licenziamento disciplinare – illegittimità per diritto d’autore controverso
Licenziamento disciplinare – cessione diritti commerciali relativi al software – controversa titolarità del diritto di proprietà intellettuale tra datore di lavoro e lavoratore – prova - Corte di Cassazione, sez. L, sentenza n. 11162 del 9 maggio 2018, commento a cura della Dott.ssa Claudia Borghini.
La Corte di Cassazione ha statuito che non si possa licenziare il lavoratore quando la titolarità del diritto di proprietà intellettuale sia controversa e non supportata da prove.
Allorquando, infatti, il datore di lavoro irroghi un licenziamento disciplinare muovendo dal presupposto che lo stesso sia il proprietario del software ideato dal lavoratore e che quest’ultimo ne abbia quindi l’uso solo per ragioni di servizio, contestando al lavoratore di aver ceduto i diritti commerciali relativi al software medesimo, deve provare il fatto decisivo alla base del licenziamento. Il fatto decisivo è costituito dalla proprietà del software in capo al datore di lavoro anziché al lavoratore, in difetto della cui prova la contestazione disciplinare non può ritenersi legittima. Difatti, non può essere contestato al dipendente un fatto il cui presupposto sia insussistente.
E’ da sottolineare che, secondo la giurisprudenza della Corte, “ai fini della attribuzione al lavoratore, anziché al datore di lavoro, dei diritti patrimoniali conseguenti ad una sua opera creativa tutelata dal diritto di autore, occorre verificare in modo rigoroso l’esistenza di uno stretto nesso di causalità fra l’attività dovuta e la creazione realizzata, accertando se questa costituisca o meno l’esito programmato della prima” (Cass., n. 12809 del 2004). E’ vero infatti che è il lavoratore a dover provare la ricorrenza di un’opera creata del tutto al di fuori dello svolgimento del rapporto di lavoro, fuori dell’orario di lavoro o del luogo di lavoro, e senza l’utilizzazione di strumenti, documentazione e strutture di ricerca e comunicazione appartenenti al datore di lavoro.
Tuttavia, quando il licenziamento intimato ha come presupposto l’indebita cessione di diritti patrimoniali di proprietà del datore di lavoro, è quest’ultimo – e non il lavoratore che ha subito la sanzione disciplinare espulsiva – a dovere provare i presupposti di legittimità del licenziamento irrogato. La titolarità del diritto di proprietà intellettuale e di sfruttamento commerciale costituisce, in casi come quello in esame, fatto costitutivo della legittimità del licenziamento intimato, e per ciò stesso deve essere provato. In mancanza dell’adempimento di tale onere, risulta carente in radice il presupposto di fatto posto a base del provvedimento espulsivo, rendendolo illegittimo.