Atti processuali – Traduzione degli atti – Termini entro cui dedurre la nullità del decreto che dispone il giudizio per omessa traduzione
Atti processuali – Traduzione degli atti – Termini entro cui dedurre la nullità del decreto che dispone il giudizio per omessa traduzione – Necessità della traduzione degli atti successivi in lingua nota all’imputato alloglotta – Limiti ed esclusioni – Cassazione penale, sez. V, sentenza n. 15056 del 05/04/2019 (ud. 11/03/2019) Commento a cura dell’Avv. Marco Grilli
Fatto. In parziale riforma della sentenza di primo grado, la Corte di Appello di Bari, pur confermando il giudizio di responsabilità di N.K. per il reato ascrittole, riconosce alla predetta il beneficio della sospensione condizionale della pena.
Propone ricorso per Cassazione il difensore dell’imputata il quale deduce violazione di legge processuale in relazione agli artt. 143, 179 e 601 c.p.p., sulla base dell’omessa traduzione degli atti processuali in una lingua conosciuta dall’imputata che è cittadina afgana. Nello specifico rileva la mancata traduzione dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p., del decreto che dispone il giudizio, della sentenza di primo grado, del decreto di citazione in appello e della sentenza di appello.
Decisione. Il ricorso è inammissibile.
La Corte, pur rilevando come dagli atti emerga la mancata comprensione della lingua italiana da parte dell’imputata, ritiene di dover esaminare separatamente le molteplici doglianze attinenti la traduzione dei differenti atti processuali.
Nello specifico, viene premesso che l’imputata era rimasta assente per tutta la durata del giudizio e che un problema di mancata traduzione potesse porsi con riferimento all’avviso di conclusione delle indagini e al decreto di citazione a giudizio. Invero, la mancata traduzione in una lingua conosciuta dall’imputata di questi ultimi atti comporta una nullità di ordine generale di tipo intermedio, ai sensi degli artt. 178 lett. C) e 180 c.p.p., che è sottoposta ad un preciso termine di deducibilità a pena di decadenza, ai sensi dell’art. 182 c.p.p..
Nel caso di specie non risulta che il difensore abbia eccepito la nullità in discorso nel detto termine, pertanto, la stessa non è più deducibile.
Per quanto attiene all’obbligo di traduzione della sentenza di primo grado, ritiene la Corte di conformarsi alla consolidata giurisprudenza di legittimità che pone in correlazione l’obbligo di traduzione con il diritto dell’imputato di appellare personalmente la sentenza di condanna. In proposito, la traduzione della sentenza di primo grado avrebbe una funzione servente rispetto al diritto dell’imputato alloglotta di presentare impugnazione personalmente e, conseguentemente, occorre rilevare come sia legittimato solo l’imputato stesso, e non il suo difensore, a dedurre la violazione dell’obbligo di traduzione di cui al II comma dell’art. 143 c.p.p..
Nel caso in esame la doglianza avanzata dal difensore rende la stessa proposta da un soggetto non legittimato.
Con riferimento al decreto di citazione per il giudizio di appello, tale atto non deve essere necessariamente tradotto nella lingua conosciuta dall’imputato, non contenendo l’avviso alcun elemento di accusa ma solo la data di fissazione dell’udienza.
Conseguentemente, l’imputata avrebbe potuto assumere informazioni presso il difensore presso cui aveva, peraltro, eletto domicilio.
Infine, con riferimento alla sentenza di appello, anche in considerazione delle modifiche apportate dalla L.103/2017, che ha escluso la possibilità per l’imputato di presentare personalmente ricorso per Cassazione, si deve ritenere che la mancata traduzione della sentenza di appello, proprio in ragione della funzione servente rispetto all’assistenza dell’imputato, così come già evidenziata sopra, non comporti automaticamente una lesione del diritto di difesa.
Nel caso di specie, essendo stato proposto tempestivamente ricorso per Cassazione, e non essendo stata allegata alcuna specifica indicazione circa effettivi pregiudizi del diritto di difesa conseguenti alla mancata traduzione della sentenza di appello, si deve ritenere che vada esclusa l’esistenza della predetta violazione.
Dalle considerazioni che precedono viene fatta discendere l’inammissibilità del ricorso.