rv. 628070, est. Vincenti, la quale ha ritenuto inapplicabile nell’ordinamento italiano, per contrarietà all’ordine pubblico, dell’art. 1327 del codice civile austriaco, nella parte in cui limita il risarcimento in favore dei congiunti di persone decedute a seguito di fatto illecito al solo danno patrimoniale ed esclude la risarcibilità del danno non patrimoniale);
(b) lo straniero che domandi in Italia il risarcimento del danno non patrimoniale scaturito dalla lesione di diritti
fondamentali della persona non è soggetto alla condizione di reciprocità di cui all’art. 16 disp. prel. cod. civ. (Sez. 3, n. 8212, Rv. 625665, est. Barreca).

5.2. Il danno alla salute. È la materia nella quale si registra il maggior numero di contrasti, non sopiti nemmeno dall’intervento delle Sezioni unite, e già emersi negli anni passati.
Tali contrasti hanno continuato a riguardare le nozioni di “danno morale” e, in qualche caso, di “danno esistenziale”, la loro idoneità a costituire autonome categorie giuridiche, e la loro liquidabilità accanto ed in aggiunta alla liquidazione del danno biologico.
Secondo un primo orientamento il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico, non è ricompreso in quest’ultimo e va liquidato autonomamente (Sez. 3, n. 22585, Rv. 628153, est. Travaglino; Sez. 6-3, ord., n. 16041, Rv. 626845, rel. Giacalone).
Per un secondo orientamento, invece, il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. preclude la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenza patite dalla persona (danno alla vita di relazione, danno estetico, danno esistenziale, ecc.), che costituirebbero vere e proprie duplicazioni risarcitorie, fermo restando ovviamente l’obbligo del giudice di tenere conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi del danno non patrimoniale nel singolo caso [Sez. 3, n. 21716 (Rv. 628100), est. Lanzillo; Sez. 3, n. 11950 (Rv. 626348), est. Carleo; Sez. 6-3, ord. n. 11514 (Rv. 626652), rel. Giacalone; Sez. 3, n. 3290 (Rv. 625015), est. Cirillo].
È pur vero che, ad esaminare le motivazioni delle sentenze apparentemente in contrasto, questo sembrerebbe essere più apparente che reale: ed infatti da un lato le sentenze che ritengono “ontologicamente diversi” il danno biologico e quello morale ammettono che comunque la distinta liquidazione non possa mai condurre a duplicazioni risarcitorie; dall’altro le sentenze le quali affermano la natura unitaria del danno non patrimoniale ammettono che nella liquidazione di esso si debba tenere conto di tutte le conseguenze pregiudizievoli causate dall’illecito, e quindi anche – ad esempio – della contrazione della vita di relazione o dello sconvolgimento delle abitudini quotidiane.
Infine, con riferimento al problema del risarcimento del danno non patrimoniale patito dai prossimi congiunti di persona infortunata ma sopravvissuta, con una importante decisione la S.C.
ha stabilito che nella liquidazione di esso si debba tenere conto anche del «pregiudizio recato al rapporto di convivenza, da intendere quale stabile legame tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti, anche quando non sia contraddistinto da coabitazione» (Sez. 3, n. 7128, Rv. 625496, est. Barreca). Nella stessa decisione si è altresì affermato che anche la rottura del fidanzamento o della convivenza prematrimoniale, a causa del fatto illecito del terzo, costituisce un danno risarcibile, se la relazione prematrimoniale o di fidanzamento «era destinata successivamente ad evolvere (e di fatto si sia evoluta) in matrimonio».
La sentenza si segnala all’attenzione del giurista in quanto costituisce un revirement rispetto al diverso principio affermato (ma con riferimento al danno da morte) da Sez. 3, n. 4253 del 2012 (Rv. 621634) secondo la quale la morte di un congiunto non prossimo (nella specie, l’avo) dà ai superstiti il diritto di pretendere il risarcimento del danno non patrimoniale solo nel caso di coabitazione col defunto al momento della morte.

5.3. Il danno da morte. In materia di danno non patrimoniale da uccisione di un prossimo congiunto si sono replicati nel 2013 contrasti analoghi (anch’essi già insorti negli anni precedenti) a quelli già visti in tema di danno alla salute. In particolare, la giurisprudenza di legittimità appare divisa tra quanti adottano una nozione unitaria ed omnicomprensiva di “danno non patrimoniale da morte”, e quanti all’opposto ritengono che l’uccisione di una persona possa causare ai suoi congiunti molti danni non patrimoniali “ontologicamente diversi”: quello morale, quello esistenziale, quello da rottura del vincolo parentale.
Ha aderito al primo orientamento Sez. 3, n. 4043 (Rv. 625455), est. Segreto, secondo cui le distinzioni tradizionali in tema di danno non patrimoniale «possono continuare ad essere utilizzate al solo fine di indicare in modo sintetico quali tipi di pregiudizio il giudice abbia preso in esame al fine della liquidazione, e mai al fine di risarcire due volte il medesimo pregiudizio, sol perché chiamato con nomi diversi». Da ciò si è tratta la conclusione che la liquidazione del danno da uccisione di un prossimo congiunto è correttamente compiuta dal giudice di merito quando risulti che questi abbia tenuto conto delle circostanze rilevanti del caso concreto, a prescindere dai nomi che abbia usato per indicare i pregiudizi risarciti.
Aderisce, invece, al secondo orientamento Sez. 3, n. 19402 (Rv. 627584), est. Cirillo, secondo cui il danno biologico, il danno morale ed il danno alla vita di relazione rispondono a prospettive
diverse di valutazione del medesimo evento lesivo, che può causare, nella vittima e nei suoi familiari, un danno medicalmente accertato, un dolore interiore e un’alterazione della vita quotidiana, sicché il giudice di merito deve valutare tutti gli aspetti della fattispecie dannosa, evitando duplicazioni, ma anche “vuoti” risarcitori, e, in particolare, per il danno da lesione del rapporto parentale, deve accertare, con onere della prova a carico dei familiari della persona deceduta, se, a seguito del fatto lesivo, si sia determinato nei superstiti uno sconvolgimento delle normali abitudini tale da imporre scelte di vita radicalmente diverse.
Nello stesso ordine di idee, Sez. 3, n. 9231 (Rv. 626002), est. Chiarini, ha addirittura riesumato la nozione di “danno esistenziale” (che si riteneva ormai definitivamente rifiutata dalle Sezioni unite con la sentenza n. 26972 del 2008), affermando che in caso di uccisione di un congiunto il superstite ha diritto al risarcimento sia del danno morale (da identificare nella sofferenza interiore soggettiva patita sul piano strettamente emotivo, non solo nell’immediatezza dell’illecito, ma anche in modo duraturo, pur senza protrarsi per tutta la vita); sia di quello “dinamico-relazionale” (consistente nel peggioramento delle condizioni e abitudini, interne ed esterne, di vita quotidiana).
Nel 2013 si è altresì confermato il tradizionale orientamento in tema di danno causato da lesioni personali seguite da morte della vittima. In tale evenienza, occorre distinguere tra:
(a) il danno alla salute (biologico) patito dalla vittima nelle more tra le lesioni e la morte, che si trasmette agli eredi ove sia stato “apprezzabile”, e quindi ove la sopravvivenza si sia protratta per un tempo apprezzabile;
(b) il danno c.d. “catastrofale”, e cioè la sofferenza morale patita dalla vittima costretta a percepire in modo lucido e cosciente la propria prossima fine (Sez. 3, n. 7126, Rv. 625498, est. Barreca).
Infine, sul piano della titolarità del credito risarcitorio, Sez. 3, n. 1025 (Rv. 625065), est. Giacalone, ha ammesso che il risarcimento del danno non patrimoniale da morte possa essere accordato anche al coniuge separato legalmente, purché si accerti che la morte del congiunto abbia provocato quel dolore e quelle sofferenze morali che solitamente si accompagnano alla morte di una persona cara; ed a tal fine è necessario dimostrare che, nonostante la separazione, sussistesse ancora un vincolo affettivo particolarmente intenso.

5.4. Il danno all’onore ed alla reputazione. Copiosissima è stata, anche nel 2013, la produzione giurisprudenziale in tema di danno all’onore, alla reputazione, all’immagine, ed in genere ai cc.dd. diritti identitari. Il relativo contenzioso ha assunto dimensioni addirittura elefantiache con riferimenti ai danni commessi col mezzo della stampa o della televisione.
Tuttavia, nonostante del crescente contenzioso, la giurisprudenza di legittimità non ha subìto nel 2013 “scossoni” per quanto riguarda i principî fondanti di questo tipo di responsabilità.
Si è ribadita, in particolare, la tradizionale teoria che potremmo definire “dei limiti e controlimiti”, così riassumibile:
(a) il diritto all’onore ed alla reputazione è recessivo rispetto al diritto di libera manifestazione del pensiero;
(b) ergo, la lesione dell’altrui onore o dell’altrui reputazione non sono fonte di responsabilità, se causate nell’esercizio dei diritti di cronaca, di critica, di satira, di espressione artistica;
(c) tuttavia l’esercizio dei suddetti diritti resta a sua volta soggetto ai limiti dell’interesse pubblico, della verità oggettiva (il solo diritto di cronaca) e della continenza verbale, superati i quali non è più lecita l’offesa (per un resumé di tali principî si veda Sez. 3, n. 9458, Rv. 626057, est. Amatucci).
Vediamo ora in che modo questi princìpi sono stati ribaditi nel 2013.
Con riferimento al diritto di cronaca, si è ribadito che il rispetto del requisito della continenza verbale (e quindi la liceità dello scritto) va valutato esaminando il testo giornalistico nel suo complesso, ivi compreso il titolo, e non già esaminandolo atomisticamente (Sez. 3, n. 18769, Rv. 627845, est. Ambrosio, la quale ha ritenuto offensivo il titolo di cronaca «spuntano altri indizi per i tre alla sbarra», evocativo del rinvio a giudizio degli indagati, in realtà solo citati all’udienza di opposizione all’archiviazione).
Quanto, poi, al requisito dell’interesse pubblico alla notizia, esso deve essere valutato caso per caso, e non in astratto: si è perciò ritenuto che anche la pubblicazione di una lettera privata non violi tale requisito, quando in essa siano contenute affermazioni rilevanti per il contesto economico sociale nel quale vive e lavora l’autore della missiva (così Sez. 3, n. 15443, Rv. 626967, est. Carleo, la quale ha ritenuto lecita la pubblicazione d’una lettera molto critica inviata da un lavoratore all’ex datore di lavoro, e ciò in considerazione del generale contesto di conflittualità sindacale in cui la missiva inviata si inseriva).
Sempre con riferimento al diritto di cronaca, molto importante è la decisione pronunciata da Sez. 3, n. 15112 (Rv. 626951), est. De Stefano, la quale è ritornata sul tormentato tema della responsabilità per l’intervista diffamatoria: e l’ha fatto estendendo anche all’intervistatore tale responsabilità, quando questi abbia formulato le domande all’intervistato in modo suggestivo, ricorrendo ad artifici dialettici o retorici, anteponendo alle domande premesse o commenti tali da provocare risposte lesive dell’altrui reputazione. Anche in tal caso, comunque, l’intervistato resta sempre responsabile di quel che dichiara, e risponde sinanche della ripubblicazione dell’intervista ad opera di terzi, a meno che non dimostri di averne vanamente tentato la diffusione (Sez. 3, n. 15112, Rv. 626950, est. De Stefano).
L’intervistatore, poi, è stato ritenuto responsabile – senza che possa invocare il diritto di cronaca – quando, rivolgendosi all’intervistato con frasi offensive ed impedendogli di rispondere, abbia mirato in tal modo a provocarne soltanto la reazione scomposta, per farne oggetto di uno spettacolo televisivo (Sez. 3, n. 14533, Rv. 626702, est. Cirillo).
Anche con riferimento al diritto di critica, si è recisamente escluso che questo possa scriminare la vera e propria aggressione verbale od all’attribuzione di condotte infamanti: in applicazione di questo principio, si è escluso che il diritto di critica potesse essere invocato dal giornalista politico il quale aveva accusato un pubblico ministero di avere esercitato l’azione penale al solo fine di suscitare nell’imputato una dura critica nei confronti del proprio operato, per poi convenirlo in giudizio e domandargli il risarcimento del danno da diffamazione [Sez. 3, n. 15112 (Rv. 626949), est. De Stefano; per un principio analogo si veda anche Sez. 3, n. 7274 (Rv. 625623), est. De Stefano].
Con riferimento al diritto di satira, se ne è ribadita la liceità e la prevalenza sull’altrui diritto all’onore ed alla reputazione, ma a condizione che esso non trasmodi «in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato». In applicazione di questo principio, si sono ritenuti travalicati i limiti del diritto di satira in un caso in cui uno show-man aveva indicato un soggetto come imputato per aver ricevuto indebitamente denaro o altre utilità da smaltimento di rifiuti tossici, mentre costui – sebbene effettivamente coinvolto in un procedimento penale, a carico di altri – non aveva mai assunto tale qualità (Sez. 6-3, ord., n. 21235, Rv. 627963, rel. Giacalone).
Sul piano della liquidazione, si è affermato l’importante principio secondo cui la pubblicazione di una rettifica è circostanza di per sé idonea a ridurre l’ammontare del danno non patrimoniale causato da un articolo diffamatorio, a nulla rilevando che la rettifica sia avvenuta volontariamente piuttosto che in adempimento di un obbligo (Sez. 6-3, ord., n. 16040, Rv. 627000, rel. Giacalone).

6. Il danno patrimoniale. 6.1. Anche la materia dell’accertamento del danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro e di guadagno ha fatto registrare nel 2013 risorgenti o perduranti contrasti.
Il primo di tali contrasti ha riguardato la nozione stessa di danno alla capacità di lavoro e di guadagno.
Ha ritenuto, infatti, Sez. 3, n. 908 (Rv. 624917), est. Carleo, che nel caso di lesione della salute la vittima possa patire sia un danno patrimoniale da lesione delle specifica capacità di lavoro e di guadagno; sia un danno patrimoniale da lesione della “capacità lavorativa generica”, consistente nella idoneità a svolgere un lavoro anche diverso dal proprio, ma confacente alle proprie attitudini. Tale danno, si soggiunge, «non è affatto necessariamente ricompreso nel danno biologico», e la sua sussistenza dev’essere accertata caso per caso dal giudice di merito, il quale non può escluderlo per il solo fatto che le lesioni patite dalla vittima non abbiano inciso sulla sua capacità lavorativa specifica.
Così statuendo, menzionata decisione si è posta in contrasto con un orientamento che, sia pure faticosamente, era divenuto consolidato ormai da vari anni.
Secondo questo orientamento, la c.d. “generica capacità di lavoro”, intesa quale potenziale attitudine alla prestazione di attività lavorativa, non è che un “modo di essere” della persona. La vittima di lesioni personali pertanto, se al momento del fatto non lavorava né era in procinto di farlo, non potrà pretendere che il ristoro del danno alla salute, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutte le incidenze negative della lesione sul “modo di essere” della vittima. Era divenuta, al riguardo, tralatizia la massima secondo cui «la riduzione della capacità lavorativa generica, intesa come potenziale attitudine alla prestazione di attività lavorativa da parte di un soggetto che non svolge al momento attività produttiva di reddito né sia in procinto presumibilmente di svolgerla, in quanto costituente lesione di un generico modo di essere del soggetto che non comporta al alcun rilievo sul piano della produzione di reddito e quindi si sostanzia in una menomazione della salute intesa in senso
lato, è risarcibile perciò in quanto tale e, cioè, come danno biologico» (Sez. 3, n. 3260 del 1993, Rv. 481472).
Da questa affermazione di principio si facevano derivare due conseguenze:
(a) la pretesa riduzione alla capacità lavorativa generica non può essere autonomamente liquidata in aggiunta al danno biologico, altrimenti si duplicherebbe il risarcimento (Sez. 3, n. 2932 del 1995, Rv. 491139-491140);
(b) anche quando la vittima lamenti, quale conseguenza del danno alla persona, la perduta possibilità di svolgere lavori non qualificati, non specializzati, vari e saltuari, o dell’operaio non specializzato, tale pregiudizio ha natura patrimoniale, non costituisce una perdita di “capacità di lavoro generica”, e va liquidato considerando quale sia stata in concreto la riduzione della capacità di lavoro e di guadagno specifica del soggetto leso (Sez. 3, n. 18945 del 2003, Rv. 569304-569305-569306).
La sentenza n. 908 del 2013, dunque, ha riesumato una categoria concettuale (“l’incapacità lavorativa generica”) che non solo la giurisprudenza, ma la stessa medicina legale aveva da tempo abbandonato, osservando che essa altro non fosse che una delle tante fictiones iuris escogitate quando non si ammetteva la risarcibilità d’un danno alla persona che non avesse conseguenze patrimoniali.

6.2. Oltre che in sulla nozione stessa di “danno alla capacità lavorativa”, nel 2013 si sono perpetuate purtroppo varie diversità di vedute già emerse in passato, in tema di accertamento del danno in esame.
Ha infatti ritenuto Sez. 3, n. 2644 (Rv. 625083), est. Scrima, che una volta provata la riduzione della capacità di lavoro specifica, «se essa è di una certa entità e non rientra tra i postumi permanenti di piccola entità, è possibile presumere che anche la capacità di guadagno risulti ridotta nella sua proiezione futura», anche se non necessariamente in modo proporzionale rispetto all’invalidità biologica.
In antitesi a tale decisione, tuttavia, Sez. 3, n. 3290 (Rv. 625016), est. Cirillo, ha ritenuto che l’accertamento di postumi incidenti con una certa entità sulla capacità lavorativa specifica non comporta automaticamente l’obbligo del danneggiante di risarcire il pregiudizio patrimoniale conseguente alla riduzione della capacità di guadagno derivante dalla diminuzione della predetta capacità e, quindi, di produzione di reddito, occorrendo, invece, ai fini della risarcibilità di un siffatto danno patrimoniale, la concreta
dimostrazione che la riduzione della capacità lavorativa si sia tradotta in un effettivo pregiudizio economico.
Nello stesso ordine di idee, Sez. 6-3, ord. n. 16213 (Rv. 626846), rel. Giacalone, ha ritenuto che la circostanza che la vittima di un infortunio abbia, a guarigione avvenuta, mutato lavoro o mansioni non è di per sé sufficiente a ritenere provata la sussistenza d’un valido nesso causale tra la conseguente riduzione del reddito ed il danno alla persona, essendo onere del danneggiato allegare e provare, anche mediante presunzioni, che l’invalidità permanente abbia inciso, riducendola, sulla capacità di guadagno, potendo solo in tal caso la riduzione di reddito effettivamente percepito essere risarcita come lucro cessante. Questa seconda decisione, al contrario, della prima, si conforma all’orientamento sinora prevalente, secondo cui l’incidenza d’una lesione della salute sui redditi da lavoro non può mai ritenersi automatica, salvo i casi eccezionali di invalidità devastanti e gravissime (ex aliis, Sez. 3, n. 19357 del 2007, Rv. 599389-599390-599391; n. 17397 del 2007, Rv. 598611; n. 13953 del 2007, Rv. 597577-597579), ma è sempre onere del danneggiato il quale alleghi una riduzione della propria capacità di lavoro in conseguenza di un danno alla persona, dimostrare non solo l’esistenza d’una contrazione del reddito, ma altresì l’esistenza di un valido nesso causale tra tale contrazione e la menomazione fisica sofferta (Sez. 3, n. 8892 del 2000, Rv. 538200).

7. La liquidazione del danno. Riguardo l’importante profilo, anche ai fini pratici di interesse assai esteso, quest’anno la Corte ha operato diverse precisazioni.

7.1. La liquidazione equitativa. Non è stato purtroppo raro in passato, né nell’anno in corso, che pervenissero all’esame della Corte di cassazione decisioni di merito che, chiamate a liquidare danni impossibili a determinarsi nel loro esatto ammontare, abbiano fatto ricorso alla liquidazione equitativa (ex art. 1226 cod. civ.) senza alcuna specifica motivazione: né sull’effettiva esistenza d’un danno, né sui criteri seguiti per liquidarlo ancorché equitativamente.
Decisioni di questo tipo sono state sistematicamente cassate dalla S.C., la quale in materia ha ribadito due tradizionali principî.
Il primo è che la liquidazione equitativa dl danno presuppone pur sempre che un danno si sia verificato: dunque essa non è invocabile quando manchi addirittura la prova di un qualsivoglia
pregiudizio (Sez. 3, n. 11968, Rv. 626250, est. Vincenti; Sez. 3, n. 25912, in corso di massimazione, est. Rossetti).
Il secondo è che il giudice di merito, quando liquida il danno in via equitativa, deve comunque indicare i criteri seguiti per determinare l’entità del risarcimento, non potendosi limitare a formule di stile come “ritenuto equo”, “si stima equo” e simili. La liquidazione equitativa, pertanto, può ritenersi incensurabile in sede di legittimità solo allorché dia conto dei presupposti di fatto considerati e dell’iter logico seguito [Sez. 3, n. 8213 (Rv. 625787), est. Carleo; Sez. 3, n. 3582 (Rv. 625005), est. D’Alessandro].
Per la rilevanza pratica del principio, può essere utile ricordare che in tema di liquidazione dei danni, anche in via equitativa, ha ritenuto Sez. 3, n. 11765 (Rv. 626786), est. Armano, che il preventivo della spesa occorrente per l’eliminazione del danno non costituisce prova di quest’ultima.

7.2. La liquidazione del danno biologico. Come noto, sin dal 2011 la Corte di cassazione ha indicato nelle tabelle predisposte del Tribunale di Milano il criterio preferibile per la liquidazione del danno biologico, là dove non vi siano criteri legali obbligatori. Tuttavia sin dalla sentenza “capostipite” di questo orientamento (Sez. 3, n. 12408 del 2011, Rv. 618048), la Corte ha anche precisato che l’applicazione di questo criterio non deve essere automatica e rigida, ma flessibile e “personalizzata”, in modo che il risultato della liquidazione tenga comunque conto di tutte le peculiarità del caso concreto. Tale principio è stato ribadito anche nel 2013: si è stabilito, in particolare, che il giudice il quale applichi il c.d. “criterio milanese” per la liquidazione del danno alla persona ha comunque l’onere di indicare se e come abbia considerato tutte le circostanze del caso concreto per assicurare un risarcimento integrale del pregiudizio subìto da ciascun danneggiato (Sez. 3, n. 9231, Rv. 626003, est. Chiarini).

7.3. Il concorso di colpa della vittima. Nessuna novità nell’interpretazione dell’art. 1227 cod. civ., ed in particolare sul riparto dell’onere della prova del concorso colposo del creditore-danneggiato nella causazione dell’evento di danno: ha ribadito infatti Sez. 3, n. 9137 (Rv. 626052), est. D’Amico, che la suddetta norma addossa al grava sul debitore responsabile del danno l’onere di provare la violazione, da parte del danneggiato, del dovere di correttezza impostogli dal citato art. 1227 e l’evitabilità delle conseguenze dannose prodottesi, trattandosi di una circostanza
impeditiva della pretesa risarcitoria, configurabile come eccezione in senso stretto.

7.4. Compensatio lucri cum damno. L’istituto della compensatio lucri cum damno, non essendo espressamente previsto dal codice civile, da tempo dà luogo ad incertezze e contrasti nella giurisprudenza anche di legittimità (oltre che in dottrina).
Tali contrasti, purtroppo, si sono registrati anche nel corso dell’anno 2013. Intendiamoci: nessuna decisione della Corte ha mai negato l’esistenza o la validità del principio della compensatio lucri cum damno. Tuttavia assai diversi sono gli orientamenti nel ravvisarne i presupposti di operatività, sicché situazioni analoghe finiscono per essere assoggettate a regulae iuris ben diverse.
Secondo un primo orientamento, infatti, il principio della compensatio lucri cum damno trova applicazione solo quando il lucro sia conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto illecito che ha prodotto il danno; quando, invece, lucro e danno hanno fonti e cause diverse, anche se occasionati ambedue dal fatto illecito, l’istituto della compensatio non opera. In applicazione di questo principio Sez. 3, n. 12248 (Rv. 626397), est. De Stefano, ha negato che potesse compensarsi il danno da ritardato rilascio di immobile condotto in locazione, con il vantaggio derivante dalla stipulazione di una sublocazione stipulata dal conduttore moroso a contratto principale già scaduto. Nello stesso ordine di idee (sebbene non faccia espressamente riferimento al principio della compensatio), Sez. 2, n. 259 (Rv. 624511), est. Vincenti, ha negato che il danno ad una porzione di un appartamento potesse compensarsi col maggior pregio che lo stesso avrebbe acquistato dopo i lavori di restauro, che tecnicamente non potevano essere limitati alla sola porzione ammalorata.
Quest’ultima decisione, in particolare, si è posta in tal modo in contrasto col tradizionale orientamento secondo cui, non potendo il risarcimento del danno mai produrre un arricchimento del danneggiato rispetto alla situazione patrimoniale preesistente al fatto illecito, il risarcimento deve essere opportunamente ridotto se, per effetto della riparazione del bene danneggiato, questo acquisti maggior pregio (così Sez. 3, n. 8992 del 2012, Rv. 622775).
Più in generale, e con riferimento specifico al principio della compensatio lucri cum damno, l’opinione secondo cui tale principio opera solo quando sia il danno che il lucro trovino fonte immediata e diretta nel fatto illecito non è stata condivisa da un secondo orientamento (anch’esso, peraltro, non nuovo), il quale ha per
contro ritenuto di potere compensare il diritto al risarcimento del danno (invocato nei confronti del Ministero della salute) da emotrasfusione con l’indennizzo spettante all’ammalato ai sensi della legge n. 210 del 1992, ancorché questo non abbia natura risarcitoria: e ciò al fine di evitare che la vittima venga a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo (Sez. 3, n. 6573, Rv. 625543, De Stefano).
È doveroso tuttavia segnalare che soltanto in questo caso la compensatio lucri cum damno è stata ammessa solo se l’indennizzo ex lege n. 210 del 1992 risulta già corrisposto al momento della liquidazione del danno aquiliano, oppure sia determinato o determinabile in base agli atti di causa (Sez. 6-3, n. 14932, Rv. 626869, est. De Stefano).

7.5. Il pagamento di acconti ed il danno da mora. Accade sovente che il debitore di una obbligazione risarcitoria, prima della liquidazione definitiva, versi una somma di denaro al danneggiato, da questi trattenuta a titolo di acconto. Di tali pagamenti ovviamente si deve tenere conto al momento della liquidazione, e non solo per determinare il capitale residuo, ma anche per calcolare correttamente il danno da mora (c.d. interessi compensativi). Il corretto calcolo per il corretto defalco degli acconti sia dal capitale che dagli interessi è stato ribadito nel 2013 da Sez. 3, n. 8104 (Rv. 625662), est. D’Amico: tale calcolo non consiste nell’imputare l’acconto prima agli interessi e poi al capitale, secondo la regola di cui all’art. 1194 cod. civ. (inapplicabile in materia di obbligazioni di valore, qual è quella di risarcimento del danno), ma esige che:
(a) si devaluti l’acconto alla data dell’evento dannoso;
(b) si devaluti il risarcimento alla data dell’evento dannoso;
(c) si sottragga l’uno dall’altro;
(d) si calcoli sulla differenza il danno da ritardato adempimento.

7.6. Il risarcimento in forma specifica. Importanti precisazioni sono state fornite dalla Corte nel 2013 sull’istituto del risarcimento in forma specifica, ed in particolare:
(a) può essere sempre disposto anche d’ufficio [Sez. 2, n. 259 (Rv. 624509), est. Vincenti; Sez. 3, n. 15875 (Rv. 626971), est. Carleo];
(b) l’“eccessiva onerosità” per l’obbligato che, ai sensi dell’art. 2058 cod. civ. impedisce il risarcimento in forma specifica, sussiste quando il sacrificio economico necessario superi in misura eccessiva il valore da corrispondere in base al risarcimento per equivalente (Sez. 3, n. 15875, Rv. 626972, est. Carleo).

8. Le responsabilità presunte. 8.1. Genitori e maestri (art. 2048 cod. civ.). Nessuna novità di rilievo si segnala in tema di responsabilità di genitori e maestri per il fatto illecito commesso dal minore in potestate o dall’allievo, durante il tempo nel quale è loro affidato. Per quanto concerne, invece, il danno subìto dall’allievo durante il tempo di permanenza nella scuola, Sez. 3, n. 13457 (Rv. 626650), est. Carluccio, ha ribadito che:
(a) a tale forma di responsabilità si applicano le regole della responsabilità contrattuale, anche nel caso di scuola pubblica;
(b) la scuola risponde, per deficit di sorveglianza, dei danni patiti dall’allievo e causata dal fatto colposo di terzi presenti nell’edificio scolastico, come nel caso di personale esterno addetto a lavori di manutenzione dell’immobile.

8.2. Padroni e committenti (art. 2049 cod. civ.). Nessuna novità di rilievo, in punto di diritto, si è registrata in tema di responsabilità dei padroni e committenti ex art. 2049 cod. civ.: si è ribadito, in particolare, che tale responsabilità, quando venga invocata nei confronti del datore di lavoro, esige l’esistenza d’un rapporto di “occasionalità necessaria” tra il danno e le mansioni affidate al lavoratore che l’ha causato, sicché quella responsabilità non è invocabile quando il lavoratore abbia causato il danno esorbitando del tutto dalle proprie mansioni (Sez. L, n. 7403, Rv. 626083, est. Mancino, la quale ha escluso la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2049 cod. civ. nel caso di aggressione fisica di una lavoratrice da parte di un collega sovraordinato).
La responsabilità del datore di lavoro è stata invece affermata quando il fatto illecito commesso da un dipendente nei confronti di altri dipendenti a lui gerarchicamente sottoposti, in luogo che essere subitaneo e prevedibile, sia consistito in una condotta protrattasi nel tempo, la quale poteva pertanto essere accertata ed impedita dal datore (nella specie, si trattava di un caso di c.d. mobbing: così Sez. L, n. 18093, Rv. 627408, est. Stile).

8.3. Attività pericolose (art. 2050 cod. civ.). Nel 2013 la Corte ha ribadito il proprio tradizionale orientamento secondo cui
costituiscono attività pericolose, ai sensi dell’art. 2050 cod. civ., non solo le attività che tali sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, ma anche quelle che comportino la rilevante probabilità del verificarsi del danno, per la loro stessa natura e per le caratteristiche dei mezzi usati, sia nel caso di danno che sia conseguenza di un’azione, sia nell’ipotesi di danno derivato da omissione di cautele che in concreto sarebbe stato necessario adottare in relazione alla natura dell’attività esercitata alla stregua delle norme di comune diligenza e prudenza. In base a tale criterio è stato escluso che potesse considerarsi “pericolosa” ex art. 2050 cod. civ. l’attività di scavo propedeutica all’impianto di un vigneto, consistente nella realizzazione di solchi di circa 60 centimetri e nella costruzione di un muro di recinzione con fondazioni profonde solo un metro (Sez. 3, n. 919, Rv. 625279, est. Ambrosio).

8.4. Cose in custodia (art. 2051 cod. civ.). I presupposti e l’accertamento concreto della responsabilità del custode di cui all’art. 2051 cod. civ. avevano dato luogo già negli anni passati a diverse disparità di vedute in seno alla giurisprudenza di legittimità: in particolare per quanto riguarda l’invocabilità dell’art. 2051 cod. civ. nel caso di danni causati da cose inerti; di danni causati da cose di estesissime dimensioni; od ancora per quanto riguarda il contenuto della prova liberatoria gravante sul custode. Tali contrasti, pur essendosi molto attenuati negli ultimi anni, non sono del tutto scomparsi, come dimostra giustappunto la giurisprudenza di legittimità formatasi nel 2013.
Primo presupposto della responsabilità di cui all’art. 2051 cod. civ. è, come noto, che il danno sia arrecato “dalla cosa”.
Tuttavia nell’interpretare la lettera della legge una parte della giurisprudenza ritiene che tale requisito sussista anche nel caso di danni causati da cose inerti, come nell’ipotesi di cadute o scivolate su scale, pavimenti, gradini, strutture architettoniche in genere [cfr. Sez. 3, n. 7125 (Rv. 625497), est. Barreca, che ha applicato l’art. 2051 cod. civ. nel caso di una caduta sulle scale di un pubblico ufficio; oppure Sez. 6-3, ord., n. 19998 (Rv. 627863), rel. De Stefano, che ha applicato l’art. 2051 cod. civ. nel caso di urto di un giocatore di calcetto contro un palo di sostegno della struttura perimetrica del campo]. Può farsi rientrare in questo orientamento, probabilmente, anche Sez. 3, n. 12401 (Rv. 626479), est. Ambrosio, la quale ha escluso la responsabilità, per i danni patiti da un minore accompagnato dai genitori, del proprietario di un ristorante che
aveva messo a disposizione dei clienti un piccolo parco giochi per i bambini, privo di vizi costruttivi.
Altra parte della giurisprudenza, invece, distingue tra cose “seagenti” e cose inerti.
Per i danni causati dalle prime (ad es. scoppio di motori o caldaie, esalazioni venefiche da sostanze tossiche, crollo od incendio di un edificio), la presunzione di cui all’art. 2051 cod. civ. è sempre invocabile nei confronti del custode.
Se invece la cosa è di per sé insuscettibile di arrecare danno, ma può diventare dannosa «se l’agire umano si unisca al modo di essere della cosa» (sic), la presunzione di colpa potrà essere invocata nei confronti del custode solo se il danneggiato provi che lo stato dei luoghi presenti peculiarità tali da renderne potenzialmente dannosa la normale utilizzazione: costituisca, cioè, una insidia oggettivamente esistente e soggettivamente non prevedibile [Sez. 3, n. 6306 (Rv. 625465), est. Lanzillo; Sez. 3, n. 2660 (Rv. 625158), est. Lanzillo].
Secondo presupposto della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. è la qualità di “custode” della persona contro cui sia invocata la presunzione di legge. Nel 2013 la S.C. ha ribadito che tale qualità compete non solo al proprietario, ma a chiunque eserciti un potere di fatto sulla cosa. Non è pertanto “custode”, ai fini dell’art. 2051 cod. civ., colui il quale, pur utilizzando la cosa, per contratto, o per la natura del rapporto, o per la situazione di fatto concretamente determinatasi, non ha un effettivo “potere di ingerenza” sulla cosa stessa (Sez. 2, n. 15096, Rv. 626957, est. D’Ascola).
Da ciò si è fatto discendere il corollario che l’obbligo risarcitorio gravante sul custode, anche quando questi sia altresì il proprietario della cosa dannosa, non è un’obbligazione propter rem, e non si trasferisce dal venditore al compratore insieme alla proprietà dell’immobile da cui il danno stesso proviene (Sez. 2, n. 18855, Rv. 627830, est. D’Ascola).
Per quanto attiene, infine, al contenuto della prova liberatoria gravante sul custode, Sez. 3, n. 7125 (Rv. 625497), est. Barreca, ha ribadito che quando trovi applicazione l’art. 2051 cod. civ., il danneggiato deve provare il nesso causale tra la cosa e il danno subìto, ma non anche che questo sia l’effetto dell’assenza di presidi antinfortunistici.
Molto cospicua, come di consueto, è stata anche nel 2013 la produzione giurisprudenziale in tema di danni da insidia stradale, la quale per la specificità delle fattispecie e per la specificità di talune regole di origine giurisprudenziale coniate solo per essa, potrebbe a
buon diritto definirsi un “sottosistema” della responsabilità per danni da cose in custodia.
Su questo tema la S.C. ha, in primo luogo, ribadito che l’art. 2051 cod. civ. è invocabile anche nei confronti della pubblica amministrazione, ed anche per i danni causati da beni demaniali. Nel caso tuttavia, di beni di grandi dimensioni (strade, ponti, dighe, boschi, ecc.), la presunzione di colpa di cui all’art. 2051 cod. civ. opera nei confronti della p.a. solo per i danni derivati da vizi c.d. strutturali della cosa, come il difetto di manutenzione o costruzione.
La p.a. pertanto si libera da responsabilità se dimostra che il danno è stato causato non da un vizio strutturale, ma da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione, ovvero da una situazione (ad es., una macchia d’olio presente sulla pavimentazione stradale) che ha prodotto il danno prima che fosse ragionevolmente esigibile l’intervento riparatore dell’ente custode [Sez. 3, n. 6101 (Rv. 625552), Carleo; Sez. 3, n. 8935 (Rv. 626013), est. D’Alessandro].
La responsabilità della p.a. per i danni causati da insidia stradale può, altresì, essere esclusa dalla stessa colpa della vittima: questa ricorre allorché il danneggiato, con l’uso dell’ordinaria diligenza, avrebbe potuto avvedersi dell’esistenza del pericolo ed evitarlo agevolmente (Sez. 3, n. 11946, Rv. 626788, est. D’Amico). Tuttavia, quando si tratta di stabilire se ricorra o meno tale concorso colposo della vittima, non è sufficiente alla p.a. dimostrare la conformità dei luoghi alle leggi ed alla tecnica costruttiva qualora, nonostante una tale conformità, l’opera presenti insidie o pericoli per l’utilizzatore. In applicazione di tali principî, Sez. 3, n. 15302 (Rv. 626872), est. Lanzillo, ha annullato con rinvio la decisione di merito che aveva escluso la responsabilità dell’ente gestore di un’autostrada per un sinistro occorso ad un pedone che, nell’attraversare in orario notturno le due carreggiate dell’autostrada, era precipitato nel vuoto, non essendosi accorto che si trattava di viadotto.
Infine, merita di essere ricordato come Sez. 3, n. 15882 (Rv. 626858), est. Cirillo, abbia ribadito il tradizionale principio in tema di responsabilità dell’ente proprietario della strada nel caso di danni causati dal cantiere su essa aperto per lavori di manutenzione. In tale ipotesi, se l’area del cantiere è interclusa, custode ex art. 2051 cod. civ. deve ritenersi il solo appaltatore; se invece l’area di cantiere non è del tutto chiusa alla circolazione, il committente resta custode
(o meglio, co-custode) insieme all’appaltatore, e risponde anch’egli ex art. 2051 cod. civ.

8.5. Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 cod. civ.). Ribadendo un orientamento consolidato, ha ritenuto Sez. 3, n. 7260 (Rv. 625601), est. Segreto, che la responsabilità ex art. 2052 cod. civ. per danno da animali si fonda su una relazione di proprietà o di uso tra uomo e animale, e che essa è esclusa dal “fortuito”, inteso non come condotta che esclude la colpa, ma come una circostanza che esclude il nesso causale tra animale e danno.
La medesima decisione (Sez. 3, n. 7260, Rv. 625602), est. Segreto, ha altresì escluso che possano farsi rientrare tra gli animali selvatici – sottratti all’applicazione dell’art. 2052 cod. civ. – le api utilizzate da un apicoltore, il quale pertanto risponde ai sensi di tale disposizione e non dell’art. 2043 cod. civ. dei danni dalle stesse cagionati.

8.6. Circolazione stradale (art. 2054 cod. civ.). Sempre assai nutrito è il contenzioso legato alla sinistrosità stradale, il quale nel 2013 ha fatto registrare puntuali conferme e significative aperture: le prime hanno riguardato la presunzione di colpa di cui al primo comma dell’art. 2054 cod. civ., le seconde la presunzione di corresponsabilità di cui al secondo comma di tale norma.
In tema di investimento pedonale, in particolare, si è ribadito che l’accertata condotta colposa del pedone non basta, da sé, a ritenere superata la presunzione di colpa posta dall’art. 2054, comma primo, cod. civ., a carico del conducente: in applicazione di tale principio, Sez. 3, n. 5399 (Rv. 625422), est. Cirillo, ha escluso che potesse ritenersi responsabile esclusivo del sinistro persino nel caso in cui il pedone abbia attraversato la strada fuori dalle strisce pedonali, abbia omesso di dare la precedenza ai veicoli che sopraggiungevano, ed abbia iniziato l’attraversamento distrattamente (per un principio sostanzialmente analogo si veda anche Sez. 3, n. 3542, Rv. 625216, est. Chiarini).
Qualche novità, invece, si registra in tema di presunzione di corresponsabilità prevista, in caso di scontro tra veicoli, dal secondo comma dell’art. 2054 cod. civ., si è confermato il tradizionale principio secondo cui l’accertamento della colpa concreta di uno dei conducenti coinvolti (nella specie, consistita nella violazione dell’obbligo di tenere la destra), non comporta automaticamente la liberazione dell’altro conducente dalla presunzione di cui all’art. 2054, secondo comma, cod. civ., dovendo
il giudice valutare in ogni caso se quest’ultimo abbia a sua volta rispettato le norme di comportamento dettate dal codice della strada e quelle di normale prudenza (Sez. 3, n. 3543, Rv. 625217, est. Chiarini).
Il rigore di questo tradizionale principio è stato leggermente smussato nel 2013, in virtù di alcune decisioni le quali in estrema sintesi hanno affermato il principio che quando la colpa in concreto accertata a carico di uno dei conducenti sia macroscopica, tanto basta per ritenere superata la presunzione di colpa posta dall’art. 2054, comma secondo, a carico anche dell’altro.
È il caso di Sez. 3, n. 18497 (Rv. 627479), est. D’Amico, la quale ha affermato che quando sia accertato che uno dei conducenti abbia attraversato un incrocio col semaforo “rosso”, resta superata la presunzione di colpa concorrente a carico dell’altro, «non essendo tenuto il conducente dell’altro veicolo, che impegna il semaforo con il verde, ad osservare l’obbligo di una particolare circospezione».
È, altresì, il caso di Sez. 6-3, ord., n. 15504 (Rv. 627008), rel. Giacalone, la quale ha affermato che possa essere ritenuto responsabile esclusivo del sinistro (con superamento della presunzione di corresponsabilità ex art. 2054, comma secondo, cod. civ.) sinanche il conducente favorito dalla precedenza, quando risulti che questo abbia tenuto una condotta eccezionalmente imprudente (nella specie, il conducente favorito teneva una velocità doppia di quella ammessa in un centro abitato, aveva effettuato un sorpasso non consentito di altre vetture che marciavano regolarmente incolonnate, e si era spostato per far ciò completamente contromano, così da non poter essere avvistato dall’automobilista impegnato nell’attraversamento dell’incrocio in prossimità dello “stop”).
La presunzione di pari colpa trova applicazione anche nel caso di c.d. tamponamento a “catena” tra veicoli in movimento: in tal caso la presunzione di colpa grava in eguale misura su entrambi i conducenti di ciascuna coppia di veicoli (tamponante e tamponato). Nel caso, invece, di scontri successivi fra veicoli facenti parte di una colonna in sosta, unico responsabile degli effetti delle collisioni è il conducente che le abbia determinate, tamponando da tergo l’ultimo dei veicoli della colonna stessa (Sez. 3, n. 4021, Rv. 625234, est. Vivaldi).

8.7. Danno da prodotto. Importanti decisioni si sono registrate nel 2013 in tema di responsabilità per danno da prodotti difettosi: decisioni che, tuttavia, hanno aperto qualche contrasto.
In genere, è pacifico che la natura della responsabilità del produttore (prevista un tempo dal d.P.R. n. 224 del 1988, oggi abrogato e trasfuso nel d.lgs. n. 206 del 2005), non abbia natura oggettiva, nel senso che non prescindere dall’accertamento del nesso di causa tra prodotto e danno. Secondo Sez. 3, n. 13458 (Rv. 626816), est. Ambrosio, infatti, «la responsabilità da prodotto difettoso ha natura presunta, e non oggettiva», poiché prescinde dall’accertamento della colpevolezza del produttore ma non anche dalla dimostrazione dell’esistenza di un difetto del prodotto. Sostanzialmente nello stesso senso, anche Sez. 6-3, ord., n. 12665 (Rv. 626638), rel. Giacalone, ha affermato che chi invoca la responsabilità del produttore non può limitarsi a provare il nesso di causa tra l’uso del prodotto ed il danno, ma deve provare in modo specifico il nesso di causa tra il difetto del prodotto ed il danno.
Si registra invece un contrasto in merito all’ambito applicativo delle norme sulla responsabilità del produttore.
Secondo Sez. 3, n. 19414 (Rv. 628069), est. Vincenti, infatti, la speciale tutela prevista a favore della vittima d’un danno da prodotto difettoso è prevista solo per i danni causati da cose destinate all’uso o consumo privato e come tali utilizzate dal danneggiato: ne resta perciò escluso il danno alle cose destinate ad un uso professionale e utilizzate in tal senso.
Di diverso avviso è stata invece Sez. 3, n. 13458 (Rv. 626814), est. Ambrosio, la quale ha ritenuto che la disciplina della responsabilità “da prodotto” può essere invocata da tutti i soggetti che si sono trovati esposti, anche in maniera occasionale, al rischio derivante dal prodotto difettoso, riferendosi la tutela accordata all’“utilizzatore” in senso lato, e non esclusivamente al consumatore o all’utilizzatore non professionale.

9. I confini tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. 9.1. È noto come i confini tra responsabilità negoziale ed aquiliana si siano andati negli ultimi anni sempre più mescolando nella giurisprudenza di legittimità. Intere aree un tempo indiscutibilmente di colpa aquiliana sono state infatti traslocate nell’area della responsabilità contrattuale (si pensi alla c.d. “responsabilità da contatto”, ascritta a medici ospedalieri e scuole pubbliche); e per converso in materie tradizionalmente riservate alla responsabilità contrattuale si è ammessa l’esperibilità di domande extracontrattuali.
Questa tendenza è continuata, e si è anzi rafforzata, anche nel 2013.
La decisione più significativa, al riguardo, è senz’altro quella pronunciata da Sez. 3, n. 21255 (in corso di massimazione), est. Travaglino. In questo caso la Corte era chiamata a stabilire se fosse corretta la sentenza di merito la quale aveva ammesso che la parte la quale aveva stipulato una transazione sulla base di una sentenza a sé sfavorevole, ma frutto di corruzione del giudice, potesse promuovere contro l’altra parte – che quel giudice aveva corrotto – non già l’azione di annullamento della transazione per errore o per dolo, ma l’azione generale di risarcimento ex art. 2043 cod. civ.
A tale quesito la S.C. ha dato risposta positiva, osservando che in tutti i casi (e quindi anche al di fuori della singola fattispecie sottoposta al suo esame) di violazione di regole di buona fede nella fase delle trattative precontrattuali è consentito alla parte non in mala fede domandare il risarcimento del danno, e ciò a prescindere dal ricorso ai tradizionali rimedi contrattuali (annullamento, annullabilità, risoluzione). Oltre che per tale statuizione, la sentenza si segnala altresì per una serie di obiter dicta (“Motivi della decisione”, pp. 83 e ss.) nei quali si mette in dubbio addirittura l’utilità stessa e la perdurante validità della distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.

9.2. Meritano altresì di essere segnalate, sul tema, due decisioni che hanno risolto altrettanti casi dubbi in teme di qualificazione dell’azione come contrattuale od aquiliana.
La prima, in tema di fideiussione, ha stabilito che la responsabilità del creditore nei confronti del fideiussore, per i danni che a questi sarebbero stati cagionati dall’inadempienza delle clausole del contratto costituente il titolo dell’obbligazione garantita, è configurabile esclusivamente sotto il profilo extracontrattuale, nascendo da un rapporto al quale il fideiussore è per definizione estraneo, mentre l’inadempienza medesima può essere fatta valere, oltre che dal debitore, in via di eccezione anche dal fideiussore, nell’esecuzione del contratto di fideiussione, solo al fine di resistere all’azione proposta dal creditore per l’escussione della garanzia (Sez. 1, n. 18086, Rv. 627330, est. Ceccherini).
La seconda, in tema di prelazione agraria, ha stabilito che l’azione risarcitoria esperibile dall’avente diritto alla prelazione agraria ex art. 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590, il quale sia destinatario di una proposta di alienazione del fondo ad un prezzo artatamente superiore a quello realmente pattuito tra le parti, va ricondotta alla comune azione di responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 cod. civ., e non all’actio dolis causam incidens ex art. 1440
cod. civ., costituendo un’azione di tutela esterna del diritto di prelazione, il cui esercizio viene così reso più oneroso (Sez. 3, n. 14046, Rv. 626744, est. Amendola).