limitazioni legali della proprietà - rapporti di vicinato - distanze legali -
proprietà - nelle costruzioni - in genere - Disciplina delle distanze ex art. 41 quinquies, legge n. 1150 del 1942 - Condizioni - Edificazioni a scopo residenziale, ancorché realizzate in zone del territorio non destinate a civili abitazioni- - Applicabilità - Fondamento. Cassazione Civile Sez. 2, Sentenza n. 1251 del 18/01/2013
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Cassazione Civile Sez. 2, Sentenza n. 1251 del 18/01/2013
La disciplina delle distanze legali tra edifici, dettata dall'art. 41 quinquies, primo comma, lettera c), della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (aggiunto dall'art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765), trova applicazione in tutti i casi di edificazione a scopo residenziale, ancorché realizzata in zona del territorio comunale con una vocazione non residenziale, non potendosi consentire che un intervento edilizio illecito, in quanto effettuato in una zona nella quale l'edificazione a civile abitazione sia del tutto esclusa (nella specie, in zona industriale), rimanga assoggettato ad una disciplina meno rigorosa di quella operante per le costruzioni eseguite in zone del territorio espressamente destinate dallo strumento urbanistico ad edilizia residenziale.
CONDOMINIO
SOPRAELEVAZIONE
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Cassazione Civile Sez. 2, Sentenza n. 1251 del 18/01/2013
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 3 febbraio 19 96, Gr..... Gaetano conveniva in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Napoli, Ca..... Luigi e Co...... Anna, chiedendo, per quanto ancora rileva, che venisse dichiarata l'illegittimità delle costruzioni eseguite dai convenuti per tutte quelle parti realizzate in appoggio illegittimo e a distanza illegale e non regolamentare dal confine e dalle frontistanti e preesistenti fabbriche di esso attore; che i convenuti fossero condannati, in solido tra loro, ad arretrare, mediante abbattimento, tutte le parti illegittime di costruzione, nonché al risarcimento dei danni da liquidarsi in corso di causa, con vittoria di spese.
Si costituivano Ca..... Luigi e Co...... Anna contestando l'applicabilità nel caso di specie del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, eccependo la comunione del muro di confine, posto che la loro dante causa Ca..... Marianna aveva ceduto il suolo per venticinque centimetri per la costruzione dello stesso e che era intercorsa tra essi convenuti e l'allora proprietario del fondo confinante. Pollastro Raffaelina, una convenzione volta appunto a rendere comune il muro di confine. I convenuti chiedevano di essere autorizzati a chiamare in causa la Pollastro, ai fini della convalida della convenzione, e proponevano domanda riconvenzionale volta ad ottenere l'arretramento a due metri dal confine delle due cisterne collocate dall'attore sul confine e l'eliminazione, o almeno l'arretramento a un metro dal confine, dei tubi di conduttura idrica siti lungo il confine.
Istruita la causa a mezzo di due consulenze tecniche e di assunzione della prova testimoniale, l'adito Tribunale di Napoli, dichiarata la comunione del muro di confine, rigettava per difetto di prova le domande riconvenzionali. Quanto alle domande degli attori, il Tribunale, dopo avere evidenziato che successivamente al deposito della prima consulenza tecnica i convenuti avevano realizzato ulteriore attività edilizia, rilevava che all'epoca del rilascio delle autorizzazioni amministrative ai convenuti lo strumento urbanistico vigente era rappresentato dal PRG adottato con Delib. 6 gennaio 1999 e definitivamente approvato il 7 novembre 2001; che in base a detto piano gli immobili oggetto di causa ricadevano nella zona B1 (Nuovo Centro) e che l'art. 6 delle norme di attuazione prevedeva una distanza di metri dieci; accertava quindi che le nuove edificazioni realizzate dai convenuti violavano lo strumento urbanistico vigente, il D.M. n. 1444 del 1968 e l'art. 876 cod. civ., non essendo stata rispettata la distanza legale di dieci metri dal fabbricato frontistante. Quanto alle iniziali edificazioni, il Tribunale riteneva che le stesse fossero assoggettate al PRG adottato con delibera del 5 maggio 1978, e che fossero operanti i limiti di distanza disposti dal citato decreto ministeriale. Condannava quindi i convenuti ad abbattere il muro di cinta secondo le indicazioni contenute nella c.t.u. Cotrone sino al raggiungimento dell'altezza massima di metri tre e ad arretrare i corpi indicati nella medesima relazione di metri 2,35 dal confine sino a raggiungere i dieci metri dalla frontistante proprietà Gr......
Avverso tale sentenza proponevano appello Co...... Anna e Ca..... Luigi; si costituiva il solo Gr..... chiedendo il rigetto del gravame; Pollastro Raffaellina rimaneva contumace. Con sentenza depositata il 1 dicembre 2005, la Corte d'appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, in accoglimento, per quanto di ragione, dell'appello, limitava l'arretramento di metri 2,35 dal confine al solo corpo di fabbrica individuato dalla c.t.u. Cotrone come secondo tratto, retrostante il muro di cinta di tre metri di altezza; rigettava la domanda relativa al terzo tratto indicato nella medesima relazione peritale; in accoglimento della domanda riconvenzionale ordinava al Gr..... di arretrare la conduttura idrica, meglio descritta in motivazione, ad almeno un metro dal confine.
La Corte d'appello riteneva innanzitutto infondato il secondo motivo di impugnazione con il quale gli appellanti avevano dedotto che il Tribunale, disponendo il parziale abbattimento o l'arretramento anche delle parti di edificazione realizzate dopo il deposito della prima consulenza tecnica d'ufficio tra il 1999 e il 2000, avrebbe violato il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, investendo con la statuizione costruzioni diverse da quelle indicate nella citazione introduttiva. In proposito, la Corte d'appello rilevava che l'attore in primo grado aveva espressamente invocato la dichiarazione di illegittimità delle costruzioni eseguite dai convenuti, lungo un ben individuato confine, per tutte quelle parti eseguite in appoggio illegittimo e a distanza illegale e non regolamentare dal confine e dalle frontistanti e preesistenti fabbriche dell'istante, ed aveva chiesto la condanna dei convenuti ad arretrare, mediante abbattimento, tutte tali parti illegittime di costruzione. Osservava quindi che le ulteriori sopraelevazioni del fabbricato e del muro di confine realizzate tra il 1999 e il 2000 altro non rappresentavano se non un mero aumento in senso verticale di quelle strutture già realizzate al momento della proposizione della domanda, sicché doveva concludersi che dalla domanda dell'attore non potevano essere sottratti gli aggravamenti dei lamentati abusi, sopravvenuti in corso di lite, non inducenti in concreto alcun mutamento del fatto costitutivo del diritto fatto valere e del tutto correlabili all'ampio portato della domanda formulata dall'attore.
La Corte d'appello prendeva poi in esame la questione, posta con il primo motivo di gravame, della individuazione della normativa urbanistica applicabile. In proposito rilevava che dal certificato di destinazione urbanistica allegato alla seconda relazione del consulente tecnico di ufficio, emergeva che il regolamento edilizio con annesso programma di fabbricazione era stato adottato dal Comune di Frattamaggiore con deliberazione del dicembre 1956 ed era poi stato approvato con D.M. 31 marzo 1960. In base a tale strumento le particene sulle quali erano collocati gli immobili delle parti ricadevano nella zona industriale, nella quale era prevista una edificabilità abitativa limitata a ben precise ipotesi, e cioè che la richiesta di costruire case ad uso civile abitazione provenisse da proprietari di stabilimenti già sorti o in corso di costruzione e che ne fosse dimostrata la necessità per il migliore rendimento dell'industria in detti stabilimenti esercitata o da esercitare, prevedendosi solo per la costruzione di case popolari un'ampia deroga.
Il giudice d'appello rilevava poi che il piano regolatore adottato nel 197 8 non era mai stato approvato ed escludeva, quindi, che il previgente regolamento edilizio potesse essere stato abrogato per effetto della mera adozione di un nuovo piano regolatore. Solo nel 2001 era infine stato approvato un nuovo strumento urbanistico nel quale le aree in questione erano state incluse in zona B1 (Nuovo Centro); tuttavia, tutte le costruzioni realizzate dagli originari convenuti erano antecedenti all'approvazione dell'ultimo piano regolatore. Da ciò la Corte d'appello traeva la conclusione che nel caso di specie dovesse trovare applicazione il regolamento edilizio del 1960 il quale, per la zona industriale, oltre a prevedere una limitata possibilità di edificazione ad uso civile abitazione, non dettava alcuna disposizione in tema di distanze tra edifici. Ciò comportava, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, l'applicazione della disciplina statale posta dalla L. n. 765 del 1967, art. 17 introduttivo della L. n. 1150 del 1942, art. 41- guinquies e segnatamente della disposizione di cui al comma 1, lett. a), la quale stabiliva che la distanza tra edifici vicini non potesse essere inferiore all'altezza di ciascun fronte degli edifici da costruire. La Corte d'appello richiamava espressamente la pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte n. 9871 del 1994, e condivideva il superamento del diverso orientamento in base al quale si era ritenuto che, in presenza di uno strumento urbanistico carente di prescrizioni in tema di distanze, si sarebbe dovuto fare applicazione dell'art. 873 cod. civ. In particolare la Corte d'appello riteneva che le prescrizioni della legge ponte fossero applicabili anche alla edificazione abitativa limitata consentita dallo strumento urbanistico locale nella zona industriale, ed escludeva che potesse invece farsi applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, il quale all'art. 9 prescriveva in tutti i casi la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, trattandosi di normativa non operante nei rapporti tra privati. Dalla individuazione della normativa urbanistica applicabile discendeva che i convenuti, avendo realizzato il corpo di fabbrica nel "secondo tratto" a un'altezza di 11,20 metri, avrebbero dovuto rispettare tale distanza; tuttavia, non avendo formato oggetto di impugnazione incidentale la statuizione di demolizione contenuta nella sentenza di primo grado, questa doveva essere confermata, contenendosi quindi la statuizione di demolizione nei limiti espressi dal primo giudice. La Corte d'appello accoglieva invece il gravame con riferimento al terzo tratto atteso che le costruzioni realizzate dagli appellanti avevano un'altezza di metri 6,65 e si trovavano ad una distanza di metri 7,65 dal frontistante fabbricato dell'appellato; si trovavano cioè, ad una distanza inferiore a quella massima desumibile dall'art. 17 citato, sicché, in riforma della sentenza di primo grado, doveva per tale edificazione essere rigettata la domanda di demolizione.
La Corte territoriale respingeva anche il motivo di impugnazione concernente l'erroneo rigetto della domanda riconvenzionale relativa allo spostamento dei serbatoi d'acqua, ritenendo che per tali manufatti non operasse la presunzione di pericolosità posta dall'art. 889 cod. civ., essendo invece onere di colui che invoca l'arretramento dal confine provarne la pericolosità in concreto. E tale prova nel caso di specie non era stata offerta.
La Corte d'appello accoglieva infine il motivo di appello relativo alla tubazione in acciaio collocata lungo il muro di separazione tra i due cortili, trovando applicazione l'art. 889 c.c., comma 2, il quale prescrive la distanza di almeno un metro dal confine, presumendo, in via assoluta, la dannosità della conduttura. Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Napoli Co...... Anna e Ca..... Luigi hanno proposto ricorso affidato a quattro motivi, cui ha resistito Gr..... Gaetano con controricorso contenente anche ricorso incidentale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Deve essere preliminarmente disposta la riunione dei due corsi avendo gli stessi ad oggetto la medesima sentenza (art. 335 cod. proc. civ.).
1.1. Ancora in via preliminare si deve rilevare che il ricorso introduttivo del presente giudizio non è stato notificato a Pollastro Raffaellina, che pure era stata parte, ancorché contumace, del giudizio di appello. Tuttavia, poiché il ricorso pone in discussione statuizioni della sentenza impugnata che non concernono la domanda proposta nei confronti della Pollastro dal convenuto Ca..... Luigi, volta a sentir dichiarare la comunione del muro di confine (domanda accolta dal Tribunale e non interessata da alcuna delle censure proposte in appello), il Collegio ritiene che non sussista, nella specie, anche alla luce delle conclusioni alle quali si perverrà sul merito dei motivi formulati dai ricorrenti principali (il ricorso incidentale è invece stato notificato anche alla Pollastro), la necessità della integrazione del contraddittorio nei confronti di quest'ultima, mediante notificazione alla stessa del ricorso.
1.2. Sempre in via preliminare, occorre rilevare che, essendo la sentenza impugnata stata depositata prima del 2 marzo 2006, non è applicabile la disciplina di cui all'art. 366-bis cod. proc. civ.. 2. Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti principali denunciano violazione e falsa applicazione della L. n. 1150 del 1942, art. 41- quinquies e dell'art. 873 cod. civ., nonché vizio di motivazione apparente, insufficiente e contraddittoria su un fatto controverso decisivo per il giudizio.
La censura si riferisce al capo della sentenza impugnata che ha confermato l'ordine di demolizione per metri 2,35 del fabbricato posto alla distanza di metri 7,65 dalla linea di confine, individuato dal c.t.u. come secondo tratto. I ricorrenti sostengono che il presupposto per l'applicazione della L. n. 1150 del 1942, art. 41- quinquies il quale opera solo con riferimento all'edilizia residenziale, è dato dalla assenza nei Comuni di un piano regolatore o di un programma di fabbricazione; sicché ove, come nella specie, si sia in presenza di un programma di fabbricazione, non vi sarebbe spazio per la operatività della citata norma primaria e sarebbe arbitrario estenderne l'ambito applicativo anche al caso in cui il regolamento edilizio non disciplini espressamente le distanze tra edifici e non richiami nemmeno genericamente l'art. 873 cod. civ.. Sotto altro profilo i ricorrenti rilevano che l'area ove sono state effettuate le costruzioni era destinata dal programma di fabbricazione a zona industriale, nella quale non era consentita in assoluto alcuna edificazione a fini residenziali privati; sicché, ai fini della valutazione dell'applicabilità o no della normativa sulle distanze, si sarebbe dovuto avere riguardo non alla destinazione residenziale di fatto delle costruzioni, ma alla destinazione urbanistica prevista dal programma di fabbricazione: il che avrebbe comportato la non applicabilità della detta normativa trovando egualmente applicazione l'art. 873 cod. civ..
I ricorrenti sollecitano comunque un nuovo esame della questione decisa dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 9871 del 1994, sostenendo che la soluzione accolta, di equiparare, quale condizione per l'applicazione dell'art. 41-quinquies, l'assenza di disciplina delle distanze nel regolamento edilizio all'assenza dei piani urbanistici, finirebbe con l'eludere del tutto il disposto normativo che presuppone l'indefettibile carenza dei piani stessi per la diretta applicabilità dell'art. 41-guinguies citato. Sarebbe del resto maggiormente conforme a diritto ritenere che il silenzio serbato dal regolamento edilizio sulla disciplina delle distanze sia imperativamente colmato dall'art. 873 cod. civ. In ogni caso, i ricorrenti sostengono la diretta applicabilità dell'art. 873 nel caso in cui il regolamento edilizio, in presenza anche dello strumento urbanistico in vigore, non disciplini espressamente la materia delle distanze tra costruzioni, là dove, nel silenzio della disciplina regolamentare sulle distanze e nella contestuale assenza dello strumento urbanistico, opererebbe l'articolo 41-quinquies. Del resto, se il regolamento edilizio ha carattere integrativo della disposizione codicistica, e se tale efficacia integrativa non può che esplicarsi quando la fonte regolamentare provveda sulle distanze, ne dovrebbe conseguire che, nel silenzio della disciplina secondaria, debba naturalmente riprendere vigore la fonte primaria non integrata, proprio perché il silenzio sarebbe significativo della volontà della fonte regolamentare di rinviare alla disciplina codicistica sulle distanze.
2.1. Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione dell'art. 112 cod. proc. civ., nonché vizio di motivazione incongruente, insufficiente e contraddittoria, dolendosi del fatto che abbiano formato oggetto dell'ordine di demolizione anche le ulteriori sopraelevazioni del fabbricato e del muro di confine eseguite tra il 1999 e il 2000.
I ricorrenti rilevano in proposito che l'ordine di arretramento è stato ingiunto, per questi manufatti, d'ufficio dal giudice di primo grado, in assenza di domanda di parte. In tal modo, pur non risultando alterata la causa petendi, la sentenza impugnata avrebbe comunque modificato il petitum, attribuendo all'attore un bene non richiesto, aggiuntivo rispetto a quello effettivamente richiesto. Nè una domanda implicita potrebbe ritenersi insita nella generale richiesta di arretramento di tutte le porzioni di fabbricato non a distanza sino al momento della citazione realizzate dai convenuti, atteso che l'attore, con le conclusioni formulate in primo grado, aveva inteso riferirsi alle sole opere esistenti al momento della proposizione della domanda e non certo a quelle futuribili. 2.2. Con il terzo motivo del ricorso principale i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione della L. n. 1150 del 1942, art. 41-quinquies dell'art. 873 cod. civ. e dell'art. 112 cod. proc. civ., nonché vizio di motivazione apparente, incongruente, insufficiente e contraddittoria su un fatto controverso decisivo per il giudizio.
Con tale motivo i ricorrenti censurano il capo di sentenza relativa ai manufatti collocati nel terzo tratto, atteso che la Corte d'appello, pur escludendone la demolizione, è pervenuta alla propria decisione ritenendo erroneamente applicabile la disciplina posta dalla L. n. 1150 del 1942, dall'art. 41-quinquies. In proposito i ricorrenti richiamano le argomentazioni svolte con il primo motivo. 2.3. Con l'ultimo motivo i ricorrenti principali denunciano violazione e falsa applicazione dell'art. 889 cod. civ., nonché motivazione apparente, insufficiente e contraddittoria con riferimento al rigetto della domanda riconvenzionale avente ad oggetto la richiesta di arretramento dei serbatoi d'acqua con pompa autoclave collocati dal Gr..... lungo la linea di confine. Sostengono che l'affermazione della Corte d'appello, secondo cui non era stata fornita la prova della pericolosità di tali serbatoi, sarebbe errata e non troverebbe riscontro nell'art. 889 cod. civ., il quale stabilisce distanze dal confine per pozzi, cisterne, fossi e tubi presumendo in assoluto la loro pericolosità, non essendo affatto codificato che in tema di serbatoi, assimilabili alle cisterne, debba essere in concreto provata la loro pericolosità. 3. Con l'unico motivo del ricorso incidentale il controricorrente chiede che venga dichiarata la cessazione della materia del contendere con riferimento alla statuizione della sentenza impugnata concernente la rimozione della tubatura, affermando che questa è stata medio tempore effettuata.
4. Il primo motivo del ricorso principale è infondato, in quanto la Corte d'appello ha fatto corretta applicazione dei principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, anche a Sezioni Unite, e dai quali non vi è ragione di discostarsi.
4.1. Occorre rilevare che non sono censurate alcune delle premesse sulle quali la Corte d'appello ha fondato il proprio iter argomentativo, e segnatamente quella secondo cui, ai fini della verifica della osservanza della normativa urbanistica applicabile deve aversi riguardo a quella in vigore al momento in cui la costruzione viene realizzata.
Siffatta premessa, pur se non censurata, merita di essere corretta, in quanto, se è vero che nella giurisprudenza di questa Corte si trova effettivamente affermato il principio richiamato dalla Corte d'appello (l'attività edilizia è regolata dalla legge vigente nel momento in cui essa è realizzata: Cass. n. 4799 del 1992; in tema di edilizia quando nel tempo si succedono una pluralità di norme regolatrici, la legittimità o meno di ciascuna attività edificatoria e le relative conseguenze vanno accertate con riferimento alla normativa vigente all'epoca della realizzazione dell'attività stessa: Cass. n. 3771 del 2001), è altrettanto vero che con tale principio concorre quello per cui In tema di distanze legali nelle costruzioni, qualora sopravvenga una disciplina normativa meno restrittiva, l'edificio in contrasto con la regolamentazione in vigore al momento della sua ultimazione, ma conforme alla nuova, non può più essere ritenuto illegittimo, cosicché il confinante non può pretendere l'abbattimento o, comunque, la riduzione alle dimensioni previste dalle norme vigenti al momento della sua costruzione. Tale effetto non deriva dalla retroattività delle nuove norme - di regola esclusa dall'art. 11 preleggi - ma dal fatto che, pur rimanendo sussistente l'illecito di chi abbia costruito in violazione di norme giuridiche allora vigenti e la sua responsabilità per i danni subiti dal confinante fino all'entrata in vigore della normativa meno restrittiva, viene però meno l'illegittimità della situazione di fatto determinatasi con la costruzione, essendo questa conforme alla normativa successiva e, quindi, del tutto identica a quella delle costruzioni realizzate dopo la sua entrata in vigore (Cass. n. 1368 del 1996; Cass. n. 8512 del 2003; Cass. n. 14446 del 2010).
Nella specie deve tuttavia rilevarsi che la conclusione cui è pervenuta la Corte d'appello, di scrutinare tutti gli interventi edilizi posti in essere dagli odierni ricorrenti principali alla luce della normativa recata dal programma di fabbricazione del 1956, come integrato dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41-quinquies e non anche alla luce della normativa regolamentare in vigore al momento della decisione, così come invece ha fatto il Tribunale, risulta priva di rilevanza, atteso che, quanto alle edificazioni comprese nel secondo tratto, la Corte d'appello ha rilevato che non vi era appello incidentale, sicché la distanza di dieci metri, ritenuta applicabile dal Tribunale, non poteva essere messa in discussione e incrementata sino a raggiungere l'altezza del fabbricato come realizzato, pari a metri 11,20 (come invece si sarebbe dovuto fare sulla base della normativa ritenuta applicabile dalla Corte d'appello); e che, quanto alle edificazioni comprese nel terzo tratto, la Corte ha riformato la sentenza del Tribunale, escludendo l'arretramento delle edificazioni in quanto collocate ad una distanza inferiore all'altezza dei fabbricati, laddove invece il Tribunale, in applicazione della normativa successiva, aveva ritenuto operante una distanza di dieci metri tra i fabbricati.
4.2. Non censurata è altresì l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui gli edifici delle parti del presente giudizio ricadevano, secondo il regolamento edilizio del 1960, in "zona industriale", e cioè in una zona per la quale lo strumento urbanistico prevedeva una limitata possibilità di edificazione "ad uso civili abitazioni", senza dettare alcuna disposizione in tema di distanze tra edifici.
4.3. Orbene, proprio prendendo le mosse da tale accertamento non censurato, si deve rilevare che correttamente la Corte d'appello ha argomentato la applicabilità, nel caso di specie, della L. n. 1150 del 1942, art. 41-quinquies introdotto dalla L. n. 765 del 1967, art. 17.
La Corte territoriale ha invero aderito all'indirizzo espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui in tema di distanze legali, al fine di escludere l'applicabilità delle limitazioni previste dall'art. 17 della c.d. "legge ponte" 6 agosto 1967, n. 765, è necessario che il regolamento edilizio provveda direttamente sulle distanze, in quanto solo in tal caso viene meno l'esigenza dell'indicata norma suppletiva, la cui finalità è d'impedire che, in mancanza di regole urbanistiche, l'attività costruttiva si svolga senza rispetto del decoro edilizio, dell'igiene e della salubrità indispensabili per l'ordinato sviluppo del territorio. Pertanto, qualora il regolamento edilizio sia privo di disposizioni sulle distanze legali, devono applicarsi quelle previste dall'art. 17 legge cit., non già la disciplina dell'art. 873 cod. civ. (Cass., S.U., n. 9871 del 1994; in senso conforme, Cass., S.U., n. 11489 del 2002;
Cass. n. 14264 del 2005; Cass. n. 7275 del 2006).
Con la sentenza del 1994 le Sezioni unite hanno disatteso l'orientamento secondo cui l'operatività della L. n. 765 del 1967, art. 17 doveva ritenersi subordinata alla mancanza degli strumenti urbanistici ai quali la norma stessa si riferiva e secondo cui, pertanto, per la sua disapplicazione sarebbe stato sufficiente che il Comune avesse un regolamento edilizio, anche non disciplinante la materia delle distanze, dovendo presumersi da esso prescritta la medesima distanza stabilita dall'art. 873 c.c., in quanto, a causa del suo silenzio, tale regolamento doveva equipararsi a quello che prevedesse un rinvio generico a detta disposizione o ne adottasse formalmente il contenuto.
Le Sezioni Unite hanno escluso di poter condividere tale orientamento, sia perché lo stesso non indicava le ragioni per le quali, in difetto di disposizioni sulle distanze, dovesse presumersi che con il regolamento edilizio si fosse imposta la medesima disciplina del codice civile con un richiamo implicito di una norma (art. 873 cod. civ.), già operante per forza propria in assenza di deroghe speciali, sia perché poneva arbitrariamente sullo stesso piano il regolamento che nulla prescrive in materia di distanze e quello che le disciplina, anche se con un rinvio generico alla norma codicistica o con l'appropriazione del suo contenuto. Le Sezioni Unite hanno, perciò, ritenuto corretto l'altro orientamento, secondo cui costituisce impedimento all'applicazione delle limitazioni dell'art. 17 il regolamento che provveda direttamente sulle distanze, giacché soltanto in tal caso viene meno l'esigenza della norma suppletiva (art. 17) la cui finalità è quella d'impedire che, in mancanza di regole urbanistiche, l'attività costruttiva si svolga disordinatamente senza il rispetto del decoro edilizio, dell'igiene e della salubrità, indispensabili per l'ordinato sviluppo del territorio comunale.
4.3.1. Le argomentazioni sulla base delle quali i ricorrenti principali sollecitano una rivisitazione di tale principio non appaiono meritevoli di condivisione, risolvendosi esse nelle stesse ragioni espresse a fondamento del principio che le Sezioni Unite, risolvendo il contrasto, hanno invece disatteso.
4.4. Correttamente la Corte d'appello ha altresì ritenuto applicabile la disposizione di cui alla L. n. 1150 del 1942, art. 41- quinquies anche alla concreta fattispecie oggetto di giudizio. Si è rilevato che non è controverso tra le parti il fatto che gli edifici ricadevano in zona industriale, e cioè in una zona nella quale l'edificazione a civile abitazione era esclusa in linea di principio, salvo essere ammessa in limitatissime ipotesi, pacificamente non ricorrenti nella specie.
Orbene, l'assunto dei ricorrenti principali è che riferendosi l'art. 41-quinquies all'edilizia residenziale, lo stesso non potesse trovare applicazione con riferimento ad una edificazione avvenuta in zona industriale. Ad avviso dei ricorrenti, dovrebbe quindi aversi riguardo alla destinazione dello strumento urbanistico e non anche alla situazione di fatto, con la conseguenza che, in tale ultima ipotesi, la distanza tra edifici avrebbe dovuto essere individuata in quella dettata dal codice civile, e quindi determinata in tre metri:
distanza, questa, nel caso di specie osservata.
L'assunto dei ricorrenti principali non può però essere condiviso. La L. n. 675 del 1967, art. 17 con il quale è stato introdotto l'art. 41-quinquies nella L. n. 1150 del 1942, prevedeva infatti che nei comuni sprovvisti di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione, la edificazione a scopo residenziale è soggetta alle seguenti limitazioni: (....) c) l'altezza di ogni edificio non può essere superiore alla larghezza degli spazi pubblici o privati su cui esso prospetta e la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da costruire (...). Come è reso evidente dalla lettera della disposizione, essa si riferisce allo scopo della edificazione, e ha riguardo a quella residenziale, non anche alla localizzazione della edificazione in una piuttosto che in altra zona del territorio comunale. Correttamente, quindi, la Corte d'appello ha ritenuto che al caso di specie dovesse essere applicata la disciplina di cui al richiamato art. 41- quinquies, anche se, in mancanza di appello incidentale, non poteva farne applicazione in tutte le sue potenzialità (e cioè disponendo l'arretramento per una misura tale da raggiungere una distanza pari all'altezza degli edifici: nella specie, 11,20 metri). La pretesa dei ricorrenti non può in alcun modo essere condivisa anche perché, ove si seguisse il ragionamento posto a fondamento del secondo profilo del primo motivo di ricorso, si dovrebbe consentire che un intervento edilizio illecito, in quanto effettuato in una zona che non consentiva un insediamento residenziale, potesse essere assoggettato ad una disciplina meno rigorosa di quella applicabile per edificazioni effettuate in zone del territorio comunale espressamente destinate ad edilizia residenziale. Ma, come rilevato, la lettera del citato art. 41-quinquies non consente una simile lettura, trovando quindi applicazione la disciplina delle distanze in esso prevista in tutti i casi di edificazione a scopo residenziale, ancorché realizzata in zona del territorio con una vocazione non residenziale.
Il primo motivo del ricorso principale deve quindi essere rigettato. 5. Il secondo motivo è infondato.
Come rilevato dalla Corte d'appello, l'originario attore aveva espressamente chiesto la dichiarazione di illegittimità delle costruzioni eseguite dai convenuti per tutte quelle parti eseguite in appoggio illegittimo ed a distanza illegale e non regolamentare dal confine e delle frontistanti e preesistenti fabbriche dell'istante, nonché di condannare i convenuti in solido ad arretrare, mediante abbattimento, tutte tali parti illegittime di costruzione. Sulla base di tale rilievo, la Corte d'appello ha quindi ritenuto che le costruzioni ulteriori eseguite dai convenuti nel corso del giudizio di primo grado altro non costituissero, perché effettuate in sopraelevazione rispetto a quelle già eseguite al momento della proposizione della domanda, che ®un mero aumento in senso verticale di quelle strutture già realizzate al momento della proposizione dell'attorea domanda ed ha tratto la conclusione della insussistenza del denunciato vizio di extra o ultrapetizione, affermando che dalla pretesa azionata dal Gr..... non potevano sottrarsi quegli aggravamenti dei lamentati abusi sopravvenuti lite pendente, non involgenti in concreto alcun mutamento del fatto costitutivo del diritto fatto valere risultando correlati all'ampio portato della domanda (di accertamento e di condanna) formulata fa parte attrice. Tale iter argomentativo si sottrae alle censure proposte dai ricorrenti, dovendosi altresì rilevare che la tesi svolta nel ricorso non tiene conto del fatto che la costruzione realizzata prima della domanda non cessa di essere illecita - per violazione di una normativa che, come nella specie, determini la distanza tra fabbricati con riferimento all'altezza degli stessi - ove venga ulteriormente elevata in corso di causa.
6. Il terzo motivo del ricorso principale è inammissibile per carenza di interesse.
La censura ha infatti ad oggetto il capo della sentenza impugnata che, accogliendo il motivo di gravame, ha eliminato la condanna all'arretramento dell'edificio nella parte relativa al "terzo tratto". La reiezione del primo motivo impone poi di escludere la sussistenza di interesse a coltivare l'impugnazione, dichiaratamente proposta per ragioni di coerenza con la censura contenuta nel primo motivo.
7. Il quarto motivo del ricorso principale è infondato. La Corte d'appello, nel rigettare il motivo di gravame avente ad oggetto la reiezione della domanda riconvenzionale degli odierni ricorrenti volta all'arretramento dei due serbatoi di acqua collocati a ridosso del muro di cinta, ha fatto applicazione del principio secondo cui l'obbligo del rispetto delle distanze previsto per pozzi, cisterne e tubi può essere affermato anche per le opere non espressamente contemplate dalla norma dell'art. 889 cod. civ. (nella specie serbatoio), ma soltanto se sia accertata in concreto, sulla base delle loro peculiari caratteristiche, l'esistenza di una uguale potenzialità dannosa che imponga una parità di trattamento (Cass. n. 3642 del 1986). La Corte ha quindi escluso che i serbatoi di acqua fossero assimilabili alle opere di cui all'art. 889 cod. civ., ed ha infine rilevato che gli appellanti non avevano in alcun modo offerto la prova della pericolosità dei serbatoi in questione, indicando altresì quali avrebbero potuto essere gli indici di pericolosità in concreto rilevanti nella specie.
Orbene, con il motivo in esame i ricorrenti principali si limitano ad affermare che anche per i serbatoi di acqua la pericolosità dovrebbe ritenersi presunta, chiedendo sostanzialmente l'estensione della disciplina relativa alle cisterne, ai pozzi e ai tubi, senza tuttavia censurare la ratio decidendi della sentenza impugnata, consistente nella diversità, per struttura e funzione, dei serbatoi rispetto alle opere di cui all'art. 889 cod. civ. e alla mancanza di prova in ordine alla pericolosità in concreto dei manufatti in questione. 8. Il ricorso incidentale è inammissibile.
Il ricorrente incidentale, invero, si limita a sollecitare una dichiarazione di cessazione della materia del contendere in ordine alla statuizione della sentenza impugnata concernente la questione dei serbato di acqua, assumendo di avere provveduto alla loro rimozione, ma non svolge alcuna censura alla sentenza sul punto. Orbene, nel mentre deve escludersi che possa in questa sede essere dichiarata cessata la materia del contendere, postulando una simile pronuncia una concorde valutazione da parte dei contendenti - nella specie insussistente - e postulando comunque il relativo accertamento indagini di fatto precluse in questa sede, si deve rilevare che l'atto denominato "controricorso per cassazione con ricorso incidentale" in realtà è del tutto privo di motivi di impugnazione, ed è quindi inammissibile.
9. In conclusione, il ricorso principale va rigettato e quello incidentale dichiarato inammissibile.
In applicazione del principio della soccombenza, i ricorrenti principali devono essere condannati, in solido tra loro, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il principale, dichiara inammissibile l'incidentale; condanna i ricorrenti principali, in solido tra loro, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 4.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte suprema di Cassazione, il 27 marzo 2012. Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2013
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 3 febbraio 19 96, Gr..... Gaetano conveniva in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Napoli, Ca..... Luigi e Co...... Anna, chiedendo, per quanto ancora rileva, che venisse dichiarata l'illegittimità delle costruzioni eseguite dai convenuti per tutte quelle parti realizzate in appoggio illegittimo e a distanza illegale e non regolamentare dal confine e dalle frontistanti e preesistenti fabbriche di esso attore; che i convenuti fossero condannati, in solido tra loro, ad arretrare, mediante abbattimento, tutte le parti illegittime di costruzione, nonché al risarcimento dei danni da liquidarsi in corso di causa, con vittoria di spese.
Si costituivano Ca..... Luigi e Co...... Anna contestando l'applicabilità nel caso di specie del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, eccependo la comunione del muro di confine, posto che la loro dante causa Ca..... Marianna aveva ceduto il suolo per venticinque centimetri per la costruzione dello stesso e che era intercorsa tra essi convenuti e l'allora proprietario del fondo confinante. Pollastro Raffaelina, una convenzione volta appunto a rendere comune il muro di confine. I convenuti chiedevano di essere autorizzati a chiamare in causa la Pollastro, ai fini della convalida della convenzione, e proponevano domanda riconvenzionale volta ad ottenere l'arretramento a due metri dal confine delle due cisterne collocate dall'attore sul confine e l'eliminazione, o almeno l'arretramento a un metro dal confine, dei tubi di conduttura idrica siti lungo il confine.
Istruita la causa a mezzo di due consulenze tecniche e di assunzione della prova testimoniale, l'adito Tribunale di Napoli, dichiarata la comunione del muro di confine, rigettava per difetto di prova le domande riconvenzionali. Quanto alle domande degli attori, il Tribunale, dopo avere evidenziato che successivamente al deposito della prima consulenza tecnica i convenuti avevano realizzato ulteriore attività edilizia, rilevava che all'epoca del rilascio delle autorizzazioni amministrative ai convenuti lo strumento urbanistico vigente era rappresentato dal PRG adottato con Delib. 6 gennaio 1999 e definitivamente approvato il 7 novembre 2001; che in base a detto piano gli immobili oggetto di causa ricadevano nella zona B1 (Nuovo Centro) e che l'art. 6 delle norme di attuazione prevedeva una distanza di metri dieci; accertava quindi che le nuove edificazioni realizzate dai convenuti violavano lo strumento urbanistico vigente, il D.M. n. 1444 del 1968 e l'art. 876 cod. civ., non essendo stata rispettata la distanza legale di dieci metri dal fabbricato frontistante. Quanto alle iniziali edificazioni, il Tribunale riteneva che le stesse fossero assoggettate al PRG adottato con delibera del 5 maggio 1978, e che fossero operanti i limiti di distanza disposti dal citato decreto ministeriale. Condannava quindi i convenuti ad abbattere il muro di cinta secondo le indicazioni contenute nella c.t.u. Cotrone sino al raggiungimento dell'altezza massima di metri tre e ad arretrare i corpi indicati nella medesima relazione di metri 2,35 dal confine sino a raggiungere i dieci metri dalla frontistante proprietà Gr......
Avverso tale sentenza proponevano appello Co...... Anna e Ca..... Luigi; si costituiva il solo Gr..... chiedendo il rigetto del gravame; Pollastro Raffaellina rimaneva contumace. Con sentenza depositata il 1 dicembre 2005, la Corte d'appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, in accoglimento, per quanto di ragione, dell'appello, limitava l'arretramento di metri 2,35 dal confine al solo corpo di fabbrica individuato dalla c.t.u. Cotrone come secondo tratto, retrostante il muro di cinta di tre metri di altezza; rigettava la domanda relativa al terzo tratto indicato nella medesima relazione peritale; in accoglimento della domanda riconvenzionale ordinava al Gr..... di arretrare la conduttura idrica, meglio descritta in motivazione, ad almeno un metro dal confine.
La Corte d'appello riteneva innanzitutto infondato il secondo motivo di impugnazione con il quale gli appellanti avevano dedotto che il Tribunale, disponendo il parziale abbattimento o l'arretramento anche delle parti di edificazione realizzate dopo il deposito della prima consulenza tecnica d'ufficio tra il 1999 e il 2000, avrebbe violato il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, investendo con la statuizione costruzioni diverse da quelle indicate nella citazione introduttiva. In proposito, la Corte d'appello rilevava che l'attore in primo grado aveva espressamente invocato la dichiarazione di illegittimità delle costruzioni eseguite dai convenuti, lungo un ben individuato confine, per tutte quelle parti eseguite in appoggio illegittimo e a distanza illegale e non regolamentare dal confine e dalle frontistanti e preesistenti fabbriche dell'istante, ed aveva chiesto la condanna dei convenuti ad arretrare, mediante abbattimento, tutte tali parti illegittime di costruzione. Osservava quindi che le ulteriori sopraelevazioni del fabbricato e del muro di confine realizzate tra il 1999 e il 2000 altro non rappresentavano se non un mero aumento in senso verticale di quelle strutture già realizzate al momento della proposizione della domanda, sicché doveva concludersi che dalla domanda dell'attore non potevano essere sottratti gli aggravamenti dei lamentati abusi, sopravvenuti in corso di lite, non inducenti in concreto alcun mutamento del fatto costitutivo del diritto fatto valere e del tutto correlabili all'ampio portato della domanda formulata dall'attore.
La Corte d'appello prendeva poi in esame la questione, posta con il primo motivo di gravame, della individuazione della normativa urbanistica applicabile. In proposito rilevava che dal certificato di destinazione urbanistica allegato alla seconda relazione del consulente tecnico di ufficio, emergeva che il regolamento edilizio con annesso programma di fabbricazione era stato adottato dal Comune di Frattamaggiore con deliberazione del dicembre 1956 ed era poi stato approvato con D.M. 31 marzo 1960. In base a tale strumento le particene sulle quali erano collocati gli immobili delle parti ricadevano nella zona industriale, nella quale era prevista una edificabilità abitativa limitata a ben precise ipotesi, e cioè che la richiesta di costruire case ad uso civile abitazione provenisse da proprietari di stabilimenti già sorti o in corso di costruzione e che ne fosse dimostrata la necessità per il migliore rendimento dell'industria in detti stabilimenti esercitata o da esercitare, prevedendosi solo per la costruzione di case popolari un'ampia deroga.
Il giudice d'appello rilevava poi che il piano regolatore adottato nel 197 8 non era mai stato approvato ed escludeva, quindi, che il previgente regolamento edilizio potesse essere stato abrogato per effetto della mera adozione di un nuovo piano regolatore. Solo nel 2001 era infine stato approvato un nuovo strumento urbanistico nel quale le aree in questione erano state incluse in zona B1 (Nuovo Centro); tuttavia, tutte le costruzioni realizzate dagli originari convenuti erano antecedenti all'approvazione dell'ultimo piano regolatore. Da ciò la Corte d'appello traeva la conclusione che nel caso di specie dovesse trovare applicazione il regolamento edilizio del 1960 il quale, per la zona industriale, oltre a prevedere una limitata possibilità di edificazione ad uso civile abitazione, non dettava alcuna disposizione in tema di distanze tra edifici. Ciò comportava, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, l'applicazione della disciplina statale posta dalla L. n. 765 del 1967, art. 17 introduttivo della L. n. 1150 del 1942, art. 41- guinquies e segnatamente della disposizione di cui al comma 1, lett. a), la quale stabiliva che la distanza tra edifici vicini non potesse essere inferiore all'altezza di ciascun fronte degli edifici da costruire. La Corte d'appello richiamava espressamente la pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte n. 9871 del 1994, e condivideva il superamento del diverso orientamento in base al quale si era ritenuto che, in presenza di uno strumento urbanistico carente di prescrizioni in tema di distanze, si sarebbe dovuto fare applicazione dell'art. 873 cod. civ. In particolare la Corte d'appello riteneva che le prescrizioni della legge ponte fossero applicabili anche alla edificazione abitativa limitata consentita dallo strumento urbanistico locale nella zona industriale, ed escludeva che potesse invece farsi applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, il quale all'art. 9 prescriveva in tutti i casi la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, trattandosi di normativa non operante nei rapporti tra privati. Dalla individuazione della normativa urbanistica applicabile discendeva che i convenuti, avendo realizzato il corpo di fabbrica nel "secondo tratto" a un'altezza di 11,20 metri, avrebbero dovuto rispettare tale distanza; tuttavia, non avendo formato oggetto di impugnazione incidentale la statuizione di demolizione contenuta nella sentenza di primo grado, questa doveva essere confermata, contenendosi quindi la statuizione di demolizione nei limiti espressi dal primo giudice. La Corte d'appello accoglieva invece il gravame con riferimento al terzo tratto atteso che le costruzioni realizzate dagli appellanti avevano un'altezza di metri 6,65 e si trovavano ad una distanza di metri 7,65 dal frontistante fabbricato dell'appellato; si trovavano cioè, ad una distanza inferiore a quella massima desumibile dall'art. 17 citato, sicché, in riforma della sentenza di primo grado, doveva per tale edificazione essere rigettata la domanda di demolizione.
La Corte territoriale respingeva anche il motivo di impugnazione concernente l'erroneo rigetto della domanda riconvenzionale relativa allo spostamento dei serbatoi d'acqua, ritenendo che per tali manufatti non operasse la presunzione di pericolosità posta dall'art. 889 cod. civ., essendo invece onere di colui che invoca l'arretramento dal confine provarne la pericolosità in concreto. E tale prova nel caso di specie non era stata offerta.
La Corte d'appello accoglieva infine il motivo di appello relativo alla tubazione in acciaio collocata lungo il muro di separazione tra i due cortili, trovando applicazione l'art. 889 c.c., comma 2, il quale prescrive la distanza di almeno un metro dal confine, presumendo, in via assoluta, la dannosità della conduttura. Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Napoli Co...... Anna e Ca..... Luigi hanno proposto ricorso affidato a quattro motivi, cui ha resistito Gr..... Gaetano con controricorso contenente anche ricorso incidentale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Deve essere preliminarmente disposta la riunione dei due corsi avendo gli stessi ad oggetto la medesima sentenza (art. 335 cod. proc. civ.).
1.1. Ancora in via preliminare si deve rilevare che il ricorso introduttivo del presente giudizio non è stato notificato a Pollastro Raffaellina, che pure era stata parte, ancorché contumace, del giudizio di appello. Tuttavia, poiché il ricorso pone in discussione statuizioni della sentenza impugnata che non concernono la domanda proposta nei confronti della Pollastro dal convenuto Ca..... Luigi, volta a sentir dichiarare la comunione del muro di confine (domanda accolta dal Tribunale e non interessata da alcuna delle censure proposte in appello), il Collegio ritiene che non sussista, nella specie, anche alla luce delle conclusioni alle quali si perverrà sul merito dei motivi formulati dai ricorrenti principali (il ricorso incidentale è invece stato notificato anche alla Pollastro), la necessità della integrazione del contraddittorio nei confronti di quest'ultima, mediante notificazione alla stessa del ricorso.
1.2. Sempre in via preliminare, occorre rilevare che, essendo la sentenza impugnata stata depositata prima del 2 marzo 2006, non è applicabile la disciplina di cui all'art. 366-bis cod. proc. civ.. 2. Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti principali denunciano violazione e falsa applicazione della L. n. 1150 del 1942, art. 41- quinquies e dell'art. 873 cod. civ., nonché vizio di motivazione apparente, insufficiente e contraddittoria su un fatto controverso decisivo per il giudizio.
La censura si riferisce al capo della sentenza impugnata che ha confermato l'ordine di demolizione per metri 2,35 del fabbricato posto alla distanza di metri 7,65 dalla linea di confine, individuato dal c.t.u. come secondo tratto. I ricorrenti sostengono che il presupposto per l'applicazione della L. n. 1150 del 1942, art. 41- quinquies il quale opera solo con riferimento all'edilizia residenziale, è dato dalla assenza nei Comuni di un piano regolatore o di un programma di fabbricazione; sicché ove, come nella specie, si sia in presenza di un programma di fabbricazione, non vi sarebbe spazio per la operatività della citata norma primaria e sarebbe arbitrario estenderne l'ambito applicativo anche al caso in cui il regolamento edilizio non disciplini espressamente le distanze tra edifici e non richiami nemmeno genericamente l'art. 873 cod. civ.. Sotto altro profilo i ricorrenti rilevano che l'area ove sono state effettuate le costruzioni era destinata dal programma di fabbricazione a zona industriale, nella quale non era consentita in assoluto alcuna edificazione a fini residenziali privati; sicché, ai fini della valutazione dell'applicabilità o no della normativa sulle distanze, si sarebbe dovuto avere riguardo non alla destinazione residenziale di fatto delle costruzioni, ma alla destinazione urbanistica prevista dal programma di fabbricazione: il che avrebbe comportato la non applicabilità della detta normativa trovando egualmente applicazione l'art. 873 cod. civ..
I ricorrenti sollecitano comunque un nuovo esame della questione decisa dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 9871 del 1994, sostenendo che la soluzione accolta, di equiparare, quale condizione per l'applicazione dell'art. 41-quinquies, l'assenza di disciplina delle distanze nel regolamento edilizio all'assenza dei piani urbanistici, finirebbe con l'eludere del tutto il disposto normativo che presuppone l'indefettibile carenza dei piani stessi per la diretta applicabilità dell'art. 41-guinguies citato. Sarebbe del resto maggiormente conforme a diritto ritenere che il silenzio serbato dal regolamento edilizio sulla disciplina delle distanze sia imperativamente colmato dall'art. 873 cod. civ. In ogni caso, i ricorrenti sostengono la diretta applicabilità dell'art. 873 nel caso in cui il regolamento edilizio, in presenza anche dello strumento urbanistico in vigore, non disciplini espressamente la materia delle distanze tra costruzioni, là dove, nel silenzio della disciplina regolamentare sulle distanze e nella contestuale assenza dello strumento urbanistico, opererebbe l'articolo 41-quinquies. Del resto, se il regolamento edilizio ha carattere integrativo della disposizione codicistica, e se tale efficacia integrativa non può che esplicarsi quando la fonte regolamentare provveda sulle distanze, ne dovrebbe conseguire che, nel silenzio della disciplina secondaria, debba naturalmente riprendere vigore la fonte primaria non integrata, proprio perché il silenzio sarebbe significativo della volontà della fonte regolamentare di rinviare alla disciplina codicistica sulle distanze.
2.1. Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione dell'art. 112 cod. proc. civ., nonché vizio di motivazione incongruente, insufficiente e contraddittoria, dolendosi del fatto che abbiano formato oggetto dell'ordine di demolizione anche le ulteriori sopraelevazioni del fabbricato e del muro di confine eseguite tra il 1999 e il 2000.
I ricorrenti rilevano in proposito che l'ordine di arretramento è stato ingiunto, per questi manufatti, d'ufficio dal giudice di primo grado, in assenza di domanda di parte. In tal modo, pur non risultando alterata la causa petendi, la sentenza impugnata avrebbe comunque modificato il petitum, attribuendo all'attore un bene non richiesto, aggiuntivo rispetto a quello effettivamente richiesto. Nè una domanda implicita potrebbe ritenersi insita nella generale richiesta di arretramento di tutte le porzioni di fabbricato non a distanza sino al momento della citazione realizzate dai convenuti, atteso che l'attore, con le conclusioni formulate in primo grado, aveva inteso riferirsi alle sole opere esistenti al momento della proposizione della domanda e non certo a quelle futuribili. 2.2. Con il terzo motivo del ricorso principale i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione della L. n. 1150 del 1942, art. 41-quinquies dell'art. 873 cod. civ. e dell'art. 112 cod. proc. civ., nonché vizio di motivazione apparente, incongruente, insufficiente e contraddittoria su un fatto controverso decisivo per il giudizio.
Con tale motivo i ricorrenti censurano il capo di sentenza relativa ai manufatti collocati nel terzo tratto, atteso che la Corte d'appello, pur escludendone la demolizione, è pervenuta alla propria decisione ritenendo erroneamente applicabile la disciplina posta dalla L. n. 1150 del 1942, dall'art. 41-quinquies. In proposito i ricorrenti richiamano le argomentazioni svolte con il primo motivo. 2.3. Con l'ultimo motivo i ricorrenti principali denunciano violazione e falsa applicazione dell'art. 889 cod. civ., nonché motivazione apparente, insufficiente e contraddittoria con riferimento al rigetto della domanda riconvenzionale avente ad oggetto la richiesta di arretramento dei serbatoi d'acqua con pompa autoclave collocati dal Gr..... lungo la linea di confine. Sostengono che l'affermazione della Corte d'appello, secondo cui non era stata fornita la prova della pericolosità di tali serbatoi, sarebbe errata e non troverebbe riscontro nell'art. 889 cod. civ., il quale stabilisce distanze dal confine per pozzi, cisterne, fossi e tubi presumendo in assoluto la loro pericolosità, non essendo affatto codificato che in tema di serbatoi, assimilabili alle cisterne, debba essere in concreto provata la loro pericolosità. 3. Con l'unico motivo del ricorso incidentale il controricorrente chiede che venga dichiarata la cessazione della materia del contendere con riferimento alla statuizione della sentenza impugnata concernente la rimozione della tubatura, affermando che questa è stata medio tempore effettuata.
4. Il primo motivo del ricorso principale è infondato, in quanto la Corte d'appello ha fatto corretta applicazione dei principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, anche a Sezioni Unite, e dai quali non vi è ragione di discostarsi.
4.1. Occorre rilevare che non sono censurate alcune delle premesse sulle quali la Corte d'appello ha fondato il proprio iter argomentativo, e segnatamente quella secondo cui, ai fini della verifica della osservanza della normativa urbanistica applicabile deve aversi riguardo a quella in vigore al momento in cui la costruzione viene realizzata.
Siffatta premessa, pur se non censurata, merita di essere corretta, in quanto, se è vero che nella giurisprudenza di questa Corte si trova effettivamente affermato il principio richiamato dalla Corte d'appello (l'attività edilizia è regolata dalla legge vigente nel momento in cui essa è realizzata: Cass. n. 4799 del 1992; in tema di edilizia quando nel tempo si succedono una pluralità di norme regolatrici, la legittimità o meno di ciascuna attività edificatoria e le relative conseguenze vanno accertate con riferimento alla normativa vigente all'epoca della realizzazione dell'attività stessa: Cass. n. 3771 del 2001), è altrettanto vero che con tale principio concorre quello per cui In tema di distanze legali nelle costruzioni, qualora sopravvenga una disciplina normativa meno restrittiva, l'edificio in contrasto con la regolamentazione in vigore al momento della sua ultimazione, ma conforme alla nuova, non può più essere ritenuto illegittimo, cosicché il confinante non può pretendere l'abbattimento o, comunque, la riduzione alle dimensioni previste dalle norme vigenti al momento della sua costruzione. Tale effetto non deriva dalla retroattività delle nuove norme - di regola esclusa dall'art. 11 preleggi - ma dal fatto che, pur rimanendo sussistente l'illecito di chi abbia costruito in violazione di norme giuridiche allora vigenti e la sua responsabilità per i danni subiti dal confinante fino all'entrata in vigore della normativa meno restrittiva, viene però meno l'illegittimità della situazione di fatto determinatasi con la costruzione, essendo questa conforme alla normativa successiva e, quindi, del tutto identica a quella delle costruzioni realizzate dopo la sua entrata in vigore (Cass. n. 1368 del 1996; Cass. n. 8512 del 2003; Cass. n. 14446 del 2010).
Nella specie deve tuttavia rilevarsi che la conclusione cui è pervenuta la Corte d'appello, di scrutinare tutti gli interventi edilizi posti in essere dagli odierni ricorrenti principali alla luce della normativa recata dal programma di fabbricazione del 1956, come integrato dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41-quinquies e non anche alla luce della normativa regolamentare in vigore al momento della decisione, così come invece ha fatto il Tribunale, risulta priva di rilevanza, atteso che, quanto alle edificazioni comprese nel secondo tratto, la Corte d'appello ha rilevato che non vi era appello incidentale, sicché la distanza di dieci metri, ritenuta applicabile dal Tribunale, non poteva essere messa in discussione e incrementata sino a raggiungere l'altezza del fabbricato come realizzato, pari a metri 11,20 (come invece si sarebbe dovuto fare sulla base della normativa ritenuta applicabile dalla Corte d'appello); e che, quanto alle edificazioni comprese nel terzo tratto, la Corte ha riformato la sentenza del Tribunale, escludendo l'arretramento delle edificazioni in quanto collocate ad una distanza inferiore all'altezza dei fabbricati, laddove invece il Tribunale, in applicazione della normativa successiva, aveva ritenuto operante una distanza di dieci metri tra i fabbricati.
4.2. Non censurata è altresì l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui gli edifici delle parti del presente giudizio ricadevano, secondo il regolamento edilizio del 1960, in "zona industriale", e cioè in una zona per la quale lo strumento urbanistico prevedeva una limitata possibilità di edificazione "ad uso civili abitazioni", senza dettare alcuna disposizione in tema di distanze tra edifici.
4.3. Orbene, proprio prendendo le mosse da tale accertamento non censurato, si deve rilevare che correttamente la Corte d'appello ha argomentato la applicabilità, nel caso di specie, della L. n. 1150 del 1942, art. 41-quinquies introdotto dalla L. n. 765 del 1967, art. 17.
La Corte territoriale ha invero aderito all'indirizzo espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui in tema di distanze legali, al fine di escludere l'applicabilità delle limitazioni previste dall'art. 17 della c.d. "legge ponte" 6 agosto 1967, n. 765, è necessario che il regolamento edilizio provveda direttamente sulle distanze, in quanto solo in tal caso viene meno l'esigenza dell'indicata norma suppletiva, la cui finalità è d'impedire che, in mancanza di regole urbanistiche, l'attività costruttiva si svolga senza rispetto del decoro edilizio, dell'igiene e della salubrità indispensabili per l'ordinato sviluppo del territorio. Pertanto, qualora il regolamento edilizio sia privo di disposizioni sulle distanze legali, devono applicarsi quelle previste dall'art. 17 legge cit., non già la disciplina dell'art. 873 cod. civ. (Cass., S.U., n. 9871 del 1994; in senso conforme, Cass., S.U., n. 11489 del 2002;
Cass. n. 14264 del 2005; Cass. n. 7275 del 2006).
Con la sentenza del 1994 le Sezioni unite hanno disatteso l'orientamento secondo cui l'operatività della L. n. 765 del 1967, art. 17 doveva ritenersi subordinata alla mancanza degli strumenti urbanistici ai quali la norma stessa si riferiva e secondo cui, pertanto, per la sua disapplicazione sarebbe stato sufficiente che il Comune avesse un regolamento edilizio, anche non disciplinante la materia delle distanze, dovendo presumersi da esso prescritta la medesima distanza stabilita dall'art. 873 c.c., in quanto, a causa del suo silenzio, tale regolamento doveva equipararsi a quello che prevedesse un rinvio generico a detta disposizione o ne adottasse formalmente il contenuto.
Le Sezioni Unite hanno escluso di poter condividere tale orientamento, sia perché lo stesso non indicava le ragioni per le quali, in difetto di disposizioni sulle distanze, dovesse presumersi che con il regolamento edilizio si fosse imposta la medesima disciplina del codice civile con un richiamo implicito di una norma (art. 873 cod. civ.), già operante per forza propria in assenza di deroghe speciali, sia perché poneva arbitrariamente sullo stesso piano il regolamento che nulla prescrive in materia di distanze e quello che le disciplina, anche se con un rinvio generico alla norma codicistica o con l'appropriazione del suo contenuto. Le Sezioni Unite hanno, perciò, ritenuto corretto l'altro orientamento, secondo cui costituisce impedimento all'applicazione delle limitazioni dell'art. 17 il regolamento che provveda direttamente sulle distanze, giacché soltanto in tal caso viene meno l'esigenza della norma suppletiva (art. 17) la cui finalità è quella d'impedire che, in mancanza di regole urbanistiche, l'attività costruttiva si svolga disordinatamente senza il rispetto del decoro edilizio, dell'igiene e della salubrità, indispensabili per l'ordinato sviluppo del territorio comunale.
4.3.1. Le argomentazioni sulla base delle quali i ricorrenti principali sollecitano una rivisitazione di tale principio non appaiono meritevoli di condivisione, risolvendosi esse nelle stesse ragioni espresse a fondamento del principio che le Sezioni Unite, risolvendo il contrasto, hanno invece disatteso.
4.4. Correttamente la Corte d'appello ha altresì ritenuto applicabile la disposizione di cui alla L. n. 1150 del 1942, art. 41- quinquies anche alla concreta fattispecie oggetto di giudizio. Si è rilevato che non è controverso tra le parti il fatto che gli edifici ricadevano in zona industriale, e cioè in una zona nella quale l'edificazione a civile abitazione era esclusa in linea di principio, salvo essere ammessa in limitatissime ipotesi, pacificamente non ricorrenti nella specie.
Orbene, l'assunto dei ricorrenti principali è che riferendosi l'art. 41-quinquies all'edilizia residenziale, lo stesso non potesse trovare applicazione con riferimento ad una edificazione avvenuta in zona industriale. Ad avviso dei ricorrenti, dovrebbe quindi aversi riguardo alla destinazione dello strumento urbanistico e non anche alla situazione di fatto, con la conseguenza che, in tale ultima ipotesi, la distanza tra edifici avrebbe dovuto essere individuata in quella dettata dal codice civile, e quindi determinata in tre metri:
distanza, questa, nel caso di specie osservata.
L'assunto dei ricorrenti principali non può però essere condiviso. La L. n. 675 del 1967, art. 17 con il quale è stato introdotto l'art. 41-quinquies nella L. n. 1150 del 1942, prevedeva infatti che nei comuni sprovvisti di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione, la edificazione a scopo residenziale è soggetta alle seguenti limitazioni: (....) c) l'altezza di ogni edificio non può essere superiore alla larghezza degli spazi pubblici o privati su cui esso prospetta e la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da costruire (...). Come è reso evidente dalla lettera della disposizione, essa si riferisce allo scopo della edificazione, e ha riguardo a quella residenziale, non anche alla localizzazione della edificazione in una piuttosto che in altra zona del territorio comunale. Correttamente, quindi, la Corte d'appello ha ritenuto che al caso di specie dovesse essere applicata la disciplina di cui al richiamato art. 41- quinquies, anche se, in mancanza di appello incidentale, non poteva farne applicazione in tutte le sue potenzialità (e cioè disponendo l'arretramento per una misura tale da raggiungere una distanza pari all'altezza degli edifici: nella specie, 11,20 metri). La pretesa dei ricorrenti non può in alcun modo essere condivisa anche perché, ove si seguisse il ragionamento posto a fondamento del secondo profilo del primo motivo di ricorso, si dovrebbe consentire che un intervento edilizio illecito, in quanto effettuato in una zona che non consentiva un insediamento residenziale, potesse essere assoggettato ad una disciplina meno rigorosa di quella applicabile per edificazioni effettuate in zone del territorio comunale espressamente destinate ad edilizia residenziale. Ma, come rilevato, la lettera del citato art. 41-quinquies non consente una simile lettura, trovando quindi applicazione la disciplina delle distanze in esso prevista in tutti i casi di edificazione a scopo residenziale, ancorché realizzata in zona del territorio con una vocazione non residenziale.
Il primo motivo del ricorso principale deve quindi essere rigettato. 5. Il secondo motivo è infondato.
Come rilevato dalla Corte d'appello, l'originario attore aveva espressamente chiesto la dichiarazione di illegittimità delle costruzioni eseguite dai convenuti per tutte quelle parti eseguite in appoggio illegittimo ed a distanza illegale e non regolamentare dal confine e delle frontistanti e preesistenti fabbriche dell'istante, nonché di condannare i convenuti in solido ad arretrare, mediante abbattimento, tutte tali parti illegittime di costruzione. Sulla base di tale rilievo, la Corte d'appello ha quindi ritenuto che le costruzioni ulteriori eseguite dai convenuti nel corso del giudizio di primo grado altro non costituissero, perché effettuate in sopraelevazione rispetto a quelle già eseguite al momento della proposizione della domanda, che ®un mero aumento in senso verticale di quelle strutture già realizzate al momento della proposizione dell'attorea domanda ed ha tratto la conclusione della insussistenza del denunciato vizio di extra o ultrapetizione, affermando che dalla pretesa azionata dal Gr..... non potevano sottrarsi quegli aggravamenti dei lamentati abusi sopravvenuti lite pendente, non involgenti in concreto alcun mutamento del fatto costitutivo del diritto fatto valere risultando correlati all'ampio portato della domanda (di accertamento e di condanna) formulata fa parte attrice. Tale iter argomentativo si sottrae alle censure proposte dai ricorrenti, dovendosi altresì rilevare che la tesi svolta nel ricorso non tiene conto del fatto che la costruzione realizzata prima della domanda non cessa di essere illecita - per violazione di una normativa che, come nella specie, determini la distanza tra fabbricati con riferimento all'altezza degli stessi - ove venga ulteriormente elevata in corso di causa.
6. Il terzo motivo del ricorso principale è inammissibile per carenza di interesse.
La censura ha infatti ad oggetto il capo della sentenza impugnata che, accogliendo il motivo di gravame, ha eliminato la condanna all'arretramento dell'edificio nella parte relativa al "terzo tratto". La reiezione del primo motivo impone poi di escludere la sussistenza di interesse a coltivare l'impugnazione, dichiaratamente proposta per ragioni di coerenza con la censura contenuta nel primo motivo.
7. Il quarto motivo del ricorso principale è infondato. La Corte d'appello, nel rigettare il motivo di gravame avente ad oggetto la reiezione della domanda riconvenzionale degli odierni ricorrenti volta all'arretramento dei due serbatoi di acqua collocati a ridosso del muro di cinta, ha fatto applicazione del principio secondo cui l'obbligo del rispetto delle distanze previsto per pozzi, cisterne e tubi può essere affermato anche per le opere non espressamente contemplate dalla norma dell'art. 889 cod. civ. (nella specie serbatoio), ma soltanto se sia accertata in concreto, sulla base delle loro peculiari caratteristiche, l'esistenza di una uguale potenzialità dannosa che imponga una parità di trattamento (Cass. n. 3642 del 1986). La Corte ha quindi escluso che i serbatoi di acqua fossero assimilabili alle opere di cui all'art. 889 cod. civ., ed ha infine rilevato che gli appellanti non avevano in alcun modo offerto la prova della pericolosità dei serbatoi in questione, indicando altresì quali avrebbero potuto essere gli indici di pericolosità in concreto rilevanti nella specie.
Orbene, con il motivo in esame i ricorrenti principali si limitano ad affermare che anche per i serbatoi di acqua la pericolosità dovrebbe ritenersi presunta, chiedendo sostanzialmente l'estensione della disciplina relativa alle cisterne, ai pozzi e ai tubi, senza tuttavia censurare la ratio decidendi della sentenza impugnata, consistente nella diversità, per struttura e funzione, dei serbatoi rispetto alle opere di cui all'art. 889 cod. civ. e alla mancanza di prova in ordine alla pericolosità in concreto dei manufatti in questione. 8. Il ricorso incidentale è inammissibile.
Il ricorrente incidentale, invero, si limita a sollecitare una dichiarazione di cessazione della materia del contendere in ordine alla statuizione della sentenza impugnata concernente la questione dei serbato di acqua, assumendo di avere provveduto alla loro rimozione, ma non svolge alcuna censura alla sentenza sul punto. Orbene, nel mentre deve escludersi che possa in questa sede essere dichiarata cessata la materia del contendere, postulando una simile pronuncia una concorde valutazione da parte dei contendenti - nella specie insussistente - e postulando comunque il relativo accertamento indagini di fatto precluse in questa sede, si deve rilevare che l'atto denominato "controricorso per cassazione con ricorso incidentale" in realtà è del tutto privo di motivi di impugnazione, ed è quindi inammissibile.
9. In conclusione, il ricorso principale va rigettato e quello incidentale dichiarato inammissibile.
In applicazione del principio della soccombenza, i ricorrenti principali devono essere condannati, in solido tra loro, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il principale, dichiara inammissibile l'incidentale; condanna i ricorrenti principali, in solido tra loro, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 4.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte suprema di Cassazione, il 27 marzo 2012. Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2013
riferimenti normativi|blue
Cod. Civ. art. 873