Risarcimento dei danni derivati – con l’instaurarsi di una malattia invalidante
da una serie di comportamentipersecutori, ricondotti ad un’ipotesi di mobbing
Mobbing - Risarcimento dei danni derivati – con l’instaurarsi di una malattia invalidante – da una serie di comportamenti persecutori, ricondotti ad un’ipotesi di mobbing (Cassazione – Sezione lavoro – sentenza 19 dicembre 2005-6 marzo 2006, n. 4774)Svolgimento del processo
Maurizio Meneghello, dipendente della Spa Cassamarca, ha convenuto in giudizio la società datrice di lavoro chiedendo il risarcimento dei danni derivati – con l’instaurarsi di una malattia invalidante – da una serie di comportamenti persecutori, ricondotti ad un’ipotesi di mobbing, posti in atto dalla società fin dal 1992, consistiti in provvedimenti di trasferimento, ripetute visite mediche fiscali, attribuzione di note di qualifica di insufficiente, irrogazione di sanzioni disciplinari, privazione della abilitazione necessaria per operare al terminale ed altri episodi.
Il giudice adito rigettava la domanda, con decisione che, su impugnazione dell’attore soccombente, ricostituiti il contraddittorio con la Spa Unicredito (incorporante la Spa Cassamarca), la Corte di appello di Venezia confermava con la sentenza oggi impugnata. Il giudice dell’appello, esaminando i vari episodi della vicenda dedotta in giudizio, escludeva la configurabilità nel caso di specie di una condotta aziendale protratta nel tempo caratterizzata da intenti persecutori e finalizzata all’emarginazione del lavoratore.
Avverso questa sentenza il Meneghello propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, al quale la Spa Unicredito resiste con controricrso.
Motivi della decisione
1. I tre motivi, che contengono tutti la denuncia di vizi della motivazione, sotto vari profili, della sentenza impugnata, possono essere esaminati congiuntamente per la loro stretta connessine.
Un primo aspetto riguarda la dedotta omessa valutazione complessiva degli episodi posti a fondamento della pretesa azionata, che dovevano essere considerati nell’ambito del fenomeno del mobbing (anche se corrispondenti singolarmente e astrattamente a comportamenti leciti del datore di lavoro) in quanto diretti a cagionare nel dipendente turbamenti psicologici e disturbi di salute.
1.1. Secondo l’assunto della parte, le azioni vessatorie si sono concretate in particolare
1.1.1. in un provvedimento di trasferimento dall’unità produttiva (che risale al 1992, e di cui è stata accertata con sentenza definitiva l’illegittimità);
1.1.2. in errori ed abusi dell’amministrazione aziendale, identificati in una serie di cinque visite di accertamento della idoneità fisica nell’arco di dieci mesi (nel periodo tra il 1993 e il 1994);
1.1.3. nella privazione dell’abilitazione all’uso del terminale sul posto di lavoro;
1.1.4. nella irrogazione di una sanzione disciplinare nel novembre del 1994;
1.1.5. nell’attribuzione della nota di qualifica di “insufficiente”.
1.2. Si imputa poi alla Corte territoriale di non avere riconosciuto il valore dei singoli episodi e la loro appartenenza ad un medesimo progetto aziendale mirato al progressivo allentamento e isolamento del Meneghello.
1.2.1. Quanto al trasferimento del 1992, si osserva che nella relativa controversia promossa dal lavoratore la sentenza di appello aveva ritenuto fondata la censura relativa all’insussistenza di ragioni giustificatrici del provvedimento, e che la Corte di cassazione adita dal datore di lavoro aveva confermato l’illegittimità del trasferimento a causa della mancata comunicazione scritta dei motivi.
1.2.2. Con riguardo alle visite fiscali, il giudice di appello ha confuso quelle effettuate per il controllo delle assenze con quelle disposte per l’accertamento dell’idoneità fisica; queste ultime risultavano chiaramente ispirata da un intento persecutorio e non potevano trovare giustificazione nelle assenze per la medesima malattia, anche perché le visite avevano sempre avuto risultati positivi; e le stesse considerazioni valevano per il controllo delle assenze, disposto ripetutamente per la tessa malattia già accertata.
1.2.3. In ordine alle limitazioni dell’attività lavorativa, disposte dopo il rientro in servizio nel 1997, con la sottrazione delle abilitazioni all’accesso dei terminali, le circostanze dedotte dall’attore in primo grado erano state confermate dai testi escussi.
1.2.4. La sanzione disciplinare del 1994 di cui è stata riconosciuta l’illegittimità, è stata poi considerata dalla sentenza impugnata come un “episodio isolato”, senza una valutazione complessiva della vicenda, con l’affermazione contraddittoria ed incomprensibile secondo cui “l’illegittimità di un comportamento datoriale non integra un atto di mobbing”.
1.3. Sotto un ultimo profilo si denuncia l’omesso esame di “molti altri episodi riportati nell’atto d’appello”, di cui viene riproposto un elenco.
2.1. Le censure non meritano accoglimento. In primo luogo si osserva che la Corte territoriale ha esaminato le doglianze dell’appellante seguendo la sua prospettatine di una fattispecie di danno derivante da una condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione, finalizzata all’emarginazione del lavorate. In questa ottica, ha condiviso l’affermazione dell’esigenza di una valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio, che non risulta contraddetta dal risultato dell’indagine, fondata sull’analisi dei singoli comportamenti del datore di lavoro di cui si deduce il carattere lesivo.
Le circostanze esaminate acquistano rilevanza ai fini dell’accertamento di una condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’articolo 2087 Cc; tale illecito, che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto da questa norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
La sussistenza della lesine del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato.
3.0. Tali criteri sono stati seguiti dalla sentenza impugnata, che ha escluso, con congrua motivazione, la configurabilità di un disegno persecutorio realizzato mediante i vari comportamenti indicati dal Meneghello.
3.1. Con riguardo al provvedimento di cui al punto 1.1.1., risulta dalle allegazioni della parte che nel precedente giudizio tra le parti fu definitivamente accertata l’illegittimità del trasferimento per la mancata comunicazione dei motivi che giustificavano lo spostamento del luogo di lavoro. Nulla è stato dedotto dal ricorrente in ordine agli elementi probatori acquisiti in quel procedimento, e riproposti a sostegno della domanda azionata nel presente giudizio, che avrebbero potuto dimostrare il carattere persecutorio – nei termini sopra indicati – dell’azione del datore di lavoro.
3.2. Quanto alle visite mediche eseguite su richiesta dell’azienda, non viene chiarita in fatto la rilevanza, ai fini dell’indagine, della mancata distinzione tra i controlli della idoneità fisica e i controlli delle assenze. In proposito il giudice di merito ha ritenuto giustificabili questi interventi in considerazione del loro compimento durante una prolungata assenza per malattia (per oltre duecento giorni): tale apprezzamento di fatto conviene criticato con l’indicazione di precise circostanze non esaminate, idonee a dimostrare – anche sotto questo profilo – il carattere vessatorio dell’iniziativa del datore di lavoro.
3.3. Analoghi rilievi valgono per la vicenda della mancata abilitazione all’accesso ai terminali, che la Corte territoriale – condividendo la valutazione espressa dal primo giudice, non censurata con specifici motivi di gravame – ha ricondotto a problemi di continuità di inserimento del dipendente nell’attività di aggiornamento dei dati. Anche su questo punto non vengono precisate difetti di indagine.
3.4. Quanto alla sanzione disciplinare del 1994 (annullata dal Collegio di conciliazione e arbitrato) la valutazione espressa dalla Corte territoriale sfugge alle critiche mosse, non potendosi ravvisare alcuna contraddizione tra il riconoscimento della illegittimità del provvedimento e la legazione della possibilità di iscrivere tale episodio in un disegno persecutorio, sulla base di un apprezzamento delle concrete circostanze di fatto.
3.5. La censura di cui al punto 1.3. appare inammissibile. Il giudice dell’appello ha osservato che con riferimento a diversi episodi considerati nella decisione di primo grado non erano stati proposti specifici motivi di impugnazione: questo giudizio sulla preclusione di un riesame delle relative circostanze non viene censurato dalla parte, né è dato verificare se i fatti descritti nel ricorso, per i quali si lamenta oggi un difetto di indagine (una sanzione disciplinare dell’anno 2000, la richiesta di un caposervizio di un controllo delle attività del Meneghello, la “costrizione nel 1999 a prendere un periodo di ferie”, la “necessità di ricorrere ad un permesso per recarsi a testimoniare”) coincidano con quelli di cui si è ritenuto precluso il riesame.
In violazione del principio di autosufficienza del ricorso, l’attuale ricorrente si è del resto limitato ad elencare sommariamente i vari episodi, senza indicare gli specifici elementi di fatto rilevanti per l’indagine richiesta al giudice di appello, così da consentire a questa Corte il controllo della decisività delle risultanze non valutate.
Il ricorso deve essere quindi respinto con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate come in dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio liquidate in euro 24 oltre a euro 5000 per onorari e spese generali ed accessori di legge
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