Diffamazione aggravata - dichiarare che un rivale politico pratica il «voto di scambio»
Diffamazione aggravata - dichiarare che un rivale politico pratica il «voto di scambio» - esimentedel diritto di critica (politica) non applicabile
Diffamazione aggravata - dichiarare che un rivale politico pratica il «voto di scambio» - esimente del diritto di critica (politica) non applicabile (Cassazione – Sezione quinta penale (up) – sentenza 3 giugno 2003, n. 24084)
Svolgimento del processo
Dxxxxxx Athos veniva tratto a giudizio innanzi il Tribunale di Roma, su querela di Pxxxxxx Massimo, per rispondere del reato di diffamazione aggravata, per avere pronunciato - nel corso della trasmissione televisiva “Giorno per Giorno - Elezioni ‘96” in onda il 28.3.1996 - la frase: «Non è vero che ci sono collegi sicuri ... io, per esempio, ho il collegio Ostiense-Eur nel quale ho come avversario un senatore uscente, della Dc, del quale non faccio il nome, che pratica il voto di scambio ... ci sono settemila voti di differenza».
Con sentenza in data 29.3.2001, il Tribunale, in composizione monocratica, assolveva l’imputato con formula perché il fatto non costituisce reato, ritenendo che egli avesse inteso unicamente replicare al contraddittore nel contesto di una discussione incentrata sulla natura elettoralistica o meno di alcune decisioni di governo dell’uscente gabinetto Dini e, quindi, del vantaggio di taluni candidati di poter contare su un collegio elettorale “sicuro” per via di un metodo clientelare e di pratica del voto di scambio; l’espressione, in definitiva, si era risolta in una dura critica politica all’avversario di collegio, peraltro mai nominato, evocativa di operazioni poco lineari e, tuttavia, in quanto intesa a denunciare un metodo e non specifica ipotesi di corruzione elettorale, non debordante dai limiti della sia pure aspra polemica o critica politica.
L’impugnazione del Pm - intesa a sostenere la sicura valenza diffamatoria dell’espressione indirizzata nei confronti del Pxxxxxx nonché l’inapplicabilità della esimente del diritto di critica in presenza di attribuzione di un fatto “infamante” ed addirittura costituente reato - veniva respinta dalla Corte di -Appello di Roma con sentenza 15.7.2002. Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma ha proposto ricorso per cassazione, denunciando violazione della legge penale nonché illogicità della la frase incriminata, infatti, sarebbe motivazione: stata illogicamente apprezzata come genericamente indirizzata a denunciare un certo malcostume politico, piuttosto che diretta a rimproverare al Pxxxxxx di praticare il voto di scambio, e, peraltro, la sentenza conterrebbe una interna contraddizione laddove i secondi giudici, pur riconosciuta la perfetta identificabilità dell’avversario politico nel Pxxxxxx, non hanno poi negato l’effetto realmente diffamatorio nel concludere che «il non essere mai stato pronunciato il nome del Pxxxxxx nel corso della trasmissione televisiva, a carattere nazionale, se non elide del tutto, di certo riduce di molto l’impatto di una tale affermazione ai fini della configurabilità dell’ipotizzato reato di diffamazione aggravata, trattandosi di un riferimento ad un candidato che solo nell’ambito del suo collegio di appartenenza può sostenere di avere visto lesa la sua immagine di uomo politico».
L’imputato ha quindi depositato, in data 14.4.2003, memoria difensiva con la quale resiste al ricorso.
Alla odierna udienza, sulle conclusioni delle parti quali trascritte in epigrafe, il procedimento è stato trattenuto in decisione.
Motivi della decisione
Il ricorso merita accoglimento.
La Corte territoriale, invero, è stata chiamata, in forza delle censure mosse dalla parte appellante, a verificare se effettivamente la frase pronunciata dall’imputato fosse significativa di un ingiustificato attacco ad personam del Pxxxxxx accusato di praticare il voto di scambio e se, in tale ipotesi, dovesse trovare applicazione l’esimente del diritto di critica (politica).
Tali risposte non risultano adeguatamente e logicamente fornite dalla sentenza impugnata..
Quanto al primo profilo, infatti, la Corte territoriale, pur chiarito il contesto nel quale la frase venne pronunciata, ha tuttavia concluso che l’imputato «altro non ha voluto intendere, e lungi dal doversene inferire un intento addirittura calunniatorio come invece sostenuto dal Pm appellante, se non che era difficile superare un antagonista aduso a quello stesso clientelismo elettorale di cui era stata accusata in passato l’intera (o quasi Dc come pratica per la ricerca del consenso degli elettori, ma senza addebitare lo specifico fatto-reato previsto all’articolo 96 del Dpr 361/57 e consistente nella ben più grave corruzione elettorale», sicché avrebbe inteso stigmatizzare una riprovevole pratica di raccolta di consenso elettorale.
Orbene, tale conclusione non è coerente alla argomentazione di supporto, ricavandosi dal testo letterale che i secondi giudici hanno tuttavia riconosciuto che “l’intenzione” di censurare certo malcostume politico è stata resa qualificando l’antagonista “aduso” al sistema di clientelismo elettorale e, dunque, coinvolgendolo personalmente in fatti oggettivamente idonei ad incidere sulla considerazione dei consociati circa la personalità morale e professionale di chi ne sia l’autore.
Improprio, del resto, ai fini dell’espresso giudizio di incapacità offensiva della frase, risulta l’operato raffronto della medesima con altra che non è stata pronunciata, e cioè con quella che “avrebbe potuto” attribuire lo specifico reato di corruzione elettorale, poiché, in realtà, l’apprezzamento doveva essere condotto unicamente sul contenuto della dichiarazione quale effettivamente resa, e l’esclusione di un significato addirittura calunniatorio della espressione non esimeva il giudice di appello dal valutare se la stessa non fosse dotata in ogni ‘caso di una carica offensiva meno rilevante e tuttavia apprezzabile; e, peraltro, non risulta minimamente sviluppato, per applicarlo alla fattispecie, il concetto di desensibilizzazione pure inizialmente evocato.
Sotto il secondo profilo, poi, la motivazione è parimenti, ed anzi maggiormente viziata, poiché la Corte territoriale, riconosciuta la perfetta identificabilità nel Pxxxxxx dell’antagonista politico pure non espressamente menzionato, il rilievo di un ridotto impatto lesivo dell’espressione, quale effetto di una percezione ricompresa soltanto nell’ambito del collegio di appartenenza del soggetto passivo, non assicura certamente della inidoneità diffamatoria della frase, dovendo la stessa valutarsi in relazione proprio al contesto sociale e di vita di relazione del soggetto destinatario; con inevitabile ricaduta sul tema dell’ esimente che, anche riferita al diritto di critica, deve rispettare il limite della continenza espositiva e non deve trascendere in attacchi personali diretti a colpire il soggetto sul piano individuale.
La sentenza, pertanto, deve essere annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Roma per nuovo esame che terrà conto dei rilievi sopra enunciati.
Rimessa all’esito la statuizione sulle spese sostenute dalla parte civile.
PQM
La Corte, annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Roma per nuovo esame.