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Rapporti con i magistrati - Espressioni sconvenienti ed offensive -Consiglio Nazionale Forense decisione del 22-10-2010, n. 101

Ancorché il diritto di critica nei confronti di qualsiasi provvedimento giudiziario costituisca facoltà inalienabile del difensore, tale diritto deve essere sempre esercitato, in primo luogo, nelle modalità e con gli strumenti previsti dall'orientamento processuale e mai può travalicare i limiti del rispetto della funzione giudicante, riconosciuta dall'ordinamento con norme di rango costituzionale nell'interesse pubblico, con pari dignità rispetto alla funzione della difesa. Proprio la giusta pretesa di vedere riconosciuta a tutti i livelli una pari dignità dell'avvocato rispetto al magistrato impone, nei reciproci rapporti, un approccio improntato sempre allo stile e al decoro, oltre che, ove possibile, all'eleganza, mai al linguaggio offensivo o anche al mero dileggio.

Le espressioni utilizzate dal professionista esorbitano dal diritto di critica, con conseguente inconfigurabilità della relativa scriminante, allorquando, come nella specie, l'avvocato non si limiti ad indicare, nell'ambito dell'intervista rilasciata agli organi di stampa, le ragioni per cui ritenga erronea la decisione del giudice, ma ponga in dubbio la stessa capacità del magistrato di giudicare in modo sereno e corretto, accusando l'organo giudiziario di versare in uno status soggettivo patologico e caratteriale (schizofrenia, arroganza e presunzione) tale da comprometterne la capacità di giudizio e di essere condizionato da finalità estranee al processo (giustizialismo). (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Latina, 28 novembre 2006).
 

FATTO

Con lettera prot. n. 228 in data 5 marzo 2002, il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Genova comunicava all’avv. C.T. di avere aperto nei suoi confronti una inchiesta disciplinare, a seguito della pubblicazione di articoli di stampa che riportavano commenti dallo stesso rilasciati, all’esito di sentenza pronunziata dalla Corte d’Assise d’Appello di Genova nei confronti dell’imputato S.D., difeso dal professionista. Con la stessa lettera, alla quale era allegata la copia fotostatica dell’articolo pubblicato su “Il Secolo XIX” del 24.01.2002, si chiedeva al professionista di precisare se il quotidiano avesse correttamente riportato le sue dichiarazioni e se rispondesse a verità l’affermazione che il professionista aveva rilasciato dichiarazioni alla televisione.

Con lettera 8.03.2002, l’avv. C.T. rispondeva alla comunicazione a lui diretta dal Presidente del Consiglio genovese, precisando di non avere rilasciato alcuna dichiarazione ad emittenti televisive nazionali o locali, dopo la notizia dell’avvenuta lettura del dispositivo della sentenza, e di essere stato raggiunto al telefono cellulare da un giornalista del Secolo XIX, mentre si trovava a Latina, città nella quale ha sede l’Ordine al quale egli è iscritto; allegava, a riprova di quanto affermato, copia del verbale dell’udienza del 23.01.2002, attestante l’assenza del professionista in occasione della lettura del dispositivo e la matrice del biglietto aereo attestante il rientro dell’avv. T. da Genova il giorno precedente tale lettura.

Trasmessi gli atti per competenza al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Latina ed a fronte della
richiesta di chiarimenti da quest’ultimo avanzata, con lettera protocollata il 2.07.2003, l’avv. T. precisava di non poter ricordare, dato il tempo trascorso, nei suoi esatti termini, il contenuto del
colloquio intervenuto con il giornalista de “Il Secolo XIX”»; ribadiva di essersi limitato ad esercitare «con fermezza il diritto di critica avverso una decisione giudiziaria palesemente ingiusta», doverosamente esercitato da chi, svolgendo le funzioni di difensore, «non può non contribuire all’informazione di coloro nel cui nome la giustizia è esercitata».

Con deliberazione assunta nella seduta del 12.04.2005, il Consiglio dell’Ordine deliberava di aprire
procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. T., con il seguente addebito: «violazione degli artt. 5 (doveri di probità, dignità e decoro, 20 (divieto di uso di espressioni sconvenienti ed offensive) e 53 (rapporti con i Magistrati) del Codice Deontologico, in particolare, per avere, nel corso di un’intervista rilasciata al quotidiano il Secolo XIX in data 24 gennaio 2002 affermato che:”…. la condanna di Stefano Diamante è un gravissimo atto di arroganza;…..la richiesta di condanna avanzata dal Procuratore Generale grida già da sola vendetta; …. questa sentenza dimostra una schizofrenia della giustizia; …. i giudici hanno ceduto, forse, alla tentazione di un recupero di giustizialismo; …..una sentenza di questo genere è frutto di una presunzione incredibile”. In Genova 24 gennaio 2002».

All’udienza di trattazione, fissata per il giorno 28.11.2006, non comparivano né l’incolpato, né il p.m., benché ritualmente citati. Il difensore dell’incolpato compariva, riportandosi alla memoria difensiva depositata e concludeva per l’assoluzione.

Con decisione assunta il 28.11.2006, depositata il 2.08.2007 e notificata il successivo 7.09.2007, il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Latina dichiarava l’incolpato responsabile della violazione degli artt. 5, 20 e 53 del codice deontologico forense ed applicava la sanzione dell’avvertimento.

L’Organo disciplinare territoriale, dato atto che non vi era contestazione sulla ricostruzione del fatto storico, richiamati i precetti contenuti nelle norme del codice deontologico, la cui violazione era stata contestata all’incolpato, pur rilevando che è lecito esercitare con vigore il diritto di difesa e la libertà di critica, affermava, tuttavia, che tale diritto trova come limite invalicabile il rispetto dell’altrui personalità e del decoro e riteneva che, con le affermazioni riportate dal quotidiano, il professionista avesse travalicato il limite indicato, ledendo la dignità ed il prestigio dei componenti della Corte di Assise di Appello di Genova. Con riferimento alla contestata violazione del disposto dell’art. 53 del codice deontologico, il Consiglio affermava che le espressioni utilizzate dall’avv. T. eccedevano i criteri di correttezza imposti dalla legge e dalla dignità della funzione difensiva.

Con ricorso depositato il 5.10.2007, l’avv. C.T. impugnava la decisione del Consiglio territoriale, chiedendone la riforma per insussistenza di qualsivoglia illecito disciplinare. In particolare, il ricorrente deduceva che, una volta affermata la sussistenza di un diritto di critica costituzionalmente tutelato, deve ritenersi che esso sia rafforzato per il difensore, in ragione del magistero esercitato, esso pure costituzionalmente tutelato, nell’ambito di vicende di rilevanza pubblica. Ciò premesso, il ricorrente osservava che la semplice lettura del dispositivo consentiva di rilevare che, in presenza degli stessi elementi di valutazione, erano stati assunti provvedimenti giurisdizionali di segno opposto, che giustificavano l’affermazione di una visione schizofrenica della medesima questione ad opera dell’autorità giudiziaria.

Il ricorrente affermava, inoltre, che, rispetto alla valutazione assunta dalla Corte d’Appello genovese, ben si giustificava una valutazione di arroganza per avere la stessa Corte manifestato un contegno incurante della competenza dell’esperto che il giudice di primo grado aveva nominato e che aveva assunto conclusioni favorevoli alle tesi difensive dell’imputato difeso dall’avv. T.. Quanto, poi, all’affermazione che i giudici avevano forse ceduto ad una tentazione di giustizialismo, il ricorrente rilevava che la stessa era riferita ad una filosofia processuale antitetica a quella che si sostanzia nel c.d. “garantismo” ed escludeva, pertanto, qualsiasi potenzialità offensiva del termine utilizzato. Il ricorrente aggiungeva, poi, che, nella specie, non era evocabile in alcun modo la violazione del limite di continenza, richiamando, quanto a tale profilo, un precedente della Corte Suprema, che aveva ritenuto sussistente la scriminante nell’ipotesi di un giornalista che aveva affermato, con riferimento all’impugnativa proposta dal P.M. avverso un provvedimento di diniego di misure cautelari, che si dovesse «prendere atto che ormai molti diritti fondamentali in questo Paese sono diventati un optional affidato ai capricci di chiunque». Il ricorrente concludeva, quindi, per l’accoglimento del ricorso.

All’udienza del 25.10.2008, i difensori dell’incolpato chiedevano di essere autorizzati ad acquisire
copia della sentenza in relazione alla quale il ricorrente aveva rilasciato le dichiarazioni oggetto
dell’addebito; il P.G. non si opponeva.

Il Consiglio nazionale accoglieva l’istanza, onerando della produzione dei citati documenti parte
ricorrente, che provvedeva al deposito degli stessi.

DIRITTO

Innanzitutto appare opportuno precisare che non è controverso il fatto storico da cui origina il
procedimento disciplinare e, cioè, che l’avv. T., nel corso di un’intervista rilasciata al quotidiano “Il Secolo XIX” in data 24.01.2002, abbia pronunciato le frasi riportate nel capo di incolpazione
formulato dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Latina nella deliberazione assunta nella seduta
del 12.04.2005.

Ed invero, nonostante nella memoria depositata in data 2.07.2003, presso la segreteria del
Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Latina, l’avv. T., riscontrando la richiesta contenuta nella comunicazione a lui diretta dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Genova in data 5.03.2002, abbia precisato di non essere «in grado, a distanza di tempo di ricordare, nei suoi esatti termini, il contenuto del colloquio intervenuto con il giornalista del “Secolo XIX”», tuttavia, né nel corso del procedimento disciplinare svoltosi avanti all’organo locale, né in quello celebrato avanti a questo Consiglio nazionale, ha mai negato di avere pronunciato le frasi riportate nel capo di incolpazione.

Ed anzi, nelle proprie difese, il ricorrente ha sostenuto la legittimità di ciascuna delle affermazioni
oggetto di contestazione.

Se pacifico il fatto storico, è contestata, invece, la valutazione espressa dal Consiglio dell’Ordine
sulle affermazioni pronunciate dall’avv. T., ritenute contrarie ai doveri di cui agli art. 5, 20 e 53 del codice deontologico forense.

In particolare, il ricorrente invoca, quale scriminante, il diritto di critica e contesta la portata offensiva delle espressioni oggetto di contestazione.

Le motivazioni addotte dall’avv. T. a sostegno del ricorso sono infondate.

Ed invero, seppure il diritto di critica nei confronti di qualsiasi provvedimento giudiziario sia facoltà inalienabile del difensore, «tale diritto deve essere sempre esercitato, in primo luogo, nelle modalità e con gli strumenti previsti dall’orientamento processuale; e mai può travalicare i limiti del rispetto della funzione giudicante, riconosciuta dall’ordinamento con norme di rango costituzionale nell’interesse pubblico, con pari dignità rispetto alla funzione della difesa. Proprio la giusta pretesa di vedere riconosciuta a tutti i livelli una pari dignità dell’avvocato rispetto al magistrato impone, nei reciproci rapporti, un approccio improntato sempre allo stile e al decoro, oltre che, ove possibile, all’eleganza, mai al linguaggio offensivo o anche al mero dileggio» (CNF, 22 aprile 2008, n. 23).

Nel caso di specie, l’espressione “schizofrenia della giustizia” è palesemente offensiva, sia se riferita al singolo organo giudicante, sia se riferita all’intero sistema giustizia, posto che non designa, come riduttivamente sostiene l’avv. T., “un comportamento a contenuto affatto difforme e anzi alternativo in costanza dei medesimi presupposti fattuali”, ma richiama, nel linguaggio medico e in quello comune, una grave patologia psichiatrica.

Parimenti sconveniente – laddove la “sconvenienza” deve essere intesa come utilizzo di un linguaggio rozzo e volgare – ed offensivo è l’aver qualificato l’operato della Corte di Assise d’Appello di Genova come un “gravissimo atto di arroganza”, posto che l’arroganza nel linguaggio comune è definita come “presunzione temeraria e insolente”, e l’avere ulteriormente accentuato il disvalore della condotta dell’organo giudicante, affermando che la sentenza era frutto di “una presunzione incredibile”.

Infine, è censurabile anche l’espressione con cui il ricorrente ha accusato la Corte di Assise d’Appello di avere ceduto “alla tentazione di un recupero di giustizialismo”, in quanto, se è pur vero che il termine “giustizialismo” viene utilizzato in contrapposizione al “garantismo”, tuttavia nella specie fu utilizzato per indicare in tono spregiativo un presunto abuso di potere da parte dell’autorità giudiziaria.

In conclusione, le espressioni utilizzate dal professionista e per le quali è stata irrogata la sanzione disciplinare – singolarmente esaminate e, a maggior ragione, valutate nel loro insieme – esorbitano dal diritto di critica e sono lesive del prestigio e della dignità della Corte d’Appello di Genova, in quanto il professionista non si è limitato ad indicare le ragioni per cui riteneva erronea la decisione della Corte di Assise d’Appello di Genova, ma ha posto in dubbio la capacità della Corte d’Appello di giudicare in modo sereno e corretto, accusando l’organo giudiziario di versare in uno status soggettivo patologico e caratteriale (schizofrenia, arroganza e presunzione) tale da comprometterne la capacità di giudizio e di essere condizionato da finalità estranee al processo (giustizialismo). E, proprio, per tale ragione, anche in virtù dei principi affermati dalla sentenza della Corte di Cassazione, sez. V penale, 4.12.1998 richiamata dal ricorrente, non può essere applicata la scriminante del diritto di critica.

Peraltro, non si può ritenere che la condotta del professionista possa trovare giustificazione alcuna nel contesto in cui le espressioni sono state pronunciate e, in particolare, nel tenore del provvedimento giudiziario oggetto di critica.

A tal riguardo, dalla lettura della sentenza della Corte d’Assise di Appello di Genova che ha
scatenato la reazione del professionista, non pare che l’organo giudicante meritasse una critica così ingiuriosa, avendo lo stesso dimostrato in modo puntuale, chiaro e lineare le ragioni per cui aveva disatteso le conclusioni del consulente d’ufficio, su cui era fondata la sentenza di primo grado.

Del resto, la stessa Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di Assise d’Appello Genova, ritenendo che quest’ultima ha «dimostrato in modo assolutamente lampante e inconfutabile la fallacia delle conclusioni peritali sulla scorta delle argomentazioni puntuali e pertinenti del consulente tecnico del Pm».

P.Q.M.

Il Consiglio nazionale forense, riunitosi in Camera di Consiglio;
visti gli artt. 40, n. 1 e 54 del R.D.L. 27.11.1933, n.1578 e gli artt. 59 e segg. del R.D. 22.01.1934, n.37;
rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma il 28 febbraio 2009.