Delitti contro l’amministrazione della giustizia – Casi di non punibilità
Delitti contro l’amministrazione della giustizia – Favoreggiamento personale – Casi di non punibilità ex art. 384 c.p. – Definizione di prossimo congiunto ex art. 307 c.p. – Rapporto di convivenza di fatto – Estensibilità e sussistenza – Introduzione della L. 76 del 2016 (c.d. Legge Cirinnà) – Cassazione penale, sez. VI, sentenza n. 11476 del 14/03/2019 (ud. 19/09/2018) Commento a cura dell’Avv. Marco Grilli
Fatto. La Corte di appello di Venezia confermava la sentenza con cui il Tribunale di Vicenza aveva condannato per favoreggiamento personale, ex art. 378 c.p., C.S. per aver ospitato un evaso presso la propria abitazione ed aver fornito false informazioni ai Carabinieri in ordine alla presenza dello stesso.
Ricorre per cassazione l’imputato lamentando violazione di legge e vizio di motivazione in quanto la Corte non ha riconosciuto al C.S. la qualifica (ex art. 307 c.p.) di prossimo congiunto del ricercato, conseguentemente non riconoscendogli l’esimente di cui all’art. 384 c.p.
Invero, l’imputato invocava la detta esimente sulla base della circostanza di essere il convivente more uxorio della sorella del ricercato e ritenendo che le recenti modifiche intervenute nel diritto di famiglia, in particolare con la L.76/2016, avessero esteso l’applicabilità dell’istituto al di là dell’ambito della famiglia legittima.
Decisione. Il ricorso è fondato.
La Suprema Corte, preso atto dell’incontrovertibilità del rapporto di stabile convivenza allegato dal ricorrente, passa ad interrogarsi sulla possibilità di estendere l’applicabilità di istituti originariamente previsti nell’ambito della famiglia legittima alla convivenza more uxorio.
Il tema in discorso, venuto in evidenza nel caso de quo con riferimento all’esimente dell’art. 384 c.p., risulta di particolare interesse anche in relazione ad una serie di ulteriori istituti (si cita specificamente l’art. 649 c.p.) ed è già stato affrontato in pronunce di legittimità precedenti alla L.76/2016.
L’analisi prende le mosse dalle numerose pronunce di costituzionalità che, pur non mostrandosi indifferenti alla circostanza che la convivenza more uxorio costituisca un rapporto comunemente accettato e largamente utilizzato, affermano che ciò non consente una perdita di distinzione tra quest’ultima ed il matrimonio, in quanto figure basate su vincoli e stabilità differenti. Peraltro, ad avviso della Corte Costituzionale spetterebbe al legislatore l’adeguamento (anche e soprattutto in ambito penale) delle norme ai mutati costumi della società, salvo l’inerzia di quest’ultimo, al fine di non trascinare nel tempo discipline maturare in contesti non più aderenti alla società attuale che potrebbero finire con il configurare una regolamentazione manifestamente irragionevole.
In tale contesto la L. 20 maggio 2016 n.76 ha introdotto, oltre all’unione civile tra persone dello stesso sesso, la disciplina delle convivenze di fatto, sostanzialmente creando una differenziazione rispetto alle “convivenze di mero fatto” (ossia non formalizzate dalla dichiarazione anagrafica ex artt. 4 e 13 comma 1 lett. b) D.P.R. 223/1989, così come richiamato dall’art. 1 comma 37 L.76/2016).
La Legge Cirinnà ha introdotto rilevanti modifiche nell’ordinamento penale con riferimento all’equiparazione della figura del coniuge con la parte dell’unione civile. Nello specifico del caso in esame ha integrato la definizione di prossimo congiunto prevista dall’art. 307 c.p., la quale dispiega i suoi effetti in tutte le norme che vi fanno riferimento.
Sostanzialmente la legge in discorso, da un lato, ha attratto le unioni civili nell’ambito della famiglia “tradizionale”, dall’altro, non intervenendo sulle convivenze di fatto (o intervenendo solo con riferimento a disposizioni marginali) ha lasciato permanere i medesimi dubbi preesistenti alla riforma.
Tuttavia, ad avviso della Corte, le convivenze more uxorio (intendendo ai fini dell’ordinamento penale sia quelle “regolamentate” che quelle “di mero fatto”) sono espressione di una condizione fattuale omogenea a quella del vincolo matrimoniale, dando vita ad una situazione caratterizzata da una comunione materiale e spirituale paragonabile a quella prevista dal rapporto di coniugio.
La novità legislative non possono costituire un impedimento per estendere ad ogni altra forma di aggregazione la disciplina che si ricava dal complesso quadro storico-evolutivo sul tema.
In proposito, già prima della Legge Cirinnà la convivenza more uxorio, ove attentamente e rigorosamente provata, poteva dare applicazione alle norme espressamente previste per il rapporto coniugale (tra cui anche l’art. 384 c.p.); infatti, qualora trattasi di norme penali che producono effetti in bonam partem la giurisprudenza ordinaria e costituzionale avevano già equiparato il coniuge al convivente, ovviamente in presenza della rigorosa prova di quella comunione materiale e spirituale di cui si parlava poc’anzi.
Altrimenti argomentando, ossia fondando un’esclusione della detta equiparazione su dati meramente formali, quali la mancata previsione legislativa nella nuova disciplina, si rischierebbe di andare incontro a profili di dubbia costituzionalità con riferimento all’art. 3 Cost., trattando in maniera difforme il convivente dal coniuge, anche prescindendo dalla durata o dalla stabilità del legame.
Gli approdi interpretativi fin qui compendiati appaiono, a parere della Suprema Corte, conformi all’art. 8 CEDU, il quale accoglie una nozione ampia di famiglia, comprensiva anche di quei rapporti di fatto privi di formalizzazione legale.
Peraltro, le norme della CEDU sono pacificamente considerate fonti interposte destinate ad integrare il parametro dell’art. 117 Cost., tramutandosi in disposizioni immediatamente cogenti per l’interprete purché non in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.
Per tali ragioni, la Corte ritiene che un’interpretazione sistematica di tutte le disposizioni fin qui richiamate comporti l’applicabilità della scusante di cui all’art. 384 c.p. anche al convivente di fatto, in ragione dell’assimilabilità tra questo e il coniuge nel pieno rispetto delle norme della CEDU e non in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione.
Conseguentemente, essendo stata rigorosamente offerta la prova di una convivenza stabile e di lunga durata (da cui sono nati anche 5 figli) si perviene all’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, in quanto l’imputato va assolto perché il fatto non costituisce reato, avendo agito in presenza della scusante prevista dall’art. 384 c.p.