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Licenziamento per giustificato motivo oggettivo costituito dalla cessazione di un appalto - Impossibile - Ricercare ogni possibilita' di riutilizzazione dei dipendenti i cui posti di lavoro siano venuti meno

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo costituito dalla cessazione di un appalto - Impossibile - Ricercare ogni possibilita' di riutilizzazione dei dipendenti i cui posti di lavoro siano venuti meno

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo costituito dalla cessazione di un appalto - Impossibile - Ricercare ogni possibilità di riutilizzazione dei dipendenti i cui posti di lavoro siano venuti meno Cassazione – Sezione lavoro – sentenza 17 marzo – 9 giugno 2005, n. 12136

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 20 dicembre 2001 il Tribunale di Ivrea, accogliendo il ricorso proposto da Carmen Pxxxxx, condannava la Srl Sxxxx a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro nonché a risarcirle il danno per l’illegittimità del licenziamento intimatole con lettera in data 8 ottobre 1999, danno liquidato nella misura di cinque mensilità della retribuzione di fatto.

Avverso tale sentenza proponeva appello la Srl Sxxxx.

Con sentenza depositata in data 24 marzo 2003 la Corte d’Appello di Torino respingeva il gravame. La Corte dì merito, premesso che il licenziamento della lavoratrice era stato intimato in relazione alla cessazione del contratto di appalto della Sxxxx con una casa dì riposo presso la quale la ricorrente era stata impiegata come addetta alle pulizie, rigettava l’eccezione dell’appellante dì difetto di legittimazione passiva, eccezione basata sull’articolo 4 del contratto collettivo di settore, a norma del quale, in caso di cessazione dell’appalto, l’impresa subentrante si impegna a garantire l’assunzione, senza periodo di prova, degli addetti esistenti in organico sull’appalto. Affermava in proposito la Corte di merito che la norma sopra citata apprestava una garanzia ulteriore rispetto ai lavoratori appartenenti all’impresa che perde l’appalto, ma che restavano comunque fermi gli obblighi della ditta cessante ‘ nei confronti dei propri dipendenti. Sotto altro profilo confermava la decisione del primo giudice che aveva ritenuto non raggiunta la prova della soppressione del posto e
dell’impossibilità di utilizzare altrimenti la lavoratrice in ambito aziendale. Osservava in proposito che vi erano state assunzioni immediatamente successive alla cessazione dell’appalto e ciò dimostrava che sarebbe stato ben possibile impiegare diversamente la Pxxxxx.

Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la Srl Sxxxx basato su due motivi. Resiste con controricorso la lavoratrice. La società ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

Col primo motivo la società ricorrente denuncia violazione degli articoli 1362 e segg. Cc con riferimento al CCNL per i dipendenti delle imprese di pulimento, disinfezione, disinfestazione e derattizzazione del 24 ottobre 1997, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (articolo 360, nn. 3 e 5 Cpc).

Richiamato il testo degli articoli 3 e 4 del suddetto contratto, deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui, nel rigettare l’eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata dalla società, non ha tenuto conto del fatto che il lavoratore licenziato per cessazione dell’appalto ha un diritto soggettivo perfetto all’assunzione da parte dell’impresa subentrante.

Il motivo è infondato e deve essere pertanto rigettato.

In linea di principio deve ricordarsi che, per consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità (cfr., ex multis, Cassazione, 17749/03; Cassazione 17993/03; Cassazione 19478/03), l’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune è riservata all’esclusiva competenza del giudice di merito, essendo il sindacato dì legittimità limitato alla sola verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui agli articoli 1362 e segg. Cc, nonché alla coerenza e logicità della motivazione. Nella specie la sentenza impugnata, nell’interpretare la norma del contratto collettivo sopra richiamata (articolo 4) nella parte in cui stabilisce che, in caso dì cessazione dell’appalto, l’impresa subentrante si impegna a garantire l’assunzione, senza periodo di prova, degli addetti esistenti in organico sull’appalto, ha correttamente affermato che tale norma stabilisce una tutela ulteriore a favore del lavoratore licenziato dall’azienda che ha perso l’appalto, ma non elimina la responsabilità di quest’ultima per il licenziamento irrogato.

La validità di tale conclusione non può essere in alcun modo inficiata dall’assunto della ricorrente secondo cui il lavoratore licenziato per perdita dell’appalto avrebbe un diritto soggettivo perfetto all’assunzione da parte dell’impresa subentrante. Tale diritto infatti non esclude, ma sì aggiunge al diritto dello stesso lavoratore di impugnare il licenziamento subito e di chiamare a tal fine in giudizio il datore di lavoro che ha irrogato tale licenziamento. Né giova alla tesi della ricorrente il riferimento alla circolare del Ministero del lavoro del 28 maggio 2001 n. 5/2651/70. A prescindere dal fatto che il contenuto di tale circolare non autorizza le conclusioni della ricorrente circa la propria carenza di legittimazione passiva, deve osservarsi che la responsabilità del datore di lavoro per il licenziamento irrogato, e quindi la sua legittimazione passiva nel giudizio di impugnazione del licenziamento, deriva direttamente dalla legge (in particolare, legge 604/66; articolo 18 della legge 300/70).

Col secondo motivo la società ricorrente denuncia violazione degli articoli 3 della legge 604/66 e 18 della legge 300/70 nonché omessa e insufficiente motivazione (articolo 360, nn. 3 e 5, Cpc). Lamenta in particolare l’erroneità della decisione impugnata nella parte in cui ha concluso che non era stata fornita la prova della soppressione del posto dì lavoro e dell’impossibilità di destinare la lavoratrice ad altro posto nell’ambito dell’organizzazione imprenditoriale della società. Osserva in particolare che la lavoratrice era stata sempre addetta all’appalto presso la casa di cura e che tale appalto era cessato come risultava dai documenti prodotti. Osserva inoltre che se aveva proceduto a nuove assunzioni ciò era stato fatto in relazione all’acquisizione di nuovi appalti ed in ottemperanza agli obblighi che il contratto collettivo impone alle imprese subentranti.

Anche tale motivo deve essere rigettato. In linea di principio ritiene questa Corte che, nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo costituito dalla cessazione di un appalto, l’onere dell’imprenditore di dimostrare l’impossibilità di un’altra utilizzazione (nella propria organizzazione) dei lavoratori licenziati non è escluso dall’applicabilità di norme collettive tese a garantire la rioccupazione del lavoratore presso l’impresa subentrante nell’appalto, atteso il carattere inderogabile della disciplina legislativa in tema di licenziamenti individuali, la quale, considerando giustificato il licenziamento solo se questo costituisca una extrema ratio, impone all’imprenditore l’obbligo primario di ricercare ogni possibilità di riutilizzazione dei dipendenti i cui posti di lavoro siano venuti meno (cfr., per un’enunciazione del principio a proposito di appalti concernenti la gestione di mense aziendali, Cassazione, 2881/92; Cassazione 2550/90).

Non giova pertanto alla tesi della società ricorrente dimostrare che l’appalto delle pulizie presso la casa di cura nella quale aveva prestato la propria opera la lavoratrice era cessato. Incombeva infatti sulla stessa l’onere di provare l’impossibilità di reimpiegare comunque la Pxxxxx nell’ambito dell’intera organizzazione aziendale. La Corte di merito, nel confermare sul punto la sentenza di primo grado, ha ritenuto che tale prova non sia stata fornita osservando altresì che la datrice di lavoro aveva proceduto a nuove assunzioni in epoca immediatamente successiva alla cessazione dell’appalto.

L’odierna ricorrente si limita a criticare tale ultima affermazione deducendo che la Corte di merito avrebbe dovuto valutare se le nuove assunzioni erano state imposte dalla norma sopra richiamata in relazione all’acquisizione di nuovi appalti. Tale censura non è peraltro idonea a superare il punto centrale sopra evidenziato concernente la mancata prova dell’impossibilità dì reimpiego della lavoratrice nell’ambito aziendale.

In applicazione del criterio della soccombenza la società ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in euro 19.00 oltre euro 2.500,00 per onorari e oltre spese generali e accessori di legge.