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Profili di criticità della legislazione italiana in materia di sperimentazione clinica

Profili di criticità della legislazione italiana in materia di sperimentazione clinica. L’anarchia dei Comitati Etici satellite e la frammentazione del parere unico. (a cura di Avv. Marco Ferrante del Foro di Roma)

Profili di criticità della legislazione italiana in materia di sperimentazione clinica. L’anarchia dei Comitati Etici satellite e la frammentazione del parere unico. a cura di Avv. Marco Ferrante del Foro di Roma


Il 24 settembre 2010, su proposta del Ministro della Salute, Prof. Ferruccio Fazio, il Governo ha approvato il disegno di legge per il riassetto e la riforma della sperimentazione clinica dei medicinali per uso umano, che, come chiarito dal competente dicastero, “nasce dall’esigenza di adottare ulteriori e più significative misure per garantire in vari settori quali la ricerca sanitaria, la sicurezza delle cure, le professioni sanitarie, la sanità elettronica, una maggiore funzionalità del Servizio sanitario nazionale (…)”
Le pregevoli finalità perseguite, nonché la volontà dichiarata di riordinare il settore della ricerca clinica, in data 28 ottobre 2010 hanno ottenuto il plauso anche della Conferenza Stato-Regioni, che, nonostante i numerosi emendamenti già in quella sede presentati, ha espresso il proprio parere favorevole al provvedimento governativo, dando così il via libera al vero e proprio iter parlamentare.
Stando a quanto emerso dai comunicati stampa diramati, il Governo intende snellire le procedure burocratiche concernenti la ricerca clinica, nonché istituire un coordinamento nazionale per le attività di sperimentazione, finalizzato all’emanazione di indirizzi generali coerenti e alla promozione dello scambio di informazioni sulle disposizioni italiane e comunitarie, prevedendo altresì la realizzazione di una rete di comitati etici.
In attesa di potere prendere visione del testo di legge definitivo, che si auspica venga approvato in Parlamento senza troppe lungaggini - stante l’assoluta necessità di un intervento di riordino in subiecta materia - l’oggetto del presente contributo sarà circoscritto all’analisi della normativa attualmente vigente nell’ambito della sperimentazione clinica, e segnatamente a quelle dissonanze e contraddizioni emerse rispetto alla legislazione sovranazionale di settore, che hanno reso lo Stato italiano gravemente inadempiente ai propri obblighi di derivazione comunitaria.
Per ragioni sistematiche, si ritiene opportuno delineare in termini generali, senza alcuna pretesa di esaustività, il complesso procedimento che deve essere compiuto al fine di ottenere l’autorizzazione ad avviare e condurre nel nostro Paese una sperimentazione clinica di medicinali per uso umano.
Il Promotore della sperimentazione, ovvero la società o ente che si assume la responsabilità di gestire la ricerca clinica, è tenuto a presentare la domanda di autorizzazione, secondo il modello pubblicato con D.M. 21.12.2007 e corredata da tutta la documentazione ivi contemplata, al Comitato Etico competente, organo collegiale di composizione mista, che opera nel rispetto scrupoloso delle proprie funzioni, garantendo la tutela dei diritti, la sicurezza ed il benessere dei pazienti arruolati (cfr. art. 1 D.M. 12.05.2006).
Solo dopo avere valutato la validità scientifica, nonché i rischi e i benefici prevedibili e derivanti dal protocollo sottoposto al suo esame, il Comitato Etico sarà tenuto ad esprimere il proprio parere motivato entro il termine di sessanta giorni dal ricevimento della domanda.
Il suddetto parere, pertanto, integra gli estremi dell’atto provvedimentale di natura autorizzativa, rivestendo carattere obbligatorio e cogente, ed essendo in quanto tale soggetto all’ordinario controllo giurisdizionale da parte del Tribunale Amministrativo Regionale territorialmente competente.
In considerazione del bene salute che si intende tutelare, e al fine precipuo di evitare ritardi nell’inizio delle sperimentazioni cliniche multicentriche, l’art. 7 della Direttiva 2001/20/CE prevede che ove le stesse siano limitate al territorio di un unico Stato membro, “a prescindere dal numero dei comitati etici coinvolti (…) è sufficiente ottenere un unico parere”.
La chiarezza del tenore letterale della disposizione da ultimo citata non sembrerebbe suscettibile di ingenerare né dubbi né incertezze interpretative.
Sennonché, già da una lettura sommaria dell’art.7 del D. Lgs. 211/03, che era chiamato a dare attuazione alla corrispondente norma comunitaria sul Parere Unico – e fermo quanto si dirà nel prosieguo - si evince chiaramente come lo Stato italiano, nell’esercizio della sua potestà legislativa, abbia di fatto stabilito un procedimento autorizzativo ben più lungo e farraginoso rispetto a quello voluto dal legislatore europeo, privando di contenuto l’istituto del parere unico ed attribuendo svariate facoltà e poteri ai comitati etici dei centri satellite coinvolti nello studio.
In particolare, i singoli centri di ricerca diversi da quello cui afferisce lo sperimentatore, possono: i) comunicare al comitato etico “competente” eventuali osservazioni (comma 2°, art.7); ii) modificare la formulazione del consenso informato limitatamente ai soggetti in sperimentazione presso il proprio centro, e subordinare all'accettazione di tali modifiche la partecipazione alla sperimentazione (comma 3°, art.7);
iii) giudicare tutti gli aspetti del protocollo (comma 3°, art.7); iv) accettare o rifiutare nel suo complesso il parere unico favorevole reso dal comitato etico “competente” (comma 3°, art.7).

Il risultato pratico è sconfortante: in Italia, per condurre una sperimentazione clinica presso più centri non basta il parere favorevole del centro coordinatore, essendo all’uopo necessario ottenere anche quello di tutti gli altri comitati coinvolti, che non di rado - lungi dal limitarsi ad accettare o rifiutare il parere unico nel suo complesso - comunicano direttamente con lo Sponsor e richiedono, in via autonoma, integrazioni o chiarimenti sulla documentazione prodotta.

Il procedimento prescelto dal legislatore italiano per l’acquisizione del parere unico (cfr. art.7 D. Lgs. 211/03), unitamente alla prassi invalsa presso taluni Comitati Etici, rende del tutto incerto il concreto avvio dello studio clinico presso i singoli centri individuati, anche là dove il centro coordinatore abbia già espresso il proprio parere favorevole.

I conseguenti ed inescusabili ritardi causati dal modus operandi testé descritto, in sostanza, costituiscono l’evidente negazione (rectius:violazione) di quelle finalità di speditezza che il legislatore europeo aveva perseguito con la disciplina del parere unico (cfr. VIII considerando Direttiva 2001/20/CE).

Il sovrapporsi di autorità e competenze risulta ancor più esasperato laddove si consideri, peraltro, come la normativa nazionale richiamata, segnatamente all’art. 2, comma 1, lett. t), assegni ad un’ulteriore pluralità di soggetti – Ministero della Salute, Istituto Superiore della Sanità, direttore generale o rappresentante legale della struttura sanitaria pubblica interessata, tutti in qualità di “Autorità competente” – poteri d’intervento nella medesima procedura autorizzativa.

Tali gravi discrasie rispetto alle previsioni sovranazionali, sono state altresì rilevate dalla Commissione Europea , là dove, a seguito dell’indagine sulla sperimentazione condotta a livello nazionale, viene stigmatizzata la molteplicità dei canali di comunicazione con i Comitati etici satellite che mettono in pericolo la funzione di coordinamento del centro primario e sono poco idonei a ridurre ritardi nell'inizio di una sperimentazione.

Stando ai dati ufficiali pubblicati dall’Osservatorio Nazionale della Sperimentazione Clinica , il tempo medio per il rilascio del parere unico è sceso dai 44 giorni del 2007 ai 35 giorni del 2008; mentre sostanzialmente invariato è rimasto quello dei centri satellite per l’accettazione o rifiuto del parere espresso dal centro coordinatore (dai 53 giorni del 2007 ai 50 giorni del 2008).
I dati rilevati, tuttavia, non tengono conto di quei pareri rilasciati oltre un anno dopo la presentazione della domanda, né del tempo di sette giorni necessario alla segreteria tecnica del Comitato Etico per valutare la regolarità formale della documentazione presentata .
Risulta pertanto evidente come la reale tempistica per l’avvio di uno studio clinico risulti di gran lunga superiore ai 60 giorni previsti dalla Direttiva 2001/20/CE (art.6, comma 5), nonché dal D. Lgs. 211/2003 (art.7) - secondo cui entro trenta giorni dal ricevimento della domanda deve essere emesso il parere unico, e nei successivi trenta giorni i centri satellite devono comunicare le determinazioni che intendono assumere in proposito.
Peraltro, il suddetto termine di sessanta giorni ha natura ordinatoria - stante la mancata previsione di una sanzione in caso di sua inosservanza - ed il suo puntuale adempimento, come sopra rilevato, costituisce una mera eventualità, con il rischio conseguente che l’Italia perda competitività a livello internazionale.
A tal proposito, si consideri che nei Paesi del Nord Europa (Danimarca, Norvegia, Svezia) , là dove per l’avvio della sperimentazione è effettivamente sufficiente il solo parere espresso dal centro coordinatore, che sarà valido presso tutti gli altri centri locali coinvolti, il tempo mediamente necessario per l’ottenimento di un parere unico risulta essere di trenta giorni circa – sebbene le legislazioni nazionali prevedano formalmente un tempo limite di sessanta giorni .
Da quanto sopra osservato sembra emergere chiaramente che quegli Stati membri che si sono realmente conformati alla previsione di un parere unico, riescono a completare il procedimento di valutazione del protocollo scientifico in tempi ragionevoli, che peraltro risultano sostanzialmente coincidenti con quelli impiegati dal centro coordinatore italiano.
Di contro, il tempo ulteriormente richiesto in Italia dal centro satellite per decidere se accettare o rifiutare il parere unico già emesso, risulta non solo dannoso per il concreto e certo avvio della ricerca, ma soprattutto lascia presumere che i centri partecipanti svolgano, di fatto, funzioni e competenze analoghe a quelle del comitato cui afferisce lo sperimentatore.
Diversamente opinando, del resto, non si comprenderebbe come mai i centri partecipanti, che dovrebbero limitarsi a valutare il parere unico e la formulazione del consenso informato, chiedendone eventualmente la sua modifica, abbiano la facoltà di esprimere le loro determinazioni in un tempo pari a quello riconosciuto al centro coordinatore, pur essendo chiamati a giudicare ambiti più limitati della sperimentazione da avviare.
L’esito, invero discutibile, di questo sovrapporsi continuo di funzioni e competenze tra i singoli comitati etici coinvolti, è che il legislatore italiano ha, di fatto, abdicato alla ricerca multicentrica, di cui ha mantenuto solo la relativa denominazione, in favore di una pluralità di ricerche monocentriche da svolgere eventualmente in parallelo.
La schizofrenia normativa emerge in modo palese dalla semplice analisi delle disposizioni di cui all’art.7 D. Lgs. 211/03, sol che si consideri che al primo comma, quale pietra angolare del sistema, viene proclamato che “la sperimentazione non può avere inizio in nessun sito prima dell’espressione di detto parere (n.d.a. unico)”, salvo poi sconfessare timidamente al capoverso il buon proposito perseguito - là dove si attribuisce ai centri partecipanti la facoltà di comunicare in via interlocutoria al centro coordinatore “eventuali osservazioni”- per poi sovvertirlo espressamente al terzo comma, riconoscendo ai centri satellite la possibilità di rifiutare il parere unico e, di conseguenza, impedire la conduzione dello studio presso il singolo centro.
In buona sostanza, il legislatore italiano ha congeniato un procedimento che poco si attaglia al dettato di cui all’art.7 della Direttiva 2001/20/CE, rinnegando il valore autosufficiente del parere unico ed attribuendo ai centri partecipanti una sorta di “diritto di veto” che contrasta radicalmente con l’idea stessa di sperimentazione multicentrica.
Ebbene, in attesa che il disegno di legge in materia sanitaria venga approvato dal Parlamento, l’auspicio è che i centri satellite comincino, con un atto di responsabilità, ad attenersi rigorosamente al dettato legislativo, abbandonando la consuetudine di esercitare quei poteri e facoltà che sono propri del centro coordinatore, a tutto vantaggio della salute e cura dei pazienti arruolati nelle diverse sperimentazioni cliniche da condurre in Italia.

Avv. Marco Ferrante